L’introduzione de Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino merita una lettura a sé, scissa dal resto del romanzo. È come se fosse un libro nel libro, una narrazione a sé stante. Fu scritta da Calvino nel 1964, molto tempo dopo la prima pubblicazione del romanzo, uscito nel 1947. Si tratta di una dissertazione illuminante sulla letteratura del neorealismo e del Secondo dopoguerra.
Di quel suo primo libro, il primo che ha scritto, Italo Calvino dirà che è nato dalla “tensione morale di un’epoca”.
Questo romanzo è il primo che ho scritto; quasi posso dire la prima cosa che ho scritto, se si eccettuano pochi racconti. Che impressione mi fa, a riprenderlo in mano adesso? Più che come un’opera mia lo leggo come un libro nato anonimamente da un clima generale d’un’epoca, da una tensione morale, da un gusto letterario che era quello in cui la nostra generazione si riconosceva, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale.
L’autore inserisce la genesi del suo primo romanzo all’interno di un’esplosione letteraria quasi fisiologica, esistenziale, collettiva, che caratterizzò l’Italia del Secondo dopoguerra. Calvino parla al plurale affermando che in quel peculiare periodo storico ci si sentiva depositari del senso della vita come di qualcosa che “poteva ricominciare da zero”.
Di cosa parla Il sentiero dei nidi di ragno? Racconta una storia partigiana narrata sotto forma di favola attraverso la voce di un bambino Pin, che vive tra i carrugi di un’anonima cittadina ligure nella quale potremmo riconoscere Sanremo, la città dell’infanzia dell’autore. In poche pagine Calvino concentra i temi cardine della Resistenza partigiana - lui stesso era stato partigiano sino a due anni prima dell’uscita del libro - intrecciandoli ad altre tematiche quali l’amicizia, l’amore, la morte, la guerra, il desiderio. Una storia inventata, come scrive lo stesso autore, che si propone di “restare al margine della guerra partigiana, dei suoi eroismi e sacrifici”, vista con gli occhi d’un bambino, in un ambiente di monelli e vagabondi.
Scopriamo com’è nato il primo romanzo di Italo Calvino, la sua riflessione sul neorealismo e il ruolo della letteratura.
Italo Calvino e il Neorealismo
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Il sentiero dei nidi di ragno appare all’autore stesso come un libro inscindibile dal contesto storico in cui è nato. Poteva nascere solo in quel determinato contesto storico, in quel tempo di rinascita e nuove promesse, e in nessun altro. Quella letteratura, la letteratura neorealista, fu il prodotto di una voce collettiva che via via si animava con una rinnovata volontà di raccontare.
Scrive Calvino nella sua introduzione:
L’essere usciti da un’esperienza - guerra, guerra civile - […] stabiliva un’immediatezza di comunicazione tra lo scrittore e il suo pubblico: si era faccia a faccia, alla pari, carichi di storie da raccontare. La rinata libertà di parlare fu per la gente al principio smania di raccontare.
Contestualizzando il suo primo romanzo Italo Calvino ne spiega lo stile, il perché di quella lingua cruda, quotidiana, a tratti scurrile, che voleva riprendere la tradizione popolare, la narrazione orale del parlato. L’autore vuole scrivere nella stessa lingua che viene parlata nelle case, ovvero l’italiano di “chi non parla l’italiano in casa”.
Il lessico utilizzato ne Il sentiero dei nidi di ragno è privo di arcaismi, senza lirismo o tendenze estetizzanti, ma animato da una forte vivacità espressiva che già contraddistingue lo stile calviniano. Solo uno scrittore immaginifico come Calvino del resto poteva parlarci di “un lampione guercio” o di “occhi come due grandi lumache nere”.
Nel suo primo libro Calvino crea un peculiare linguaggio per immagini che si innesta tutto sull’atto del vedere.
Chi cominciò a scrivere allora si trovò così a trattare la medesima materia dell’anonimo narratore orale: alle storie che avevamo vissuto di persona o di cui eravamo stati spettatori s’aggiungevano quelle che ci erano arrivate già come racconti, con una voce, una cadenza, un’espressione mimica. Durante la guerra partigiana le storie appena vissute si trasformavano e trasfiguravano in storie raccontate la notte attorno al fuoco, acquistavano già uno stile, un linguaggio, un umore come di bravata, una ricerca d’effetti angosciosi o truculenti. Alcuni miei racconti, alcune pagine di questo romanzo hanno all’origine questa tradizione orale appena nata, nei fatti, nel linguaggio.
Calvino non si concentra tuttavia sulla ricerca stilistica e l’espressione lessicale, nota che quel suo primo romanzo nacque innanzitutto da una “necessità di dire, di esprimersi” che aveva un’origine extraletteraria. Quella nuova carica esplosiva di libertà nata dal Dopoguerra dava agli scrittori la facoltà di esprimere sé stessi: nasceva così il Neorealismo, da una pluralità di voci, dal tentativo di trovare espressione per un determinato “sapore della vita”.
Il «neorealismo» non fu una scuola (Cerchiamo di dire le cose con esattezza). Fu un insieme di voci, in gran parte periferiche, una molteplice scoperta delle diverse Italie, anche - o specialmente - delle Italie fino allora più inedite per la letteratura. Senza la varietà di Italie sconosciute l’una all’altra - o che si supponevano sconosciute -, senza la varietà dei dialetti e dei gerghi da far lievitare e impastare nella lingua letteraria, non ci sarebbe stato «neorealismo».
