Immagine di copertina Credits: Alessandro Obinu
C’è un angolo di Parigi anche a Roma, se si sa guardare bene. Tra le stradine del rione Monti, nel pittoresco saliscendi di vicoli dove le facciate delle case sono ricoperte di edera, si può quasi scorgere uno scorcio di Montparnasse, il quartiere degli artisti.
Ho conosciuto la scrittrice Eleonora Marangoni anni fa tra le pagine del suo libro d’esordio Lux, vincitore del Premio Neri Pozza 2018 dedicato agli inediti e semi-finalista al premio Strega l’anno successivo. Lux lo lessi a Parigi, grazie al prezioso consiglio di Florence Raut, che nella capitale francese gestisce quel luogo miracoloso che è La Libreria à Paris, dove è possibile trovare libri e giornali italiani, incredibilmente anche le ultime uscite.
Per una curiosa coincidenza ho poi ritrovato Eleonora Marangoni a Roma, proprio grazie a un libro su Parigi, Paris s’il vous plaît edito da Einaudi nel 2022, una guida sentimentale della capitale francese filtrata dalla nostalgia.
Ora l’autrice, definita dalla critica di settore una “proustiana italiana”, è di nuovo in libreria con Proust. I colori del tempo (Feltrinelli, 2022), una riedizione del suo saggio dedicato al rapporto tra arte, colore e scrittura nella Recherche.
Parigi, arte, letteratura e memoria si fondono e si mescolano tra le pagine e nella vita. Tutto sembra infine ricondurre qui, a questo tavolino del rione Monti a Roma, in fondo così simile alle terrasses dei cafés parigini, dove ha avuto luogo la nostra chiacchierata.
- Sei riuscita a compiere un’impresa quasi impossibile: hai reso l’anima della Recherche attraverso i colori. Da dove è nata l’idea per scrivere questo saggio Proust. I colori del tempo? Redigere l’atlante cromatico di Alla ricerca del tempo perduto sembra un’impresa titanica, eppure tu l’hai portata a termine con sorprendente facilità, quasi con leggerezza, come se tutti i “colori di Proust” ti si fossero fissati nella memoria e li avessi, in un certo senso, interiorizzati.
L’idea mi è venuta una sera al cinema, ricordo che davano Après mai di Olivier Assayas. Nel film c’è una scena in cui si vede uno dei protagonisti che partecipa a una manifestazione. Su tutto spicca il suo maglioncino rosso vivo, l’unica nota di colore, che sembra dire tutto. Proprio la visione di quel rosso mi ha fornito la chiave per raccontare la Recherche attraverso le sfumature cromatiche.
Per me non si trattava di un’assoluta novità, da più di sei anni studiavo Marcel Proust e la mia tesi di laurea, pubblicata in Francia, era dedicata proprio a Proust e al suo rapporto con la pittura italiana: Proust e la peinture italienne (2011). Avevo già un’impostazione accademica, ero fresca di studi e quindi padroneggiavo bene l’argomento. Inoltre l’idea di raccontare la Recherche attraverso i colori mi sembrava divertente. Non mi sarei mai lanciata nell’impresa se non l’avessi trovata divertente e intrigante. Il libro fu pubblicato per la prima volta nel 2014 da Electa, in occasione del centenario de La strada di Swann.
Nella prefazione firmata da Alessandro Piperno che negli anni è diventato un amico e che all’epoca conoscevo come grande studioso di Proust, mi definisce “spericolata”. Mi ha fatto sorridere come definizione, ma credo che abbia ragione. Rileggendomi oggi mi vergogno della mia sicurezza, quasi sfrontata, nel raccontare l’argomento. All’epoca riempivo le frasi di “senza dubbio” e “ovviamente”, che ora nella nuova edizione ho eliminato. Oggi non sarei più così “spericolata”, ecco, forse crescendo si diventa paradossalmente più cauti, meno “tranchants”.
- Come ti sei approcciata alla ricerca dei colori nella Recherche? Passare al vaglio sette libri non deve essere un’impresa semplice. Eppure nel tuo testo esprimi le tue teorie con una vivacità e un’accuratezza sorprendente, come se dicessi al lettore: ecco, è tutto qui proprio sotto i tuoi occhi, ma come, non lo vedi?
