Da poche settimane Sellerio ha portato in libreria Bebelplatz. La notte dei libri bruciati di Fabio Stassi, un libro che ha rapidamente richiamato l’attenzione del pubblico e della critica e che lo scorso novembre stato insignito del Premio Hermann Kesten 2024 per “la difesa della libertà di parola”, assegnato dalla sezione tedesca del PEN International, il comitato internazionale che da oltre settant’anni tutela la circolazione delle idee e la libertà di espressione, attraverso la promozione della letteratura di qualità.
Limitandoci al solo settore editoriale, questo sembra tornato ad essere, oggi, un problema di scottante attualità, come dimostra la lettera inviata da molti scrittori, in occasione dell’ultima fiera del libro di Francoforte al direttore dello stesso evento e al presidente dell’Associazione Italiana Editori. In questo documento – firmato tra gli altri da Melania Mazzucco, Dacia Maraini, Chiara Valerio ed Emanuele Trevi – si esprimeva preoccupazione non solo per alcune esclusioni eccellenti, che erano state motivate con deboli argomenti burocratici, ma anche per la posizione insulare dell’Italia che, chiamata come ospite d’onore dopo 36 anni, aveva visto i propri rappresentanti costretti a dialogare con dei conterranei e privati di quella possibilità di confronto internazionale con i colleghi europei che da sempre contraddistingue la Buchmesse. La storia, e Bebelplatz con essa, ci ricorda però che la questione ha radici molto più antiche e ha, forse, raggiunto la sua acme nel secolo scorso. Il Premio Kesten è assegnato, non a caso, a scrittori e realtà del settore culturale (quest’anno è stata premiata anche la rivista Words without borders) che, secondo i principi della Carta PEN Internazionale, hanno mostrato particolare attenzione nei confronti di altri scrittori e giornalisti minacciati, perseguitati e imprigionati, ed è stato tributato, quest’anno, a Fabio Stassi per lo spirito cosmopolita e l’umanesimo radicale con i quali, nella sua ultima opera, esprime compiutamente la preoccupazione e l’orrore per i sintomi di un’infezione che ci riporta ai fantasmi del passato, alle dittature del XX secolo e ai loro metodi.
Abbiamo allora deciso di rivolgere all’autore qualche domanda per comprendere meglio le ragioni che l’hanno portato a scrivere questo testo affascinante e originale e le dinamiche che ne hanno animato la realizzazione.
Intervista a Fabio Stassi
Scrittore, bibliotecario e per qualche anno editor della collana «Nichel» di Minimum Fax, Fabio Stassi ha esordito nel 2006 con Fumisteria. Dopo le prime prove narrative – È finito il nostro carnevale, La rivincita di Capablanca – ha ottenuto un successo internazionale con L’ultimo ballo di Charlot, un caso letterario tradotto in diciannove paesi stranieri che ha vinto il Premio Selezione Campiello 2013. Apprezzato dal pubblico italiano anche per aver creato il personaggio del biblioterapeuta Vince Corso, ha ricevuto il premio Scerbanenco nel 2016 per La lettrice scomparsa. Negli ultimi anni, oltre a una particolare attenzione verso la letteratura per l’infanzia, ha pubblicato, tra gli altri, il romanzo Mastro Geppetto (2021), con il quale ha vinto il Premio Croce, il Premio Dessì e il Premio Stresa.
- Buongiorno e grazie per il tempo che hai deciso di dedicare a Sololibri.net. Le storie di molti tuoi libri ci riportano a episodi, talvolta poco noti, del passato dove, però, è evidente una forte carica inventiva e l’immaginazione si esercita in un campo d’azione molto ampio. Bebelplatz, invece, mi pare la tua prima prova scopertamente saggistica: cosa ti ha guidato questa scelta?
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È sempre importante riflettere prima sulla forma che dovrà avere un libro, un romanzo. Credo sia importante disegnarsi la scacchiera del libro, capire in quanti capitoli sarà diviso, come saranno distribuiti gli argomenti. La forma del libro è il primo elemento da considerare. Bebelplatz è stato però un libro che ha cambiato forma continuamente, di paragrafo in paragrafo; possiamo chiamarlo saggio, se vogliamo dargli un’etichetta. Per me è un animale un po’ ibrido, una specie di ornitorinco, prende ispirazione da varie parti e mischia reportage, diario di viaggio, ricerca storica, critica letteraria, autobiografia, inchiesta, cronaca e anche romanzo. Il saggio mi è sempre interessato proprio come genere letterario, e dai saggi, e da alcuni saggisti, ho imparato moltissimo – penso a Giacomo Debenedetti, a Cesare Garboli, ma anche a Calvino e a Sciascia, ma l’elenco è lunghissimo. Direi che avrei voluto imparare a scrivere da molti di loro, è stata una scuola, per me, perché ho sempre ammirato la lingua che usano, la precisione, l’intelligenza, la passione, e l’originalità dello sguardo. Un po’ come i poeti.
