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L’11 dicembre del 2024 è deceduto il giornalista Riccardo Bonacina, fondatore e direttore per molti anni di “Vita”, primo periodico italiano dedicato allo stato sociale e al terzo settore.
Nel 1995 molte associazioni italiane del volontariato avevano condiviso con il noto giornalista della RAI, autore e conduttore della trasmissione "Coraggio di Vivere", il progetto di una rivista che dà la voce a
chi ogni giorno esercita il proprio diritto alla cittadinanza senza soccombere alle proprie responsabilità [...] nella costruzione di una casa comune più degna, più civile, più libera.
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Pochi sanno che Bonacina si è interessato anche di teatro, con studi su Artaud e Pirandello:
- Antonin Artaud, il pubblico e la critica (La Nuova Italia, 1984);
- Incarnazione e rappresentazione: a partire da Artaud, in Teatro europeo tra esistenza e sacralità: Francia, (Vita e Pensiero, 1986)
- Pirandello in Quattro atti, (Edit, 1991).
In questi giorni è possibile scaricare gratuitamente dalla rete un instant book che raccoglie 60 editoriali firmati da Bonacina fra il 1994 e il 2024, che sono un pezzo di storia e di cultura politica del sociale e del Terzo settore che merita di essere conosciuta.
Ho avuto il piacere di incontrare ben trent’anni fa e di intervistare Bonacina alla fine del gennaio del 1995 nella redazione milanese del settimanale “Vita”, da lui diretto, e promosso tra gli altri da Nicola Piepoli, direttore della CIRM, e dal pubblicitario Gavino Sanna.
Lo intervistai per il periodico “Orientamenti Amministrativi” (n.2, feb./mar. 1995) e quell’intervista, per contenuti e tono, è ancora oggi attuale per i temi trattati (ruolo della politica, smantellamento del sistema del welfare, povertà, corruzione, carcere, Aids, divario tra Nord e Sud).
L’intervista a Riccardo Bonacina (1995)
- Sul numero del tuo settimanale (n.4 del 26 gennaio 1995) hai pubblicato il Manifesto per la costituzione di "Parte Civile" promosso dalla Federazione Universitaria cattolica italiana, da Legambiente e dal Movimento federativo Democratico e sottoscritto, oltre che da te, da giornalisti come Maurizio Costanzo e Antonio Lubrano, da ex ministri come Fernanda Contri e da giuristi come Gustavo Zagrebelsky. Ci vuoi spiegare il senso di questa iniziativa?
Abbiamo molto riflettuto prima di presentare, anche alla presenza di Luigi Oscar Scalfaro nel novembre del 1994, e poi di pubblicare su “Vita” il Manifesto. Il ragionamento è questo: nell’epoca del sistema elettorale maggioritario, il rapporto dei cittadini è molto diretto solo nel momento delle votazioni, ma poi rischia di non pesare più durante gli anni della legislatura. Noi pensiamo che, oltre al voto, ci vogliono pesi e contrappesi per il funzionamento delle istituzioni democratiche. Quindi "Parte Civile" è una manifesto che incoraggia tutti i tentativi di associazione tra i cittadini per il controllo delle istituzioni pubbliche: dentro il sistema dell’informazione, del sistema giudiziario, nella sanità, ecc.
- Ci sono altre iniziative di diverso segno per la costituzione di "Parte Civile" con un approccio e un sentimento moralistici nei confronti della classe politica senza alcuna distinzione. Non c’è il rischio di cadere nel giustizialismo delle cosiddette manette facili?
Non è il rischio che noi corriamo, anzi nel numero precedente di “Vita” abbiamo dedicato una copertina al problema carcerario in Italia.
- Le pubbliche amministrazioni, impoverite dagli stili di conduzione e dagli errori di tangentopoli, stanno cercando di coniugare criteri di efficienza, contenimento della spesa e professionalità con i valori della solidarietà, con i diritti dei cittadini e con le nuove emergenze sociali. Persiste però un forte clima di incertezza e di precarietà che impoverisce il confronto per la nascita di un nuovo sistema di welfare, con politici ed esperti ancora divisi tra privato mercantile e solidarismo universale. Qual è la tua opinione?
