Elena Rausa, autrice di “Marta nella corrente” (Neri Pozza), si presenta al mondo dell’editoria con un romanzo che ha già suscitato l’apprezzamento di molti. L’autrice, nata a Milano e residente in Brianza, dopo la laurea in Lettere presso l’Università Cattolica, ha conseguito un dottorato di ricerca in Italianistica – Filologia umanistica. Docente di lettere al liceo, mamma impegnata, ha trovato comunque un po’ di tempo da dedicare ad un’intervista in cui ci presenta il suo libro.
- Com’è nato “Marta nella corrente” ?
Prima di pensare alla scrittura mi sono appassionata alla storia reale di tre ragazzi che furono arrestati proprio nel dicembre 1943 sulle montagne che frequento fin da bambina.
In principio credevo di avere per questa vicenda un interesse di tipo storico. Poi ho capito che la storia di quei ragazzi mi riguardava, ma, per scoprirne la ragione, ho avuto bisogno di staccarmi dagli eventi reali e di sperimentare una scrittura d’invenzione.
- La protagonista è Marta ma altrettanto importante è la figura di Emma. Cosa può dirci in merito?
Emma, la psicologa che aiuta Marta, è un personaggio centrale, a lei ho affidato i temi chiave del romanzo: la fatica nell’elaborazione del trauma, la tentazione (vana) di dimenticare, ma anche la capacità di riconoscere e sostenere il dolore dell’altro e di trovare, per questa via, un’occasione personale di rinascita.
La figura di Emma è frutto di invenzione, ma trae ispirazione dalla vicenda reale di Luciana Nissim Momigliano, una donna sopravvissuta alla deportazione, successivamente allieva di Cesare Musatti e poi punto di riferimento fondamentale della psicoanalisi milanese. Come spiego nella nota che chiude il romanzo, alcune opere edite da Giuntina ne raccontano la vicenda: leggerle mi ha molto aiutato soprattutto nella ricostruzione di un’epoca che non ho conosciuto direttamente. In particolare, la Nissim è autrice (quasi sconosciuta) di un’intensa testimonianza su Auschwitz, preziosa anche in virtù del punto di vista di una giovane donna. Mi ha colpito che questa prima, immediata, testimonianza sia stata seguita da quarant’anni di silenzio e dalla convinzione che si potesse chiudere con un trascorso tanto doloroso e “voltare pagina”. Forse il mio interesse personale per la sua vicenda nasce proprio da questo passaggio.
- Le vicende di Emma prendono spunto, oltre che dal genocidio degli ebrei, anche da qualche fatto in particolare?
Come dicevo, la storia parte da un arresto che ebbe luogo realmente ad Amay, tra Brusson e Saint-Vincent, in Valle d’Aosta. La vicenda è nota anche perché ha visto coinvolto lo scrittore al quale dobbiamo la nostra memoria collettiva sulla Shoah, Primo Levi, deportato ad Auschwitz insieme alle amiche Luciana Nissim e Vanda Maestro. Mi ha molto colpito che eventi così drammatici siano avvenuti proprio nei luoghi che conosco e frequento, mi commuove l’idea che i sentieri che ancora oggi pratichiamo siano stati teatro di una stagione tanto intensa. Esiste ancora la casa in cui i protagonisti della vicenda reale hanno trascorso i mesi precedenti l’arresto: credo che certi luoghi conservino qualcosa di chi li ha attraversati, ripercorrerli, fisicamente e nel racconto, è stata una grande emozione.
- Quale valenza hanno le figure femminili e quale quelle maschili nel romanzo?