In questo libro, ho trovato finalmente il coraggio di sperimentare, volevo ritrovare anche il gusto della sperimentazione. Non è un saggio tradizionale, quindi, o almeno non lo è nelle sue intenzioni. Come ogni lettore potrà vedere, la soluzione tecnica più lampante che ho adottato è la prima persona, inusuale se fosse stato soltanto un libro di storia. Negli ultimi anni ho letto molto scrittori come Emmanuel Carrère e Javier Cercas, che mi hanno mostrato un altro modo di portare il racconto, che si tratti di un viaggio o di una ricerca. Avrei forse potuto farlo diventare un romanzo, ma mi piaceva l’idea di restare in bilico tra i generi, di camminare su questo confine, provare ad applicare le tendenze più contemporanee di scrittura a un materiale che fosse generato da una indagine culturale.
E il viaggio che racconto è sia esteriore che interiore: al centro c’è il mio smarrimento esistenziale di questi ultimi anni, il disagio di non avere più punti di riferimento, di non avere più rappresentanza politica, di non sapere neppure con quale inchiostro avrei potuto continuare a scrivere. E la necessità di chiedermi se l’arte, la letteratura, ha ancora una funzione.
- Bebelplatz prende le mosse dall’espediente di un ciclo di conferenze che hai fatto in Germania, negli istituti di cultura, da Amburgo a Monaco. Poi, pagina dopo pagina, diviene sempre più evidente il tuo lavoro di ricerca documentaria, testimoniato anche da mappe geografiche e dai riferimenti a siti web. Puoi raccontarci questo lavoro dietro le quinte? Quanto ti ha impegnato e quanto è stato determinante per la realizzazione del libro?
È stata una ricerca entusiasmante perché non sapevo dove sarei andato a parare, è stato come partire con una valigia minima, uno zaino, una sacca, con poche cose dentro, senza immaginare dove sarei arrivato e quanta strada avrei fatto. L’intento era quello far fare anche al lettore questo viaggio insieme a me.
La domanda iniziale da cui sono partito è stata questa: quali scrittori italiani sono stati messi al rogo durante il nazismo? Da lì intuivo che avrei potuto scoprire qualcosa di importante, per me, e tratteggiare un percorso identitario in cui avrei potuto tornare a riconoscermi. Negli ultimi anni tutti abbiamo vissuto esperienze molto forti – penso in particolare alla pandemia – che ci hanno costretto a interrogarci e a ridefinire le priorità della nostra vita. Anche per questo è diventato necessario ricostruirsi una bussola, fissare da capo i punti cardinali.
Certo, ho studiato parecchio e approfondito tutto quello di cui scrivevo. Ma mi ci sono inoltrato come se avessi dovuto sbrogliare la matassa di un giallo. È stata un’inchiesta. Mi sono occupato del contesto - il nazionalsocialismo -, dell’iniziativa propagandistica di dare fuoco ai libri in tutta la Germania, ma anche della storia, purtroppo antica, del saccheggio e dei roghi delle biblioteche, perché è una questione che mi riguarda da vicino. All’università ho studiato Storia contemporanea e Storia del Risorgimento, la ricerca storica è stato uno dei miei grandi amori giovanili: questa disciplina è la più difficile, per la sua complessità, per la capacità di contenere tutto ciò che fa parte della vita degli uomini, la letteratura, l’arte, le ideologie, l’economia. Poi sono diventato un bibliotecario, e lo sono ancora, ormai da quasi quarant’anni.
Così Bebelplatz è stato il pretesto, per me, per fare i conti con molte cose, e soprattutto col Novecento, il secolo in cui sono nato e in cui mi sono formato. E mi fa impressione, negli ultimi tempi, sentire risuonare le stesse parole d’ordine di quella stagione sanguinaria.
- Il tuo ultimo libro sfugge a una classificazione univoca. È vero, leggendo ho avuto spesso l’impressione che fosse anche un diario di viaggio e in altri tuoi libri abbiamo spesso incontrato dei personaggi che nel viaggio trovano una costante della loro esistenza. Perché questo elemento è così importante per te?
Ho sempre amato il genere picaresco e l’ho praticato fin dai primi romanzi, come in È finito il nostro carnevale, ma potrei dire che sono personaggi picareschi anche Geppetto e l’ultimo Vince Corso. Ciò che accomuna i miei personaggi, in fondo, è la ricerca del proprio destino, e questa è una ricerca irriducibile: è il punto di forza di questo genere, purtroppo poco praticato nella nostra letteratura, a differenza di quella di lingua spagnola, per esempio, e ad eccezione forse di Ariosto e di Collodi.
Ma chi scopre veramente qualcosa di decisivo, chi fa il vero viaggio, un viaggio di conoscenza, è sempre il lettore: è lui che si muove insieme ai personaggi. È il lettore il vero detective.
