Tutto il cielo che serve (Fazi, 2021) è l’ultimo omaggio che il giornalista e scrittore Franco Faggiani dedica, ancora una volta, alla Natura e al rapporto che quest’ultima sa instaurare da sempre con l’uomo, un legame indissolubile sviscerato nei suoi infiniti "chiaroscuri", un inno potente e intimistico che non concede sconti ma che al contempo sa esaltare ciò che di meraviglioso è racchiuso nella forza salvifica di un paesaggio.
Che Franco Faggiani sia un fedele amante della Natura, da sempre legato a contesti paesaggistici in grado di suscitare emozioni profonde e di maturare importanti riflessioni, lo si evince ogni volta che ci si addentra fra le pagine di un suo romanzo: la storia narrata non è altro che un nitido riflesso e un’eco universale di come l’ambiente circostante possa plasmare e governare pensieri, stati d’animo e azioni di ciascun essere umano.
Si è rivelato in questa interessante intervista che mi ha rilasciato tempo fa, dove ci permette, passo dopo passo, di comprendere al meglio il suo mondo più intimo e narrativo...
- Potere della Natura: quando sei a contatto con questa nostra grande “madre”, come figlio riesci a ricevere tutte le risposte da lei? Quale tipo di legame avete? Quali sensazioni o stimoli sa fornirti ogni volta?
Molte persone interpretano la Natura come un luogo idilliaco, un bel paesaggio sotto il cielo blu, prati e boschi verdi e un ruscello che li attraversa. La Natura è molto di più. È materia, rumore, suono, odore, spazio, fatica, solitudine, ignoto, pioggia, sassi, intrico, nuvole, freddo. Cose che messe insieme, incutono anche un po’ di paura, specie se ci si trova in posti sconosciuti. Ma è una paura benefica, perché ci costringe a riflettere, a fare delle scelte improvvise, per esempio, su dove andare, su come fare a superare un ostacolo e cose simili. Ci rende alla fine più consapevoli dei nostri mezzi. A volte credo di avere con la natura un legame profondo, ma non è proprio così, perché la natura non è mai “amica”, perché lei fa la sua vita, fatta di tante cose, indipendentemente da me o da chiunque altro, e non dà confidenza, anche se accoglie, nasconde, dà beneficio fisico e spirituale, a volte protegge. Però, esige il massimo rispetto. Dice uno dei protagonisti di un mio romanzo:
“Non metterti in contrasto con la natura perché è una battaglia persa, sempre.”
Io me la cavo proprio per questo, perché sto molto attento a non lasciare tracce; perché a forza di andare ho acquisito una certa esperienza per godermela e per cavarmela; oggi mi fa decisamente meno timore attraversare una foresta in un posto dove vado per la prima volta, piuttosto che infilarmi tra le vie di una città che non conosco.
- Montagna: cosa provi nei suoi confronti, quando ti trovi di fronte a lei e la “la vivi”? Amore, rabbia, soggezione, rispetto…
Un tempo soggezione, adesso rispetto. Amore o rabbia mai. Ma ho cambiato l’approccio. Prima salivo la montagna per lo più in verticale, e la mia attenzione era tutta rivolta alla sicurezza: dove metto i piedi, dove passo le corde, dove trovo gli appigli giusti per le mani… Così non riuscivo ad apprezzare i panorami, i luoghi, le persone. Adesso la circumnavigo, la percorro in orizzontale, mentre la conquista della vetta è roba d’altri tempi, non mi interessa più. Faccio lunghissime camminate a passo lento, penso a un sacco di cose, mi faccio venire idee, mi fermo a chiacchierare con le persone e ammiro i panorami che prima avevo sotto il naso e non vedevo. Adesso è molto più interessante e benefico.
- Pittura: prova ad accostare una tela o un quadro a ogni romanzo che hai pubblicato. Potresti motivarci almeno una delle tue scelte?
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A La manutenzione dei sensi accosterei uno dei tre quadri “alpestri” che formano il Trittico di Giovanni Segantini: La Natura, la Vita, La Morte. Sceglierei la vita. Del resto, i protagonisti di questo romanzo – ma anche dei due successivi – tornano a nuova vita, sempre con il silenzioso contributo della natura. A Il guardiano della collina dei ciliegi abbinerei uno dei tanti quadri di Edward Hopper, vissuto nello stesso periodo del protagonista del romanzo. Uno a scelta va bene, perché alla fine tutti esprimono la solitudine, che è una delle condizioni determinanti vissute da Shizo Kanakuri, il primo attore della mia storia, appunto.