Partivo da un’intuizione e poi la inseguivo, attraverso una ricerca sistematica, per valutarne la veridicità. Nel corso della mia ricerca poteva poi essere confermata o smentita, ed è stato proprio questo il bello. Mi soffermavo sulla sfumatura di un colore, sulla base dell’impressione che mi aveva suscitato, e poi la inseguivo attraverso le pagine per vedere dove Proust la collocava, come evolveva nella storia. A volte venivo persino smentita nella mia idea iniziale. Mi sono accorta che la Recherche è un libro che si modifica nella nostra memoria, come se continuasse a lavorare dentro di noi, nei nostri ricordi, anche quando non lo leggiamo. A volte rileggerne delle pagine è come tornare in una vecchia casa di villeggiatura e ritrovare un oggetto che avevamo dimenticato: eppure era proprio lì, era sempre stato lì.
- Hai dedicato delle pagine bellissime al Blu che, tra l’altro, è il mio colore preferito. Nella Recherche questa sfumatura ha un’importanza fondamentale. Diventa l’emblema della ricerca e della creazione artistica. Proprio blu è la visione che appare “carica di luce” al narratore nel finale del Tempo ritrovato.
Il Blu racchiude una promessa di felicità, proprio come un lembo di cielo azzurro. Rappresenta la creazione e la riflessione sull’arte. Nella nuova edizione del libro ho inserito una frase di Victor Hugo che ho scoperto anni dopo la pubblicazione della prima edizione di questo saggio e mi è apparsa come una rivelazione. “L’art c’est l’azur” scrive Hugo, ovvero l’arte è l’azzurro. Mi è sembrato che quell’espressione venisse in qualche modo a chiudere un cerchio, a togliermi ogni dubbio. Hugo sembrava confermarmi con quella frase la veridicità della mia intuizione.
- Un altro colore fondamentale e affascinante è il verde, che tu associ al tempo. Scrivi che il verde è il colore del “principe in fuga”, del re degli inafferrabili: il tempo che tiene assieme il velluto inimitabile degli anni. Nel finale, però, lo definisci “spietato come il destino”.
Esatto, il verde è il colore rappresentativo del Tempo. Nella Recherche appare sin dal primo libro, è il colore che si associa ai lunghi soggiorni del narratore in campagna e ai giochi nei giardini, quindi all’infanzia. Tra l’altro si tratta di un colore particolare perché in pittura si basa su un pigmento naturale che, per diretta conseguenza è anche fragilissimo, delicatissimo, corruttibile, come la memoria. Può spegnersi, incupirsi, è proprio come una sfumatura del tempo che ci sfugge tra le dita e in un attimo è già passato. Questa, per me, è una similitudine irrestistibile. La prima cover del libro doveva proprio essere di colore verde: un quadro di Félix Vallotton (me lo mostra, Ndr). Vallotton era un pittore svizzero trapiantato in Francia. Ha dipinto quadri bellissimi, ma in Italia è quasi sconosciuto, considerato comunque un “minore”, ingiustamente secondo me.
- Nel libro inserisci anche con uno spiazzante effetto a sorpresa il “non-colore” e lo associ al personaggio più sfuggente della Recherche, Albertine, la ragazza che il Narratore ama ma non riesce mai a possedere totalmente. Come ti è venuta l’idea per coniare l’espressione così particolare “non-colore”?
Non mi ricordo da dove è nata l’espressione, penso di non averci pensato molto in realtà. Mi sono accorta che il personaggio di Albertine era impossibile da fissare in un colore o in una sfumatura precisa, perché i suoi colori mutano sempre. Anche le descrizioni che il narratore ne fa sono spesso contraddittorie: un giorno ha un neo sulla guancia, poi nelle pagine successive il neo appare sul mento. Anche il colore dei suoi occhi muta spesso, dall’azzurro al verde al nocciola. Albertine è l’essere in fuga per definizione: è la prigioniera, poi la fuggitiva, non sappiamo se è fedele o no, se è bugiarda o no. Per noi e per lo stesso Narratore la sua persona rimane un mistero. A ben vedere è sempre così per le persone che amiamo, e Proust ce lo dimostra. Albertine è un caleidoscopio che ti frega sempre, è un’imprendibile definitiva.
- Il finale di Proust. I colori del tempo è spiazzante. Presenta una specie di rivelazione inattesa, nonostante si tratti di un saggio di critica letteraria e non di un thriller.
