

Fra le numerose proposte al Premio Strega 2025, spicca l’ultimo romanzo di Giorgio Ghiotti, Casa che eri, edito nel dicembre 2024 da Hacca, la casa editrice che ha accolto nel suo catalogo i precedenti Gli occhi vuoti dei santi e Atti di un mancato addio.
Nella motivazione con la quale Giulia Caminito propone il testo, si legge:
Colpisce di questa narrazione la sua capacità di raccontare una generazione a lui prossima, quella dei quaranta-cinquantenni, che già si abbandonano a una certa nostalgia del passato appena trascorso e che però ancora vivono a pieno la maggior parte delle proprie giornate. Al centro del romanzo c’è una amicizia, anzi più amicizie che negli anni hanno avuto un ruolo di casa e di famiglia e che sembrano essere arrivate a un cambiamento doloroso. Ma all’interno del libro sono le immagini, più che la trama, a guidare la lettura, immagini corporee di incontri fortuiti e sessualità acuminate, di maternità atipiche e in pericolo, di case e rifugi, immagini di riferimenti letterari che non suonano mai scontati o di facciata.
“Casa che eri”: trama e personaggi
Con un piede nei tardi trenta e l’altro già piantato nei quaranta, Aldo Lanari fa il funambolo come meglio può, anche se di certo vorrebbe un baricentro un po’ più solido mentre se ne sta in bilico su questo confine anagrafico assai periglioso. Giornalista oramai stufo di esserlo, con qualche romanzo alle spalle e altri nel cassetto, con incontri e amori passati incastonati fra il petto e lo stomaco, ha pure compiuto il passo cardine, la firma di un contratto che gli permette di andarsene in giro con in tasca le chiavi di casa.


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Fulcro nevralgico della sua esistenza è Luisa, talmente presente nel suo quotidiano e nella sua storia da sollevare dubbi sul loro stesso primo incontro. Luisa e Aldo si raccontano i sogni a vicenda, seduti per terra, come a voler svelarsi vicendevolmente anche le parti più nascoste, senza correre il rischio di avere porzioni di sé stessi non condivise. Su questa sinergia che è più dell’amore, in questo incastro che è ben più di un rapporto, esplode la bomba Alessio Patriarca; Luisa se ne innamora e gli ingranaggi preesistenti saltano uno alla volta, gettando Aldo in una rabbia che rischia di volgere alla delusione e una tristezza che sa troppo di disperazione.
Ogni dramma, anche quelli a cui ci si prepara, può apparire ridicolo se non si è dotati di un po’ d’immaginazione.
Lungo una catena di istantanee annodate le une sulle altre – feste di compleanno finite in disfatta, ritardi agli appuntamenti che sanno di inganni, una “bufera dei miei quarant’anni” che scroscia sui vicoli e sulle piazzette di Roma – Giorgio Ghiotti dà corpo a una crisi che spinge a rimettere in questione sé stessi. Cosa rimane, d’altronde, di una casa quando uno sciame sismico ne stravolge la conformazione delle stanze?
La casa mi parve un grande segreto, mille occhi socchiusi, e io a difendermi da quegli sguardi riottosi e giudicanti. Dov’era finita l’allegria, la serenità degli inizi? L’amore accudente di quelle mura? Restammo per un po’ a scrutarci, e io avevo solo due occhi e la mia casa mille, di più, centomila.
Ci addormentammo come due nemici.
Non una risposta, ma un’intuizione potente – fra quelle che ogni singolo lettore potrà trarre dalla lettura di queste pagine dense, poetiche e immaginifiche – sta forse fra le mani di Michael. L’ex coinquilino di un passato amore di Aldo, infatti, intreccia gabbie vuote, non destinate a trattenere nessun passerotto, lesto e abile con dita da vero artigiano. Sono gabbie affascinanti, che hanno un ché di potente; può capitare quindi, come fa Aldo, di acquistarne una e di notarne l’immutato splendore anche dopo che la pioggia, cadendoci sopra, ne ha arrugginito la struttura.
L’intervista a Giorgio Ghiotti
- Iniziamo dalla carta d’identità del protagonista del tuo romanzo, Aldo Lanari. Le sue sono quaranta primavere, stagione più stagione meno. Cos’è che ti ha spinto, mettendo su questo romanzo, a camminare proprio fra la fine dei trent’anni e gli inizi del decennio successivo?
Ho deciso di raccontare la storia di Aldo, un neoquarantenne, per spostarmi anzitutto in avanti rispetto ai libri precedenti, dove non sempre, ma molto spesso, ho parlato principalmente di adolescenti, giovinezze e vent’anni. Avevo voglia di mettermi alla prova con qualcosa di nuovo, di diverso.
E in fondo mi piaceva l’idea di scrivere una storia di quarantenni e oltre (Vittorio, lo si intuisce, ha una cinquantina d’anni e anche più) perché mi sembrava fosse un ottimo modo di restituire una certa idea di apparente immobilismo delle generazioni. Una storia che raccontasse bene quanto, a un certo punto nella storia di questo paese, tutto si sia fermato e quanto non esista più una differenza netta fra le generazioni. Aspetto, quest’ultimo, che ha dell’inquietante, ovviamente – sta a rappresentare una sospensione del tempo, che è anche sospensione degli ideali. Una sospensione del tempo della giovinezza e, insieme, del tempo della vecchiaia, che pur essendo centralissima tendiamo oggi a esorcizzare in qualunque modo, a nascondere ed eliminare.
- Casa ha una doppia accezione, fra queste tue pagine: casa in muratura, dove rintanarsi, e casa in carne e ossa, com’è Luisa per Aldo. Cos’è casa per te?