Questa è un’ alternativa sbagliata che ha fatto perdere molto tempo al paese e che ha scatenato battaglie inutili, perché il vero problema da risolvere è quello dell’integrazione tra pubblico e privato. È quello di costituire una rete di servizi con la collaborazione dell’ente pubblico, dei soggetti privati e delle associazioni. La strada deve essere quella dell’integrazione tra i vari tipi di servizi, le loro culture e le loro identità e che riesca a far sviluppare una rete di aiuto sociale, di autoaiuto, di servizio sociale che oggi manca nel nostro paese.
Oggi abbiamo solo servizi che funzionano a macchia di leopardo: in alcune zone funzionano perché c’è l’ente pubblico bravo o per l’esperienza privata particolarmente felice. Proprio per questo la prossima copertina di “Vita” sarà dedicata al problema di una legge anacronistica dei servizi sociali che compie nel 1995 ben cento anni.
- Secondo te il ruolo dell’ente pubblico può essere solo quello di predisporre gli indirizzi di politica sociale e poi di integrarsi, per la gestione dei servizi, con il terzo settore o con i soggetti privati? Ovvero, la pubblica amministrazione potrebbe sempre più assumere funzioni di indirizzo e di controllo e mano di gestione?
Questa è una proposta sensata, proprio perché lo Stato non riuscirà mai a rispondere a tutte le richieste del paese. Dunque, un ente pubblico che sia regolatore e coordinatore, anche se non ci sono controindicazioni per una gestione dei servizi da parte della pubblica amministrazione.
- II volontariato o terzo settore conquista ogni giorno uno spazio determinante nel sistema dei servizi. Miliardi di fatturato, migliaia di lavoratori e di volontari rappresentano il settore non profit e già si parla di una banca etica di Arci, ACLI, Movi, Confcooperative con l’approvazione della banca d’Italia. Secondo te c’è il pericolo che il mondo della solidarietà assuma, attraverso le regole di mercato, le caratteristiche e le anomalie dei sistemi pubblico e privato?
No, non credo. Questo rischio appartiene al tempo della prima repubblica. Ci sono grandi associazioni che hanno sofferto i grandi vizi di un sistema consociativo e clientelare. L’iniziativa che tu citi invece è il segno di una capacità di riformarsi e di dare risposte nuove. C’è una forte volontà di collaborazione e questo progetto nasce dai tavoli comuni delle associazioni.
- A partire dagli anni ’80 il volontariato ha denunciato il clima di smantellamento non solo di risorse e servizi, ma anche l’assenza di un progetto di proposta nei confronti del disagio. Lo Stato avrebbe agito con una legislazione per urgenze lasciando poi solo alla volontà e alle risorse degli enti locali il compito di provvedere, ma in assenza di un quadro legislativo nazionale sulle politiche sociali è sempre più forte il rischio di un’assistenza e di una sanità differenziate tra regioni ricche e regioni povere, tra comuni più sensibili ed altri indifferenti. Qual è la tua opinione?
II divario tra Nord e Sud è sempre il problema più grande, in particolare sulla questione sanitaria. Le cifre sulle migrazioni sanitarie sono spaventose. Ma se lo Stato ha enormi responsabilità, anche gli imprenditori hanno staccato la spina della questione sociale alla fine degli anni ’50, dopo il vecchio Adriano Olivetti tanto per capire: hanno pensato solo ai profitti delle imprese senza ricadute sociali. Perciò non solo lo Stato, ma anche gli imprenditori hanno delle responsabilità sullo smantellamento dello stato sociale.
- Nonostante la cultura imprenditoriale e manageriale che ha caratterizzato Forza Italia, che cosa è mancato sul versante della solidarietà al governo Berlusconi?
Secondo me c’è stato un ministro poco felice, che ha concepito il ministero come un talk-show parlando molto e facendo poco. Anche se ha parlato con l’intelligenza e l’abilità che gli riconosciamo.
Al governo Berlusconi è mancato il tempo per realizzare un programma, ma soprattutto gli è mancata la sensibilità di capire che oggi il consenso lo si ottiene sulla capacità di progettare una società diversa proprio sulle questioni sociali. Anzi devo dire che Alleanza Nazionale su questo problema dimostra di essere più attenta di Forza Italia.