A Non esistono posti lontani affiancherei un quadro dipinto nel 1818 da Caspar Friedrich, Viandante sul mare di nebbia, perché mi richiama alla mente il viaggio, l’ignoto, come quello che i due protagonisti affrontano.
- Musica: quale voce, suono o melodia attribuiresti alle tue opere? E perché?
Domanda a cui non so rispondere con coerenza, per il semplice motivo che… non ascolto musica. Di nessun tipo. Non che non mi piaccia, sia chiaro, ma il mio incontro con la musica non è cercato, resta puramente occasionale. Non sono mai andato a un concerto, per esempio, o a sentire un’opera. Però, per dire, lo scorso autunno a Lisbona ho seguito per tutto il giorno una band di trombe, clarini e tamburi che girava per le vie della città, ammaliato dai suonatori e dalle loro note. In viaggio mi guardo intorno e penso, a casa scrivo o leggo, e quando cammino sto in silenzio e ascolto i suoni intorno, che a prestarci attenzione sono tantissimi. Faccio, per così dire, “manutenzione dei sensi”.
- Romanzi: a quale storia sei maggiormente legato? E in quale hai riscontrato più difficoltà durante la stesura?
Sono più legato al primo e al penultimo romanzo. A La manutenzione dei sensi perché la storia si svolge in luoghi che conosco bene e contiene molti elementi autobiografici. A Non ci sono posti lontani perché racconta di luoghi, persone e memorie destinate a scomparire.
Tutto il cielo che serve
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Il guardiano della collina dei ciliegi mi ha impegnato più degli altri perché la storia vera, originale e davvero incredibile, si è svolta in un Paese che non conoscevo e in un’epoca diversa dalla nostra. Oltretutto, documentarsi è stato difficile, perché del personaggio anche in Giappone – dove era nato e a lungo aveva vissuto – non si avevano molte notizie. Ho dovuto studiare storia, geografia, economia e religione, che sono le quattro materie base per conoscere un po’ un Paese. Però questa cosa mi ha dato grande soddisfazione: il romanzo era stato inserito tempo fa, da un recensore qualificato, tra i cinque migliori libri sul Giappone ed era l’unico scritto da un autore non-giapponese.
Il guardiano della collina dei ciliegi
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- Titoli e personaggi: come nascono? Da un’idea, un’intuizione, un ricordo, un oggetto, un dettaglio, da qualcosa di letto o ascoltato? Chi tra i due generalmente “bussa” per primo alla tua porta?
Lo scrittore Murakami, che cito spesso, ha detto più o meno così:
"Le storie si trovano ovunque, anche grattando il fondo dei cassetti dimenticati. L’importante è riuscire a individuarle."
Io credo di essere capace di individuarle, non certo per dono divino o naturale, ma semplicemente perché ho fatto, e a volte ancora faccio, il giornalista freelance da cinquant’anni. Non ho mai scritto fatti di cronaca, ma quello che stava dietro questi fatti. Ovvero, le storie delle persone, dei luoghi e delle cause che avevano scatenato i fatti stessi. Tutto quel che ho scritto come reporter freelance l’ho proposto io e mi è sempre andata bene. Perciò, cercavo le storie, le proponevo, le scrivevo. Insomma, per scrivere i libri questo lungo e continuo allenamento è stato fondamentale.
- Spazio e tempo: hai un contesto, un luogo preferito, intimo associato alla tua attività di narrativa? Dove e come riesci a trarre ispirazione? E c’è una stagione in particolare, fra primavera, estate, autunno e inverno, alla quale sei più legato o che ti offre la giusta predisposizione psicologica ed emotiva alla base della stesura di una tua storia?
Grazie proprio all’attività giornalistica in diverse aree del mondo e in situazioni anche urgenti e a volte pericolose, mi sono dovuto abituare a scrivere ovunque e in qualsiasi situazione. Una volta che ho in testa una storia posso scriverla anche durante una festa, tra le bancarelle del mercato o sul tram. Questo offre grandi vantaggi, perché fa guadagnare tempo, non ho bisogno di raggiungere per forza luoghi nascosti o solitari, rispettare tempi prefissati. Comunque, nella casa di Milano, da qualche mese, ho una stanza molto confortevole tutta per me e passo le giornate lì. Ho anche una casa in montagna, nelle Alpi piemontesi, in una posizione abbastanza isolata. L’ideale per scrivere, si potrebbe immaginare. Fino a qualche anno fa è stato così, ma adesso mi lascio maggiormente attrarre dal passaggio multicolore delle stagioni; inizio a scrivere con le migliori intenzioni, ma poi resto al computer poco tempo e vado a camminare nei boschi o a scoprire qualche posto nuovo, in ogni stagione e con qualsiasi tempo. Per fortuna, la scrittura non ha orari preferiti o luoghi perfetti; comunque io procedo così: penso a una storia per molto tempo, e questo lo posso fare sempre e ovunque, anche quando vado al supermercato; poi, sempre in testa, mi creo il film della storia, dalla prima immagine all’ultima, e così, quando mi metto a scrivere davvero, non mi ci vuole molto tempo. La prima stesura di ogni romanzo per Fazi l’ho sempre scritta nell’arco di pochi mesi. Ma avevo già visto tutto il film nella mia testa, come in un’anteprima.