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C’è una bellissima frase, in Chirù, nella quale Michela Murgia scrive che bisognerebbe dover chiamare casa solo i luoghi che non occorre meritarsi. Effettivamente, le case di questo romanzo sono posti che non occorre meritarsi, per i protagonisti. Sono case che hanno molto più a che fare con l’idea di porto di mare dei film di Özpetek che non con l’idea statica, un po’ borghese di certi romanzi novecenteschi. Certo, anche in queste pagine ci sono case cosiddette borghesi, come quella di Lungotevere della Vittoria di Alessio Patriarca.
Casa è qualunque spazio tu riesca ad abitare con le persone che scegli di avere non fissamente accanto, ma in continuo transito nella tua vita. Di conseguenza, oltre alle singole case reali di questo libro, casa diventa l’idea più allargata di comunità. E le comunità, sottolineo, sono fatte per accogliere. Non c’è comunità che non sia inclusiva.
- L’uomo di cui Luisa si innamora è uno spartiacque, un evento che, come scrivi, segna un prima e un dopo. Un intruso che, per sua natura, è imprevisto. Prima di conoscerlo, Aldo se lo immagina, se lo prefigura; quando lo incontra per la prima volta, però, si rende conto che “Alessio Patriarca era un uomo normale”, ma non per questo smette di trasformarlo nella sua mente. Cos’è, quindi, Alessio Patriarca? Cosa rappresenta?
Alessio Patriarca, come scrivo nel libro, è un reagente per i protagonisti; è un elemento che da solo non potrebbe nulla, ma che a contatto con altre figure riesce a scatenare una serie di reazioni impreviste, incredibili. Pur nella sua totale banalità, normalità. Ecco cos’è Alessio: la figura attraverso la quale i protagonisti hanno l’occasione di rivelarsi agli altri e a loro stessi, o come la figura migliore di loro stessi o come la peggiore.
Luisa, attraverso Alessio Patriarca, opera quello che è il vero tradimento della storia; non l’adulterio nei confronti di Alessio con il ragazzo della compagnia teatrale, che porta sul palco I ragazzi di storia di Alan Bennett, ma il tradimento di sé stessa e dei suoi ideali di giovinezza. Lo fa adagiandosi in una vita borghese, arroccandosi in quell’attico sfacciatamente ricco del Lungotevere, rinunciando alla poesia, quanto di più resistente nella passione di vita giovane quale era stata la sua insieme ad Aldo. Alessio Patriarca rappresenta questo: la grande occasione di potersi svelare attraverso una di queste figure, migliori o peggiori, di noi stessi. È il vero tramite con il quale Luisa attua il tradimento di sé stessa, ed è l’elemento attraverso il quale, per un certo tempo, i due amici si dividono, prendendo le distanze l’uno dall’altra.
Alessio Patriarca è un simbolo; non agisce come uomo nelle loro vite, ma come simbolo. Per questo motivo è fisicamente quasi del tutto assente nel romanzo. Un simbolo che determina e indirizza le scelte e le vite, le ambizioni, le speranze, le illusioni e le disillusioni dei protagonisti.
- Penso ci sia una necessità salvifica, in eventi come l’arrivo di Alessio Patriarca. Nonostante il dolore causato in Aldo, questa rottura permette al tuo protagonista di aggiustare il tiro, di rimodellare traiettorie. Quella che vive è forse la solitudine obbligata della crescita?
Sì, perché per crescere bisogna scendere a patti con quello che siamo stati, consapevoli che quello che siamo stati non dipende da noi in percentuale altissima. Il senso di solitudine e inadeguatezza di Aldo, sul quale tento di lavorare con le figure co-protagoniste, con la scrittura e la riflessione sul cambiamento di Luisa, è una solitudine che nasce nell’infanzia, dall’osservazione dei suoi genitori e dalla loro distanza, dal loro trascinarsi una stanchezza sentimentale dopo un grandissimo amore. Quella stanchezza che spingerà la madre a impazzire, a vedere sospetti ovunque e a odiare l’altra donna con la quale il padre di Alessio tenta di rifarsi una vita.
Credo davvero ci voglia molto meno coraggio nell’addossarci colpe che non abbiamo rispetto a quanto ce ne vuole per addossare colpe reali ai nostri genitori. Aldo cerca di fare questo: ricostruire l’identità della solitudine, uno degli scheletri del libro, attraverso quello che è il suo passato e il rapporto coi genitori. Ecco il perché di questa ossessiva ricerca di notizie da parte della madre nei confronti degli amici e dei compagni di scuola di Aldo, vere e proprie inchieste che sono un tentativo di non restare da sola, di tenere insieme i pezzi, tentativo ai limiti della schizofrenia. Aldo è cresciuto con questo modello e, a un certo punto, capisce che bisogna lasciar andare. Così, nel corso del romanzo, impara a lasciar andare quelli che lui chiama gli “stronzi mancati” incontrati lungo la sua vita, amori fatui che hanno attraversato la sua esistenza.
- Luisa e Alessio rischiano di monopolizzare i resoconti delle tue pagine. In realtà, tutto intorno a sé Aldo ha una rete di individui che ha scelto e dai quali è stato scelto, una famiglia. Sbaglio forse a definirla così?
Una famiglia, una rete di salvataggio; è la vita nella sua interezza, formata dalle persone che decidiamo di accogliere, contraddizioni incluse, e che lasciamo alla loro autonomia di scelte e situazioni.
Vittorio, il miglior amico di Aldo, continua a esserlo per tutto il tempo della storia, ma al contempo diventa il grande amore di Michael; anche in questo senso c’è un piccolo, apparente distacco, in questa amicizia. Ma è uno dei compiti di queste nuove famiglie: qualcuno le chiama allargate, qualcuno queer, ma esistono da sempre, da ben prima della parola queer. Come diceva Michela Murgia per le case, bisogna stare con persone che non occorre meritarsi, e gli amici sono questo. Ecco perché, d’altronde, l’amicizia è un compito assai più ingrato dell’amore, in quanto nasce su un territorio di compromesso, mentre l’amore ha il compromesso come punto di arrivo.
- Fra le numerosissime immagini del tuo libro, ci sono tanti riferimenti, letterari e cinematografici. A romanzo concluso, ti prendi ancora un po’ di spazio per alcuni ringraziamenti: Gianfranco Calligarich, Rosetta Loy, Sandra Petrignani sono soltanto alcuni degli autori citati. Parlaci di questa preziosa compagnia che ti ha accompagnato nella stesura del romanzo.
Non esistono romanzi orfani: hanno tutti sempre una genealogia e rappresentano sempre una discendenza. Per chi, come me, fa del Novecento letterario italiano la propria genealogia e la propria terra di nutrimento, è stato naturale pensare, scrivendo questa storia, ai romanzi che potessero consigliarla, supportarla e direzionarla.