- Però Alleanza Nazionale è accusata di difendere il modello del vecchio assistenzialismo.
Questo è probabile, ma almeno dimostra di avere un progetto.
- Paura ed egoismo sono due sentimenti che spesso emergono tra la gente quando esplodono fenomeni come l’immigrazione di colore, la prostituzione maschile, malattie come l’Aids. Ma alle domande di sicurezza e di legalità dei comitati di quartiere rivolte alle istituzioni spesso si sovrappongono richieste di moralità che poi diventano esplicite domande di repressione nei confronti dei diversi e degli emarginati. Quale può essere la corretta relazione tra la legittima domanda di sicurezza personale e collettiva della gente comune e le forme della solidarietà?
Per esempio sono dieci anni che noi giornalisti parliamo dell’Aids, pur con tutte le colpe da attribuire al sistema dell’informazione. Però poi ti rendi conto, quando nascono i problemi degli asili, sul posto di lavoro o quando la gente ha paura delle macchine scambia siringhe, che forse non è bastato e che ogni volta bisogna ricominciare da zero. Perciò non bastano solo i giornali e la televisione, è necessaria una educazione nelle scuole, nei quartieri e nelle famiglie, perché i comportamenti si determinano solo nella realtà vera e non in quella virtuale.
È utile il messaggio rivolto a milioni di telespettatori, ma poi per realizzare quella “relazione” che tu dici bisogna parlare direttamente a poche persone. Ricordo il lavoro educativo di una signora disabile di Bologna che entra nelle scuole per parlare di handicap. Secondo me queste sono le forme più dirette e convincenti, se cogliamo che la gente capisca che la propria sicurezza è più garantita dalla conoscenza che dalla paura.
- Qual è il progetto del settimanale “Vita” all’interno di questo sistema?
Anzitutto di fare un’informazione meno virtuale, a differenza della grande stampa e della televisione che non parlano dei problemi veri della gente. Un’informazione drogata che si dedica solo ai “palazzi” e che non offre informazioni utili ai lettori. Per esempio nei giorni dell’alluvione non c’è stato un quotidiano che abbia pubblicato il numero verde per chiedere notizie di parenti e amici.
- Molto dipende poi dalla professionalità dei giornalisti; non tutti hanno competenze nel campo sociale. Il seminario di Capodarco aveva l’obbiettivo di far comprendere ai giornalisti il mondo dei servizi e dei bisogni sociali.
È vero. Ma perché ci sono pochi giornalisti attenti ai problemi del sociale? Perché gli editori o i direttori non hanno alcun interesse a trattare queste notizie.
- Spesso i giornalisti riprendono le veline degli uffici stampa del tale assessore, senza alcuno spirito critico.
È la realtà della stampa italiana. Quindi “Vita” occupa lo spazio finora occupato solo dalle riviste delle piccole associazioni. Abbiamo creato un settimanale distribuito in tutta Italia che tenta di raccontare, con pochissime opinioni ma attraverso dati, inchieste e dossier il mondo del sociale. C’è molta informazione di servizio con indirizzi, numeri telefonici, schede sulle associazioni e sui servizi pubblici.
L’altro aspetto importante è quello che su questo giornale si sono riunite 23 grandi associazioni di volontariato con tradizioni e culture diverse, dando vita così a un progetto di comunicazione che possa aiutare l’escluso a integrarsi nella società.
- Negli ultimi anni si sono alternati molti ministri alla sanità e agli affari sociali: cosa chiede “Vita” ai nuovi responsabili Guzzanti e Ossicini?
Anzitutto che consultino chi questi problemi li affronta quotidianamente. Lo abbiamo chiesto a Scalfaro e a Dini. Per esempio il Forum del terzo Settore è nato il 27 ottobre, giorno in cui nasce “Vita”, ed è più che una coincidenza, un segno del destino. Quando ci sono le consultazioni, oltre che ai sindacati o alla Confindustria, il palazzo della politica deve parlare con chi ogni giorno affronta, vive e risolve i problemi che questo Stato non sa vedere e non sa risolvere.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Trent’anni di pensiero sociale”: un ricordo di Riccardo Bonacina
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