E’ in libreria ormai da alcuni mesi “Aspettando Mr. Wolf” (Graphofeel 2014), secondo libro del giornalista Accursio Soldano . E’ una pubblicazione non troppo lunga ma assai significativa che prende il titolo da un personaggio di Pulp Fiction, Mr. Wolf appunto, colui che arriva nei momenti difficili e sistema anche le situazioni più critiche. Perché far ricorso a lui?
Aristotele Giordano, giornalista poco conosciuto e alla ricerca di maggior fama o almeno desideroso della pubblicazione di un articolo che superi le venti - trenta righe, ha dopo innumerevoli richieste l’occasione di intervistare un boss di “Cosa Nostra”, Don Fofò, al secolo Alfonso Catanzaro, da nove anni ormai in carcere. Sarà questo un incontro molto, molto particolare…
- Accursio, vuoi presentarci Aristotele e Don Fofò?
Diciamo che sono due falliti. Ognuno nel proprio campo. Aristotele Giordano non riesce ad avere quel successo che crede di meritare e cerca di trovare negli altri i motivi del suo insuccesso. Lo stesso vale per Don Fofò, che è in carcere. Entrambi hanno bisogno di giustificare i propri fallimenti e allo stesso tempo di avere, finalmente, la possibilità di mettere in mostra la propria irrilevanza nella società. L’occasione è un’intervista, da pubblicare in un libro che porterebbe ad entrambi quel momento di notorietà a lungo ricercato. E se ci pensi, o vai in una qualsiasi libreria, vedrai che in mezzo alle sezioni di libri classici, gialli, filosofici o di medicina, da un po’di tempo a questa parte c’è anche una sezione “mafia”. Non perché quei libri abbiano da dire qualcosa di diverso di quello che si legge sui giornali, ma molto spesso perché chi li scrive cerca i suoi quindici minuti di notorietà. In fondo, l’anonimato spaventa tutti. Ci dispiacerebbe morire sapendo che nessuno ricorderà il nostro nome.
- Perché Don Fofò dice “ Io non faccio parte di nessuna organizzazione criminale. Io sono un uomo d’onore”?
Per i siciliani l’onorabilità del proprio nome e il rispetto alla persona sono due punti essenziali. Il personaggio del mio libro, pur facendo parte di una famiglia mafiosa, non ritiene che i suoi comportamenti, compresi i delitti che commette, siano da punire proprio perché appartenendo ad un’organizzazione che ha delle regole precise di comportamento (per sé e per gli altri), il non andare contro quelle regole fa di lui un uomo d’onore che ha rispetto sia verso se stesso sia verso quelle regole che ha accettato di seguire. Nessuno, visto che non si è pentito di quello che ha fatto, che non ha tradito la sua “famiglia”, può rimproverarlo di essere venuto meno alla parola data. Lui è un uomo d’onore. Ma, ovviamente, il concetto può essere visto in vari modi. Per fare un esempio cinematografico (visto che il romanzo ne ha tanti) basta guardare l’ultima scena del film di Pietro Germi “In nome della legge” (che peraltro è stato girato a Sciacca). Quando torna in paese per arrestare chi aveva ucciso il giovane Paolino, il Pretore Guido Schiavi guarda il capo mafia Turi Passalacqua che arriva a cavallo e solo dopo un cenno di intesa del mafioso può arrestare il colpevole… in nome della legge. Ebbene Leonardo Sciascia rimproverò a Germi di aver fatto un film in cui si accreditava alla mafia un’immagine ispirata da una profonda vocazione di giustizia (il capomafia fa arrestare l’assassino del giovane), mentre secondo Tommaso Buscetta i suoi amici mafiosi disapprovavano il finale perché secondo loro, il comportamento di Passalacqua era indegno di un uomo d’onore (un capomafia non tradisce i suoi uomini).
