Mattia Tortelli, classe ’96, che si occupa già da parecchio di libri e cultura, è da tre mesi sugli scaffali delle librerie col suo esordio Solo i santi non pensano, edito Fandango.
Centosettanta pagine lungo le quali Gabriele, il giovane protagonista, che si destreggia fra un lavoro poco soddisfacente e lontano dai suoi studi, una selva di foglie in camera e un autoerotismo a singhiozzo, tenta di andare avanti nonostante gli sgambetti del passato che continuano a macchiargli le ginocchia di sbucciature. Tutta la fatica del suo quotidiano non è altro che la cristallizzazione sofferta della sua infanzia, quando dopo la perdita del padre è stato spinto dalla madre a integrarsi nella comunità dei Testimoni di Geova. L’indipendenza di cui gode adesso è sinonimo di strappi e silenzi, lontananza e coraggiose affermazioni di sé. E arriva, puntuale, la doverosa resa dei conti, a chiedergli il giusto equilibrio fra dentro e fuori, gesti e pensieri, nodi da sciogliere e legami da tessere. Non a caso a parlare nell’esergo del romanzo è l’essere che cammina lungo la frontiera più a picco di tutte, l’Orfeo di Cesare Pavese: “Ho cercato me stesso. Non si cerca che questo”.
Ho disturbato Mattia in pieno agosto per porgli una mezza dozzina di domande sui temi più intimi del suo libro.
- Iniziamo con una parola chiave: formazione. Qua e là, direi un po’ dappertutto, la storia a cui hai dato voce viene definita per l’appunto romanzo di formazione. Di Gabriele d’altronde scrivi che “crescere era ancora l’inciampo che lo inchiodava alle sue insicurezze”. Cos’è che si impara, o si capisce, della crescita fra le pagine del tuo romanzo?
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La verità è che sono più le cose che si comprende di non comprendere che altro. Crescere non è una formazione. Crescere, nel mio romanzo, è provare a esistere in un modo sempre un po’ migliore. Questo succede quando Gabriele decide di uscire dai Testimoni, dalla setta, e succede quando al cimitero non c’è più nessuno. Quindi mi verrebbe da dire che questo è un romanzo di tentata formazione, l’ho già detto parecchie volte. Non credo nella formazione, credo piuttosto che la crescita sia effettivamente cambiare gli schemi, i pattern mentali che ci hanno ancorato a una protezione, un vero e proprio istinto protettivo, ma che a un certo punto riteniamo superati. Riuscire a crescere non è da tutti; ci sono persone che invecchiano e pochissime che crescono. Gabriele, quando lo incontriamo, è invecchiato ma non è cresciuto. Quindi sì, il mio è un romanzo di tentata crescita proprio in questo senso: è un tentativo di sistemare schemi disfunzionali, non più efficaci. E tutto questo ha messo in crisi anzitutto me, questo aspetto è forse parte della mia risposta; mi ha messo in crisi perché mi sono reso conto di aver fatto un po’ lo stesso percorso di Gabriele, di aver fatto fatica a crescere.
- Al cuore della storia di Gabriele c’è la perdita del padre, seguita troppo precocemente da alcune scelte pesantissime della madre. Il protagonista è ancora un bambino e non ha né il tempo, né tantomeno gli strumenti per intraprendere una personale ricostruzione post traumatica, subendo l’imposizione di quella materna. Cos’è che ti interessava sondare del trauma, scrivendo queste pagine?
Credo tutto nasca da un trauma, che qualunque esperienza sia sostanzialmente un trauma. O almeno così vivo la mia vita, e Gabriele vive così la sua. Per tutta questa estate, da quando è uscito il romanzo, mi sono interrogato moltissimo su questi temi. Perché ho scritto una storia simile? Perché il dolore? Cosa riuscirò a scrivere ancora, dopo questa storia? Perché è vero: il racconto è molto traumatico e doloroso, nasce proprio da qui. A un certo punto volevo sondare il trauma. In realtà il mio intento principale era il suo superamento; volevo raccontare questo, staccarmi da tutta quella letteratura che sonda il trauma. E forse nella narrazione stessa ci sono riuscito. Ma adesso, riflettendo a posteriori, mi rendo conto che il trauma è ancora molto presente soprattutto nei ricordi. E sempre a posteriori, dopo tutta una serie di riflessioni che sono riuscito a fare anche grazie ai lettori, mi sono chiesto se un trauma si possa superare, realmente elaborare, se si possa riuscire a staccarsene ed essere altro, o se invece una volta vissuto resterà la tua base, e lo potrai sì elaborare, farne qualcosa, ma a che prezzo? E quanto ti influenzerà per tutta la vita? Io non sono certo che i traumi si superino, ho affidato a Gabriele questo compito – io autore, io Mattia, non lo so.
- Fra le immagini più perfette del romanzo, c’è il passaggio tutto fronde e radici fra il giardino dell’Eden e quello costruito passo passo da Gabriele, con le andate e ritorni fra il vivaio e camera sua. Gabriele si circonda – o viene circondato – di piante, impara – sotto insegnamenti altrui – le tempistiche dell’innesto e i dosaggi nel terriccio. Il pollice verde è quindi uno specchio del sapersi prendere cura di sé e degli altri?