Il sentiero dei nidi di ragno ottenne linfa da questa atmosfera vorticosa:“ una sorta di vitalità diffusa nell’aria e presto spenta”, osserva lo scrittore. Calvino individua nel maestro di questa generazione Beppe Fenoglio ed elegge a romanzo monumento di quell’epoca di fervore un libro rimasto compiuto e pubblicato solo dopo la morte dell’autore: Una questione privata. Con una punta di rammarico - o forse di malcelata invidia e perenne ammirazione - dice che avrebbe voluto scrivere la prefazione al romanzo di Fenoglio, e non al suo.
A questo suo primo libro infine lo scrittore riconosce “l’immagine di una forza vitale ancora oscura”, nata da uno scrittore troppo giovane, inabile, ancora inesperto.
Italo Calvino e il giudizio su sé stesso scrittore
Nella prefazione a Il sentiero dei nidi di ragno Calvino riserva un giudizio implacabile a sé stesso, alle sue capacità di scrittore. Riconosce gli elementi di immaturità di quel suo primo romanzo, come l’esasperazione dei temi della violenza e del sesso dati dallo sguardo ingenuo di Pin nei confronti del mondo degli adulti, e la debolezza del motivo ideologico, che fa solo da sfondo all’intero romanzo invece di esserne protagonista.
Calvino concentra tutte le riflessioni ideologiche in un unico capitolo, il IX, e le affida alla voce del commissario Kim che medita sulle motivazioni che animano la lotta partigiana e, dopotutto, non sono così diverse da quelle che guidano il furore fascista.
Infine lo scrittore si rimprovera per aver dato dei tratti troppo caricaturali alle figure umane da lui descritte, persone che dopotutto aveva conosciuto e a cui voleva bene; anche questa espasperazione è per lui un tratto di debolezza.
Per la prima volta parla del rimorso che un autore può provare per ciò che scrive:
Mi buttavo a scrivere e scomponevo i tratti del viso e del carattere di persone che avevo tenuto per carissimi compagni (...) e ne facevo maschere contratte da perpetue smorfie, macchiette grottesche, addensavo torbidi chiaroscuri – quelli che nella mia giovanile ingenuità immaginavo potessero essere torbidi chiaroscuri – sulle loro storie… Per poi provarne un rimorso che mi tenne dietro per anni…
Italo Calvino e la scrittura del primo romanzo
Ancora più interessante è la parte finale dell’introduzione, in Italo Calvino parla della sua esperienza di scrittore e afferma una grande verità: “che il primo libro sarebbe meglio non averlo mai scritto”, per provare ogni volta la grande, smisurata, libertà di incominciare. Il primo libro, osserva lo scrittore, tende a definirti mentre tu sei ancora ben lontano dall’essere definito.
Cosa ne posso dire, oggi? Dirò questo: il primo libro sarebbe meglio non averlo mai scritto.
L’opera letteraria, secondo Calvino, tende a bruciare un tesoro di memoria e, di conseguenza, lo scrittore si trova a essere il “più povero degli uomini”. A questo proposito si apre un’interessante riflessione sulla polemica tra scrittura e memoria, come se la prima fosse in grado di annullare la seconda:
Di questa violenza che le hai fatto scrivendo, la memoria non si riavrà più: le immagini privilegiate resteranno bruciate dalla precoce promozione a motivi letterari.
Ciò che anima Italo Calvino nel parlare del suo primo libro, Il sentiero dei nidi di ragno, è una forma di rimpianto. Rimpianto non per il giovane sé stesso, per lo scrittore in erba che fu un tempo, ma per quella stagione così gremita di immagini e di voci che non si ripeterà più e dalla quale lui è riuscito a narrare una parte così esigua, a suo giudizio così insignificante. Contrappone la sfacciata e ingannevole sicurezza delle pagine scritte a una memoria nebbiosa, ma massiccia, riservata a un periodo chiave della storia italiana quale è stata la Resistenza.
Ricordando il glorioso fermento narrativo di quegli anni, Italo Calvino lo contrappone all’Italia degli anni Sessanta in cui il romanzo è diventato a tutti gli effetti un “prodotto” da lanciare sul mercato. Ricordiamo che lo scrittore è stato anche un importante editor della casa editrice Einaudi e, non a caso, osserva che i romanzi italiani sono ormai tutti “di un buon livello medio”, e fanno parte della quantità di beni superflui di una “società troppo presto soddisfatta”. Interessante la riflessione di Calvino sull’editoria del suo tempo che ci descrive un mercato editoriale già ingolfato da un diluvio di carta stampata, in contrapposizione con quel desiderio di dire, di raccontare, acerbo e famelico, del secondo dopoguerra. Con nostalgia Calvino ricorda il momento in cui “tentavamo di cominciare una narrativa che aveva ancora da costruirsi tutto con le proprie mani.”
Quella del Neorealismo era una narrativa nuova, tutta da costruire, da incominciare. E come tutti i grandi scrittori anche Italo Calvino vorrebbe ricominciare daccapo, scrivere ogni libro come se fosse il primo libro, sfuggire ogni definizione, ogni tentativo di essere incasellato in un genere, in una trama. Non ci stupisce ad oggi, guardando alla sua sterminata produzione letteraria, che Calvino sia sempre stato un grande sperimentatore della scrittura.
Nel giugno del 1964, quando era ormai un autore affermato, concluse la prefazione della sua prima opera con queste parole cariche di rimpianto:
Un libro scritto non mi consolerà mai di ciò che ho distrutto scrivendolo: quell’esperienza che custodita per gli anni della vita mi sarebbe forse servita a scrivere l’ultimo libro, e non mi è bastata che a scrivere il primo.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: L’introduzione a “Il sentiero dei nidi di ragno” di Italo Calvino: come nasce uno scrittore
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Veramente interessante fondamentale per la comprensione del contesto della letteratura resistenziale neorealismo