Lorenzo Calza, nato a Piacenza nel 1970, è sposato, ha due figli e vive a Genova. Esordisce nel 2000 scrivendo Arkhain, fumetto fanta – horror (Marvel Italia Panini). Dalla fine degli anni Novanta sceneggia Julia, le avventure di una criminologa (Sergio Bonelli Editore). Il suo primo romanzo La commedia è finita è uscito nel 2009 (Robin Editore). Come illustratore ha ideato, tra le altre cose, il personaggio femminile She (Style.it – Il Fatto Quotidiano). In rete si trova il suo cortometraggio Pipistrelli.
La collana Calliphora di Edizioni della Sera ospita Panico. Il buio è l’unica sicurezza per rimanere vivi (2013), thriller ad alta tensione che si legge a tutta velocità. Un treno entra in una galleria e non ne esce più, all’interno dello scompartimento i passeggeri non sanno che fine faranno. Tre giorni. Al buio...
“Mercoledì, alle otto e ventisette del mattino, entrammo in galleria. Pioveva a dirotto. L’ultima cosa che vidi, all’esterno, furono i muri scrostati di un casolare a ridosso dei binari. C’era un murales”.
- Lorenzo, com’è nato il plot del mistery?
L’idea di fondo nasce dai miei frequenti spostamenti in treno, qualche anno fa. Il convoglio è un mondo a sé, un microcosmo in movimento che sposta frammenti di umanità, in un involucro di acciaio, seguendo un groviglio di cavi percorsi da elettricità. Le stazioni, i ritardi, la gente di corsa, la voglia di conoscere o escludere il prossimo, le cuffiette con la musica, gli studenti, i migranti, i pendolari, gli anziani con grossi sacchetti, i barboni che mugugnano. E le stazioni, con i loro bar, i manifesti, i lavori in corso. Tutto parla durante un viaggio in treno, è un concentrato perfetto dello spirito di un popolo. Uno sceneggiatore impazzisce, appunta frasi, disegna volti. E un giorno gli viene l’idea per un romanzo.
- Può spiegarci il significato del sottotitolo del volume: Il buio è l’unica sicurezza per rimanere vivi?
In realtà non è farina del mio sacco, e neanche il felice titolo: “Panico”. Il mio titolo di lavorazione era “La galleria”, sicuramente meno efficace, però non riuscivo a discostarmene, perché è una galleria che avvolge tutta la vicenda, e il buio, sì. La lotta per la sopravvivenza, anche. Per cui non solo l’editore ha trovato un titolo felice, ma anche il sottotitolo. Questo romanzo ha una tale compattezza che risulta difficile spiegarlo in poche parole. Ognuna di queste potrebbe rovinare la lettura, o spostarne il senso. Con un pizzico di presunzione lo considero un romanzo plasmabile dal lettore come meglio crede, come gli viene. Di sicuro completamente estraneo agli stilemi del genere thriller, almeno per i contenuti. Mentre la tecnica è proprio quella della suspense, nella sua forma più sincopata, incalzante.
- Per la redazione della trama si è ispirato a uno scrittore in particolare?
Alla mia età credo di aver raggiunto una certa maturità stilistica, dopo tanti anni di militanza narrativa. Quando scrivo, non lo faccio per imitare qualche modello, scimmiottandolo, o per discostarmene. Lo faccio mosso da ben altra urgenza. In questo caso, raccontare il midollo del tempo che stiamo vivendo, la psicologia profonda del nostro paese, usando un pretesto, chiudendo il respiro in un’unità di luogo. Ecco, con senno del poi, si possono sentire i rintocchi di alcuni miei maestri: la capacità di catturare l’insolito di Richard Matheson, il parossismo di Joe Lansdale, la continua tensione allo scavo emotivo ed esistenziale della scuola del noir, americano e francese. Ma anche il trasognato stile introspettivo di un romanzo come “Lo smeraldo” di Mario Soldati e il senso di poeticità diffusa di una certa scuola sudamericana, in stile Osvaldo Soriano. Molte suggestioni, tutte inconsce, legate alla mia cultura, non a una esplicita volontà; tutte al servizio di un percorso originale, che poi è anche il mio personale. Sì, in questo lavoro mi sono messo in gioco ed esposto come forse mai mi è capitato in carriera.
- Il viaggio del treno è simbolico?
Simbolico nel vero senso del termine: oltre che freudiano, junghiano, oserei dire. Non c’è nessun intellettualismo, la trama fila via potente e veloce come una frustata, ma in diversi punti mette in scena gli archetipi, oltre che il subconscio. Ti spinge al confronto con il groviglio che hai dentro, e con quello che ci attanaglia da fuori. In questo senso il treno, e il suo ingresso nella galleria, va al di là dell’ironico utilizzo che ne faceva Alfred Hitchcock, come elegante metafora sessuale, comunque presente anche in “Panico”. Insomma, qui, ogni elemento di stile, ogni scelta, è stata messa al servizio della storia, della scottante materia trattata.
- Che cosa rappresenta per Lei il mondo dei fumetti?
La mia vita. Il punto d’intersezione tra le immagini e le parole, la caverna platonica della capacità di esprimersi del Novecento. La storia del fumetto è la storia del nostro immaginario e il mio, anche quando scrivo romanzi, tiene sempre conto della telecamera interna, della necessità di “disegnarmi” la scena. “Julia” è l’esposizione lunga e articolata di tutto questo, “She” la sintesi condensata. Combatto ferocemente l’utilizzo del termine “fumettistico” come diminutivo, detesto chi liquida un film e un libro giudicandolo “un fumettone”. Se così fosse, sarebbe perfettamente riuscito, perché il fumetto è una delle arti più nobili e complete che esistano. Certo, i primi a doversene accorgere sono coloro che operano nel settore, autori e editori. Non dovrebbero mai dimenticare la lezione dei grandi maestri, sia nel campo dell’illustrazione sia della sceneggiatura. Prima di disegnare o scrivere volutamente “male”, come certi modelli mutuati in primis dai cartoni animati, dovrebbero sudare i fondamenti del mestiere, come forma di rispetto del lettore. Ecco, a questo proposito, in “Panico”, in un passaggio intenso e visionario, mi tolgo una gustosa soddisfazione. Al lettore il compito per nulla arduo di scovarla!
© Riproduzione riservata SoloLibri.net
Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista a Lorenzo Calza, autore di “Panico”
Lascia il tuo commento