- Giornalismo vs narrativa: quali atmosfere e/o quali echi propri di questo tuo settore professionale sei riuscito a tradurre fedelmente nella forma narrativa del romanzo? Quali sono le differenze evidenti e quali gli stimoli percepiti tra il creare articoli giornalistici e romanzi di ampio respiro?
Ho cominciato a pubblicare articoli molto presto: a 19 anni ero nelle foreste della Nuova Guinea, e questo qualche decennio fa, e non c’era nessun mezzo di comunicazione se non la telescrivente nelle grandi città o qualche telefono sparso. Poi ho scritto dalla Somalia, dalle Filippine, dall’Argentina, e mi sono sempre mosso da solo. Un’attività professionale direi avventurosa - anche se in seguito mi sono occupato di ambienti più quieti - che in qualche modo si riflette nelle storie tradotte in romanzi. Insomma, le cose che scrivo devono avere alla base l’avventura, anche se poi i personaggi restano a lungo nello stesso posto: vedi Shizo Kanakuri che ho fatto vivere per 55 anni di fila su una collina fitta di ciliegi.
- Richiami letterari: nelle tue opere esistono influenze derivate da studi intrapresi e/o da letture affrontate? Parlando di libri, raccontaci quale lettura ti ha piacevolmente colpito nel corso della vita.
Ho frequentato a vent’anni, per tre anni, un Centro sperimentale di giornalismo, l’equivalente di un Master odierno, e i docenti erano i grandi inviati dei quotidiani e dei settimanali di allora. Con alcuni di loro ho successivamente anche lavorato per qualche tempo e sono nate anche amicizie dirette, come con Oriana Fallaci o con Lucio Lami, un grande inviato di guerra, poi scrittore, che negli anni ‘80 si aggregò per due mesi ai mujaheddin tra le montagne dell’Afghanistan senza dare notizie. Loro hanno lasciato il segno nel mio modo di scrivere. Poi sono arrivati i libri di Jack London, Conrad, Kipling, Hemingway, Thoreau, Chatwin, Buzzati, Mario Rigoni Stern… come vedi, sono sempre stato un po’ limitato nei temi: avventura, viaggio, natura.
- Potere dell’immagine: rivelaci la storia che immagineresti o vorresti fosse tradotta sul piccolo o grande schermo, e raccontaci perché…
Tutti e quattro i romanzi pubblicati in questi ultimi anni con Fazi si presterebbero, non detto da me, naturalmente, a una trasposizione cinematografica o televisiva. Una delle domande che maggiormente mi rivolgono, non a caso, è quella di fare i nomi di possibili protagonisti, per come me li immagino io. Ho avuto anche qualche vaga proposta sul tema, però non se n’è fatto mai nulla. Ma meglio così, perché alla fine sarebbe un po’ un problema, poiché vorrei tenere sempre sott’occhio la sceneggiatura per evitare che le storie vengano cambiate o i protagonisti trasformati. Andò così con un romanzo, ormai introvabile, che avevo pubblicato nel 1995 con un piccolo editore che era anche un mio amico e oggi è un poeta e uno scultore. Qualcuno provò a farne una sceneggiatura ma venne fuori tutta un’altra storia rispetto alla mia. “Beh, se la volevate così potevate scrivervela da soli”. Così chiesi di lasciar perdere. Coerente o, forse, ingenuo... chi lo sa.
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Dovessi scegliere adesso tra gli ultimi miei libri, direi che la storia ideale potrebbe essere quella di Non esistono posti lontani, perché mi sembra ci siano buoni ingredienti: personaggi ben delineati e anche divertenti, un periodo storico importante e definito, la nascita di una strana amicizia e, infine, il viaggio avventuroso lungo tutto l’Appennino, dove quel che resta di quanto ho descritto nel romanzo potrebbe presto scomparire del tutto, dalle carte geografiche e dalla memoria delle persone.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista a Franco Faggiani: quando la Natura diventa una chiave per conoscere la realtà
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