Volevo raccontare come il prendersi cura delle piante fosse, in un certo senso, un percorso per imparare la cura più in generale. Le piante sono esseri viventi, ma hanno bisogni relativamente semplici (luce, acqua, terra), o almeno così sembra visto da fuori. Gabriele sembra scegliere la strada più semplice, quando poi in realtà scoprirà che non è così: è una persona che si pensa in questo modo, ma in realtà è portato a prendere strade più difficili, ad essere motore verso gli altri, farsi risposta ai richiami all’avventura che riceve. Il passaggio dal giardino idilliaco a quello più banale e semplice di casa sua è il passaggio da un’idea di perfezione, di come sarebbe dovuto essere, a un’idea di cos’è realmente. La scena in cui recupera i vasi dei suoi fallimenti con le piante è una scena centrale in questo percorso di consapevolezza e di scoperta delle sue capacità, delle cose che riesce e può fare, di chi è come persona. Provare a prendersi cura, tentare, provare a capire cosa voglia dire, farlo prima con qualcosa a basso costo rispetto a una relazione tra persone.
- C’è un romanzo della meravigliosa Jamaica Kincaid (che scrive spesso di piante e giardinaggio!) in cui la protagonista dice grossomodo di sentirsi dentro, da qualche parte fra la testa e le budella, una sorta di buco nero tutto coperto di ragnatele, delle dimensioni di un ditale ma pesante quanto il mondo intero; e di passare le giornate distesa a contemplare questo grumo, per poi, di tanto in tanto, contarsi a ripetizione le dita dei piedi che stanno là al centro del suo campo visivo, ottenendo sempre lo stesso risultato: dieci. È un passo che mi è spesso venuto in mente leggendo Solo i santi non pensano. Vorresti dirci qualcosa del rapporto centrale che Gabriele intrattiene col suo, di corpo?
Mi sembra un collegamento azzeccato con qualcosa che vivo spesso, di continuo oserei dire. Da quando ho scritto il libro è cambiato un po’ tutto, hanno iniziato a mescolarsi i piani della realtà e della finzione, di quello che è Gabriele e di quello che sono io. È un aspetto che accompagna entrambi, quello espresso dalla Kincaid. Il tentativo di essere corpo e di ancorarsi alla realtà. Sai, nel non saper gestire i pensieri ci si perde, si rischia di sviluppare immagini deleterie e dolorose, si rischia di non tornare indietro. Un po’ come coi viaggi nel passato, in cui non si deve toccar nulla o si rischia di influenzare il presente. Ecco, coi ricordi si rischia un po’ la stessa cosa. Gabriele ci torna spesso ai ricordi e non si rende conto che li ricostruisce, perché questo fa la nostra memoria di continuo. Vivere lì vuol dire continuare a modificare il presente in un modo non agito e nello stesso tempo molto problematico. Ecco la cosa peggiore del vivere di ricordi: dover fare continuamente i conti con immagini, aspettative, cose che non sono state o non sono più, e farlo di continuo. Si potrebbe stare tutta la vita col passato. Il corpo invece riàncora a un presente, e fa sì che si plachino un poco i ricordi, i pensieri, ed è un qualcosa di salvifico. Non a caso ci sono momenti in cui Gabriele sta a letto, dorme, ovvero fa delle cose fra le più banali, ma sono momenti che permettono al corpo di ricaricarsi, di curarsi, di ristorarsi. E poi c’è il rapporto con l’altro, l’incontro con l’altro, ancora una volta un qualcosa che si può fare con le emozion,i ma che si fa anzitutto col corpo.
- Questo è il tuo esordio letterario; non devo aggiungere altro sulla centralità di una tappa del genere. Ti vorrei giusto chiedere di riassumerci in una sola immagine questa prima, fondamentale esperienza (la cosa più inaspettata di tutto l’iter editoriale, o quella che ti ha fatto saltare in aria, o un momento estremamente emozionante…).
Ho un ricordo molto vivido di quando ho pubblicato la copertina sui social. Ero in macchina, pioveva. E come quando una cosa viene nominata e di conseguenza esiste, l’aver condiviso la copertina (che già m’aveva molto emozionato nelle varie prove ricevute), il pensare che questo romanzo sarebbe esistito mi ha reso molto felice, mi ha commosso alle lacrime. È stato un momento molto bello. Mi sentirei però di aggiungere che esordire è un momento felice, ma anche complesso, che ti mette davanti al fatto che le persone possano leggere quello che scrivi senza che tu abbia più potere su quello che scrivi. Non puoi spiegare le tue pagine a qualcuno che sta da solo e ti legge e si fa un’idea di te come scrittore e della tua storia. Mi verrebbe quindi da dire di prendere con cautela la pubblicazione e in generale i libri, perché sono materia che in qualche modo sfugge spesso al volere stesso, agli intenti, al motivo per cui si scrive. Una felicità cauta, oserei dire, quella di pubblicare i libri.
- Prima di salutarci, ci lasci un consiglio di lettura?
In relazione al romanzo consiglio sempre Parla, mia paura di Simona Vinci, perché è stato questo: far parlare la mia paura più grande, parlare di altri per raccontare di me, lasciare che il donarsi fosse completo e senza pudore, sbilanciato nell’essere autentico.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista a Mattia Tortelli, autore di “Solo i santi non pensano”
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