Non so se si possa fare una distinzione di genere. Le donne del romanzo sono tante e diverse e così gli uomini. Forse, pur senza averne l’intenzione, ho esplorato l’evolversi della condizione femminile nell’arco di quarant’anni. Emma, la psicologa, viene da una famiglia borghese, ha potuto studiare, è una privilegiata; la nonna che Marta non ha conosciuto, invece, è nata in un piccolo paese del sud, si è sposata molto presto e ha avuto poche possibilità di scegliere. Poi ci sono alcune donne giovani negli anni Settanta, come Bruna, la madre della bambina: si comprende la loro voglia di essere finalmente libere, diverse dalle proprie madri, solo che la libertà richiede un certo allenamento e Bruna non è allenata a scegliere. La figura più fortunata, a dispetto della tragedia che vive, è proprio Marta che ha solo sette anni ma un grado di consapevolezza raro e può contare su aiuti che la madre e la nonna non hanno avuto.
Quanto agli uomini, qualcuno ha detto che prevale un punto di vista femminile, ma non sono del tutto d’accordo: c’è almeno un comprimario, Aldo, il nonno di Marta. Aldo ha un grande dolore alle spalle che si rinnova con la morte della figlia, ma, dopo una vita spesa a proteggere le persone che ama, decide di fidarsi di ciò che non sa e scommette tutto sull’incontro con una nipote che non ha mai conosciuto.
Anche il marito di Emma è un personaggio importante, per la pazienza con cui rispetta i silenzi della moglie e per la sua capacità di porre domande imprescindibili per chi abbia sperimentato una sofferenza radicale come quella dei protagonisti: il male innocente, la fede di fronte al silenzio di Dio.
- "Marta nella corrente" è principalmente una storia sul dolore o, nella narrazione, c’è molto di più?
Credo che sia prima di tutto una storia sull’elaborazione del trauma e sulla memoria ferita. Poi, come si è capito, ci sono anche altri temi, perché ho cercato di conoscere i miei personaggi, collocandoli nel loro tempo, e alla fine mi sono innamorata delle loro storie al punto da crederli quasi persone reali, con una vita ricca, fatta di tante cose.
- Marta ha perso la mamma ma c’è chi, con amore, si prende cura di lei. La maternità si può realizzare anche attraverso l’affido o prendendosi cura degli altri come fa Emma?
Direi proprio di sì, sebbene l’affido non faccia parte della mia personale esperienza.
D’altra parte la maternità non è solo un fatto biologico, ma un modo di guardare il mondo che ha a che fare, credo, con la disponibilità a farsi carico anche delle vite degli altri. Per prendersi cura di qualcuno occorre una capacità di fare spazio, offrire ospitalità nel proprio animo, prima che nella propria casa.
Mi pare che la capacità di ospitare sia la migliore delle attitudini umane, in questo senso direi che è materna, ma (perché no?) anche paterna.
- Perché ha scelto i versi di Alda Merini e la citazione di Seneca per introdurre il romanzo?
Il passo di Seneca parla di morte ma in realtà è una meditazione sulla vita e sulla legge della trasformazione.
Nei versi che ho scelto la Merini paragona padre Turoldo (che le fu molto vicino) a una di quelle pietre profumate che ci permettono di attraversare il torrente della vita. Ho letto in queste parole una buona metafora della solidarietà e dell’amore: non sappiamo mai quale passo stiamo inconsapevolmente sostenendo, né di quale pietra avremo bisogno per proseguire il nostro cammino.
- Cosa ha lasciato a lei "Marta nella corrente" e cosa lei desidera lasci in chi legge?
È stata una bellissima esperienza. Avevo, credo, un’urgenza espressiva: c’erano conquiste che per me sono state importanti e che ho voluto esplorare attraverso la scrittura, poi è venuto anche il desiderio di condividere la storia che avevo scritto. C’è voluto un po’ di coraggio per credere che tutto questo potesse accadere e sono fiera principalmente di quel coraggio.
Mi piacerebbe che anche al lettore passasse l’idea che la sofferenza è un dato ineliminabile, ma vale sempre la pena di scommettere sulla vita e sulle relazioni, come imparano a fare Marta, Emma e Aldo.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista a Elena Rausa, autrice di “Marta nella corrente”
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