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Con Casa che eri, avrei voluto scrivere esattamente ciò che più amo da lettore: quei romanzi brevi di stampo novecentesco, come Gli occhiali d’oro di Bassani, La sposa giovane di Arpino, Prima e dopo di Alba de Céspedes, scritti come se fossero un flusso unico. Non a caso sono considerabili come racconti, narrazioni supportate dalla stessa presa d’aria dall’inizio alla fine. In questo senso, mi sono stati di supporto questi modelli; letture fatte, digerite ed elaborate.
Alla fine del libro ci sono dei ringraziamenti per libri che mi hanno direzionato, in quanto credo fermamente che scrivere sia veramente un’opera corale e collettiva: ci sei tu e ci sono le storie che ti hanno attraversato e nutrito. Così, quando mi son trovato a dover operare un certo passaggio, sapevo cosa volevo come risultato e mi ripetevo in testa “certo che qui ci starebbe bene un qualcosa come l’ha fatto tale o tal’altra!”. Così andavo a rileggere e mi lasciavo ispirare da quella intuizione, riportandola nella mia scrittura. Lo scambio dei dialoghi durante la festa di compleanno, per esempio, nella quale Aldo conosce Alessio circondato da tutti gli altri personaggi riuniti, lo avevo inizialmente scritto con meno cinismo e più rabbia; ma sentivo il bisogno di una certa moderazione della rabbia e di un occhio più lucido e feroce. Così mi son chiesto da chi potevo farmi inspirare per ottenere questo effetto, ho pensato ai dialoghi di Yasmina Reza e sono andato a rileggere quel suo modo di costruire i dialoghi.
Alla fine del libro riporto i titoli che ho amato di più in assoluto e che mi sono stati più utili ai fini della stesura. L’ultima estate in città di Gianfranco Calligarich è per esempio un romanzo straordinario, uno dei più belli che abbia mai letto; dalle sue pagine ho preso molto, soprattutto nel respiro della narrazione come libertà, tanto da rendergli omaggio con la via dei Glicini che compare nelle mie pagine. Ho tratto anche due brani da Dolorose considerazioni del cuore di Sandra Petrignani, e dal romanzo della Loy ho tratto ispirazione per la mia Luisa. Tutte intuizioni, o dediche e omaggi che si fanno non per dovere, ma per far risuonare al meglio il suono di quello che stai scrivendo. I libri degli altri sono la cassa di risonanza della propria scrittura.

Recensione del libro
Casa che eri
di Giorgio Ghiotti
© Riproduzione riservata SoloLibri.net
Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista a Giorgio Ghiotti, in libreria con “Casa che eri”
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