Il colpo di scena è dato dal capitolo intitolato “Bianco e nero” in cui dimostri che Proust in realtà vide la maggior parte delle opere pittoriche grazie a delle riproduzioni, delle stampe in bianco e nero. Nella sua vita viaggiò pochissimo, in Italia e in Olanda perlopiù. E scrisse all’interno di una stanza spoglia dalle pareti bianche, nude. Eppure è riuscito a trasformare la sua opera in una galleria variopinta di immagini, come è stato possibile?
Credo che questa sia l’abilità dei grandi scrittori: riuscire a raccontare anche quello che non conoscono, che non hanno mai visto. Si dice che si dovrebbe scrivere solo ciò che si conosce, ma non è così. Proust è riuscito a immaginare un intero mondo e a consegnarcelo. Era un impareggiabile trasfiguratore.
Recensione del libro
Proust. I colori del tempo
di Eleonora Marangoni
- Alla fine del saggio definisci la Recherche come “il tentativo di catturare una luce”. Una definizione bellissima secondo me: la luce del tempo. Mi ha colpito che il tuo romanzo d’esordio, vincitore del Premio Neri Pozza nel 2018, si intitolasse proprio Lux. Il titolo originale era Lux o come farla finita con il passato, giusto? Era già un titolo confessione?
Non avevo mai pensato che questa intuizione potesse in qualche modo derivare da Proust. Lux per me era un riferimento alla luce abbagliante del Sud. Il libro infatti è ambientato su un’isola dove è situato quel luogo immaginario che è l’Hotel Zelda. Il titolo originale Lux o come farla finita con il passato faceva riferimento alla luce che filtra attraverso i ricordi. E il protagonista Thomas Edwards è un architetto della luce. Quindi sì, sembra tutto collegato in qualche modo. Non credevo che questa intuizione derivasse da Proust.
- Lux per te è stato un libro importante. Avevi già esordito in Francia con un saggio Proust e la peinture italienne (2011) e Une demoiselle (2013). Però è stato Lux a rivelarti al pubblico italiano grazie al Premio Neri Pozza e, successivamente, con la dozzina dello Strega. Ti aspettavi questo successo?
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Assolutamente no, non credevo nemmeno di vincere il premio. Il libro in realtà lo stavo scrivendo da circa cinque anni: lo scrivevo, lo abbandonavo e poi puntualmente lo riprendevo. Un giorno mi sono detta che dovevo darmi una scadenza e finirlo, perché era inutile prolungare la scrittura all’infinito e procrastinare. Il Premio Neri Pozza è stato la mia data di scadenza. Il manoscritto l’ho consegnato in extremis nell’ultimo giorno utile per partecipare al concorso. Ho rischiato persino di non consegnarlo in tempo, è stato tutto parecchio avventuroso. Terminai di scriverlo in Francia. Ero stata chiusa in casa per giorni nel tentativo di finirlo e quindi avevo perso completamente la percezione del tempo. Misi il punto finale a mezzogiorno stesso della data di consegna e decisi di scendere nella copisteria più vicina per stamparlo e poi spedirlo in Italia. Era infatti imperativo spedirlo in doppia copia cartacea.
Scendo e trovo la copisteria chiusa. È iniziata così un’avventura rocambolesca. Dovevo partire per l’Italia la sera del giorno stesso, alle otto. E il libro doveva essere spedito entro quel giorno. Miracolosamente ho trovato aperto un Internet Point dove il proprietario, un signore gentile, mi ha aiutato a stamparlo. Ma la stampante non funzionava fronte e retro, così abbiamo dovuto stampare due copie pagina per pagina: ne è uscito un volumone. In seguito questa disavventura ha giocato a mio favore. In casa editrice sono rimasti colpiti nel vedere questo tomo voluminoso, alto quasi quanto la Recherche, che proveniva dalla Francia. Il libro si è fatto notare da subito, diciamo. Comunque sarò sempre grata a Neri Pozza per l’opportunità che mi ha dato.
- Senza Lux probabilmente non avremmo letto Paris s’il vous plaît, che hai pubblicato quest’anno per Einaudi. Si tratta di una guida anomala della città, in bilico tra romanzo autobiografico e saggio, ammantata da un particolare e dolce filtro nostalgia. Quando hai deciso di scrivere questa sorta di memoir dei tuoi anni parigini?