- Per il boss Catanzaro risulta assai importante il discorso del rispetto, così tanto che cita Mosè e la Bibbia al riguardo…
Il discorso di Don Fofò è molto semplice. Diciamo subito che il personaggio usa Mosè come alibi per i suoi omicidi, ma fa una domanda precisa: perché l’uccisione dei primogeniti egiziani è un atto dovuto e non punibile dalla storia e l’uccisione dei primogeniti da parte di Erode è omicidio? Il gesto, anche se aveva una motivazione diversa, andava alla ricerca di un risultato favorevole a chi lo ha compiuto. Però, malgrado il reato sia lo stesso, Mosè è un santo, Erode un assassino. E’ una cosa che accade ancora oggi. Ma il vero problema è la mancanza di rispetto che abbiamo per le cose e per la vita. La gente è capace di uccidere solo per uno stop non rispettato, per un cane investito, per un amore non corrisposto. Non abbiamo rispetto per ciò che ci circonda, per l’ambiente. Abbiamo perso il piacere della condivisione ma siamo pronti a mettere in mostra il nostro pietismo quando leggiamo un fatto di cronaca nera sul giornale perché come diceva Gregory Corso “la pietà si appoggia al suo bombardamento preferito e perdona la bomba.”
- Poi le tematiche si ampliano. Le parole di Don Fofò toccano il giornalista e lo fanno riflettere, anzi, portano il pensiero al suo lavoro. Quali attinenze?
Le attinenze fra giornalismo e mafia? Beh, entrambi, per poter funzionare, hanno bisogno di un’organizzazione verticistica in cui ci sia un capo che decide cosa fare e sudditi che obbediscono alle direttive. Cambiano i metodi di approccio alla “battaglia” ma alla fine ci vuole il morto sul campo. Io ricordo ancora la vergognosa campagna di stampa che una nota testata giornalistica fece contro l’allora direttore di “Avvenire” Dino Boffo, reo di aver scritto un editoriale non favorevole a Berlusconi. Ebbene, in quella occasione, il direttore di quel giornale lo accusò, gli dedicò le prime pagine con documenti e fotocopie e dopo le dimissioni di Boffo dichiarò che tutte le accuse erano state inventate per rappresaglia. Secondo me questo è un approfittare del proprio potere (una testata giornalistica) e della propria posizione verticistica per eliminare un concorrente usando qualsiasi mezzo. Il “morto” sul campo è stato Boffo. E mi sono chiesto e me lo chiedo ancora oggi: in quella redazione non c’era un giornalista che, sapendo di scrivere cose inventate, aveva dichiarato la propria contrarietà, o tutti erano ad ubbidire? Beh, anche oggi, talvolta, non si seguono le regole della corretta informazione, perché come diceva Von Kleist tanti anni fa ci sono solo due tipi di giornali: quelli che scrivono a favore del potere, e quelli che scrivono contro.
- Il tuo è un libro coraggioso che non ruota solo sulla mafia, ma denuncia anche aspetti del giornalismo e della politica. Come sei riuscito in tutto ciò?
Il mio non è un libro di mafia o sulla mafia. Io lo definisco un giallo o un noir. Il giornalista che intervista il mafioso è solo un pretesto per confrontarci con la realtà quotidiana in cui, molte volte, quello che pensiamo non corrisponde a quello che diciamo e dove, pur di conservare un minimo di “ruolo nella società”, siamo disposti a ricorrere a qualsiasi espediente. Volevo due personaggi che nell’immaginario collettivo fossero distanti anni luce sia per i valori in cui credono che per la “missione” scelta. Solitamente il giornalista è quello buono e il mafioso è il cattivo. Qui non ci sono buoni o cattivi, ma solo persone che cercano di ritagliarsi un ruolo ricorrendo a qualsiasi mezzo e dimostrare che in fondo, ognuno di noi, mafioso, giornalista, politico o semplice magazziniere, al momento di operare una scelta o di difendere il proprio pezzetto di terreno, pur di raggiungere lo scopo, non sempre agisce correttamente.
- Se Mr. Wolf, colui che “risolve problemi” venisse qui ora, quale, secondo te, sanerebbe per primo?
Se fosse capace di risolvere il problema dell’incomunicabilità fra esseri umani sarebbe perfetto. Parliamo poco, molte volte parliamo male, ci affidiamo a dicerie, mettiamo in mostra il nostro pietismo e viviamo la nostra vita come se ne avessimo un’altra a disposizione. Per fortuna abbiamo momenti d’amore, ma dovremmo stare più con gli altri che fra gli altri. Perché Mister Wolf, come in “Aspettando Godot” di Beckett, non arriva mai.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista ad Accursio Soldano in libreria con “Aspettando Mr. Wolf”
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