- Se ci sforzassimo di individuare un protagonista di questo tuo ultimo libro potremmo chiamare in causa la memoria del passato. Si tende a rimuoverla quando in essa si incontrano voci destabilizzanti e indesiderate, ma oggi sembra essere compromessa anche dall’avanzamento tecnologico e da una verità che, grazie, al web, viene sempre più spesso confezionata ad arte, per soddisfare esigenze ideologiche. Credi che, come diceva anche Benjamin, chi scrive sia chiamato a salvare il passato?
Ho scelto Sellerio come editore e anche per questo libro per l’onore di essere ospitato in una collana che si chiama «La memoria», un nome scelto da Leonardo Sciascia. La memoria era importante anche nella mia casa, i miei nonni la tramandavano attraverso storie orali.
Ma come racconto anche in Bebelplatz la memoria è sempre stata osteggiata dal potere: il primo rogo dei libri è avvenuto in Cina, oltre duemila anni fa, e fu un evento legato a doppio filo alla persecuzione fisica di chi quei libri li aveva scritti, perché già in quell’occasione si ordinò di seppellire vivi centinaia di studiosi. La popolazione fu avvisata: “chiunque userà la storia, - e quindi la memoria -, per criticare il presente, sarà giustiziato insieme alla sua famiglia”.
La letteratura non sta dalla parte della verità, come le religioni o le ideologie, è per sua stessa natura scomoda e destabilizzante; sta piuttosto dalla parte del dubbio, della malattia, è custode di una memoria attiva.
- La conservazione del passato ha un suo luogo d’elezione, le biblioteche: Bebelplatz racconta della loro devastazione e se ne intravede anche un’altra funzione: quella di luogo di incontro e di elaborazione di idee, di fucina di un pensiero critico. Grazie al tuo lavoro, sono luoghi che frequenti da molto tempo e che ben conosci. Oggi possiamo ancora affermare che riescono a conservare questo ruolo?
Le biblioteche sono una casa della memoria e degli alfabeti. Sono cambiate molto nel corso degli ultimi decenni, ma in molte parti del mondo, dove c’è una guerra, a Gaza, in Ucraina, vengono date alle fiamme ancora oggi. E nelle parti più povere dell’Africa o dell’Asia non ci sono. Come bibliotecario non posso che sentirmi chiamato in causa. Sono giocoforza un custode della memoria della condizione umana, ma quel che forse mi sta più a cuore è il ruolo sociale delle biblioteche. Le statistiche dimostrano che le carceri dotate di una biblioteca registrano un tasso di suicidi molto minore rispetto a quelle che ne sono sprovviste. Le biblioteche, come i libri, hanno il potere di salvare vite umane.
- Un altro elemento che ho ritrovato in Bebelplatz - dopo averlo già notato nel tuo Libro dei personaggi letterari - è il bisogno di tracciare dei fili rossi nella letteratura, di sottolineare la consonanza con una certa idea di letteratura e di riconnettersi con essa, definendo una sorta di pantheon. È un atto di gratitudine, di riconoscenza?
Come dicevo prima, Bebelplatz muove da una questione di stringente attualità ma anche da un disagio, dal bisogno intimo di ritrovare dei punti fermi: scrittori, ma anche princìpi – come il cosmopolitismo, l’antimperialismo, l’antimilitarismo, l’antifascismo radicale o l’antipatriarcato – in cui credo.
È un libro su una crisi di identità e sul desiderio di recuperarla, di chiarirci di nuovo da dove veniamo – per me, forse, da un iniziale, per quanto ingenuo, ideale di Giustizia e di Libertà –, che senz’altro mi porta continuamente a cercare di identificare gli scrittori in cui mi riconosco. Mi piace raccontare le loro storie. Perché siamo fatti dei libri che abbiamo letto, e che ci hanno formato. Quando ho iniziato a scrivere questo libro, non sapevo assolutamente che mi sarei imbattuto in Salgari o in Borgese o in Silone. Nel momento in cui però è successo, è stato come tornare nell’isola di partenza, quasi sfogliare un album di famiglia che era rimasto seppellito in una libreria: avevo letto Salgari da bambino, Borgese attraverso Sciascia e la mia Sicilia, Silone nell’adolescenza. Fontamara è stato un libro fondamentale per me quando ero ragazzo: mi ha svelato tutta la potenza della letteratura, il suo opporsi a ogni forma di potere. Fu il libro antifascista più letto negli anni Trenta.
La mappa che alla fine è venuta fuori disegna anche la mia genealogia letteraria: appartengo a questa letteratura dannosa e degenerata, meticcia e impura, a questa forma di devianza. È il motivo per cui la letteratura è, è stata e sarà sempre perseguitata.
Recensione del libro
Bebelplatz
di Fabio Stassi
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: L’urgenza della memoria: intervista a Fabio Stassi, in libreria con “Bebelplatz. La notte dei libri bruciati”
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