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In realtà il libro è nato su commissione. È stata Einaudi a contattarmi perché stava inaugurando una nuova collana in cui diversi scrittori dovevano parlare a turno di una città. A me naturalmente è toccata Parigi, dove ho vissuto ben otto anni, ma che è comunque anche la capitale più raccontata, più inflazionata e romanzata di sempre. Sul momento ho accettato subito, sono stata lusingata dalla proposta, ma poi mi è venuta l’ansia. Come potevo raccontare una città che è, a tutti gli effetti, un cliché vivente? Dopo una serie di tentativi, scritture e riscritture, ho capito che dovevo farlo a modo mio. Quindi raccontando e, al contempo, raccontandomi.
- È come se in Paris s’il vous plaît confluiscano tutti i tuoi libri precedenti: c’è l’impronta saggistica ma anche quella letteraria. Per la prima volta, però, introduci la narrazione autobiografica nella scrittura. È stato difficile metterti così a nudo sulla pagina?
Non è stato semplice decidermi a farlo. A un certo punto, però, mi sono accorta che non potevo mantenere un tono neutro, così la narrazione non funzionava e ho capito che dovevo allentare le mie difese, disarmarmi, dire “Io”. Alla fine la mia storia non è nulla di particolare, solo quella di una ragazza in una grande città che procede nella vita per tentativi e fallimenti scoprendo sé stessa. Credo che tutto il libro possa essere letto come una ricerca. In generale faccio fatica a parlare direttamente di me quando scrivo, non ritengo la mia vita così interessante da meritare tante attenzioni e i libri devono essere soprattutto viaggi verso un altrove, pellegrinaggi, trasfigurazioni. In questo caso, però, mi è sembrato necessario farlo.
- In realtà è proprio l’aspetto autobiografico ad arricchire la narrazione. Racconti una serie di momenti casuali, quasi insignificanti e li rendi luminosi. Il libro si compone di frammenti, incontri con persone che appaiono e scompaiono nel giro di poche pagine, eppure rimangono indelebili nella memoria. Come se tu avessi composto la tua personale Recherche con tutti i personaggi della vita. Dici che se c’è una cosa che Proust ci insegna è che “si può scrivere di qualsiasi cosa”. Attraverso la lente della scrittura ogni vita è interessante, non credi?
Non avevo avvertito l’influenza di Proust, ma è evidente che devo averla interiorizzata mio malgrado. In un certo senso è la prova che ciò che scrivo lo penso davvero, che in un certo senso ciò che scrivo “sono io”. Credo di aver dato una nuova visione di Parigi. In genere Parigi viene descritta come la città degli innamorati, mentre per me è piuttosto la città dei gruppetti aleatori, di incontri fugaci, una specie di regno dei solitari. Ho provato a raccontarla in questa chiave.
In questo senso è la città della flânerie: si cammina andando in contro a se stessi, è una città che ancora oggi nonostante tutto riesce a incoraggiare l’indole creativa, suscita una malinconia produttiva, una malinconia feconda. Questa attitudine suggerita dalla città attira consigli di vita che sembrano arrivarci quasi per caso. Parigi è un luogo che foraggia la casualità.
- Nel libro descrivi anche la decisione di lasciare Parigi. Scrivi “Parigi a un certo punto finisce e il momento in cui si decide di andare via non si dimentica”. Tu lo racconti come una sensazione di velato malessere che a un certo punto si trasforma in una presa di coscienza. Mi ha molto colpito quella scena, in cui cerchi delle calze pesanti e non le trovi, fuori piove e fa freddo, la giornata appare inconcludente.
È andata esattamente così. È stata un’intuizione improvvisa, forse una mancanza. C’è un libro di Stefan Zweig che si intitola Momenti fatali e descrive proprio questi momenti di passaggio, queste improvvise rivelazioni interiori o prodotte da un corto circuito tra noi e il mondo che ci sta attorno. Quell’istante che descrivo nel libro è stato, in un certo senso, il mio “momento fatale”. Ma Parigi non l’ho mai lasciata davvero, la considero la città che ha “educato il mio sguardo”. Appena posso ci torno, è un posto da cui non sono mai davvero andata via e in cui tornerò sempre.
- Tra i tuoi programmi futuri c’è Parigi, Proust o di nuovo la scrittura?
Sto lavorando a un nuovo libro, un romanzo, che uscirà per Feltrinelli. Non so ancora quando uscirà, e aspetto una bimba che dovrebbe nascere tra un paio di settimane, è il mio primo figlio e non so immaginare come e quanto cambierà il mio modo di lavorare. Di certo la scrittura rimarrà un mestiere e un rifugio, e appena potrò la porterò a Parigi.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista a Eleonora Marangoni: Proust, Parigi e la luce dell’arte
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