Ricorre quest’anno il centenario dalla nascita di Italo Calvino, narratore eclettico e visionario del nostro Novecento, colui che seppe coniugare nella scrittura le nobili arti narrative di “leggerezza”, “esattezza”, “visibilità” e “molteplicità”. È stato detto molto del Calvino fiabesco della Trilogia degli Antenati e del Calvino sperimentatore delle Città invisibili, molto anche sulle sue Lezioni Americane che non finiscono mai di dire quel che hanno da dire; ma forse poco è ancora stato detto riguardo all’ultimo Calvino che ci consegna un grande personaggio, Palomar, in cui racchiude ciò che ha di più prezioso: la sua visione del mondo.
Palomar di Italo Calvino: analisi e significato
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Palomar è l’ultimo romanzo pubblicato da Calvino nel 1983, due anni prima di morire.
Il titolo deriva dal nome del protagonista, ma fa anche riferimento all’osservatorio astronomico di Monte Palomar, situato a San Diego in California, dove è collocato il famoso telescopio Hale, lungo 5 metri, uno dei più grandi al mondo. L’osservazione è infatti la qualità primaria del nostro protagonista, il signor Palomar, ma anche una costante del pensiero dell’ultimo Calvino. Quando scrive Palomar, la cui gestazione lo terrà impegnato per circa un decennio, Italo Calvino è alla soglia dei sessant’anni e ha già sperimentato i generi narrativi più diversi, dal romanzo, al saggio, alla fiaba, al dramma; potrebbe scrivere di tutto, ma inaspettatamente decide di concentrarsi su un libro di descrizioni.
In realtà lo scrittore in un’intervista definì l’opera come “un’autobiografia in terza persona”; ma spesso Palomar viene letto nelle scuole come un esercizio di descrizione, in quanto si compone di una serie di capitoli brevi molto simili a quadri che sembrano avere, come fine ultimo, l’obiettivo di rispondere all’inesauribile sete di conoscenza dell’uomo. Nelle intenzioni originarie dell’autore Palomar doveva avere un doppio, Mohole, ma infine Calvino capì che non c’era alcun bisogno di questo secondo personaggio che manifestasse una visione opposta e complementare a quella del protagonista, perché in fondo Palomar era anche Mohole.
L’idea di Palomar germogliò nella mente dell’autore negli anni Settanta, quando Calvino era impegnato a scrivere come giornalista sulle pagine dei principali quotidiani nazionali: scriveva ogni giorno commentando crisi politiche, sociali, internazionali, e scoprendo via via di essere incapace di governare la materia magmatica del reale. Il signor Palomar nacque da questa constatazione, come alter ego di Calvino stesso.
È un libro in verità molto filosofico, che sembra rispondere alla domanda primaria di ogni narratore: le parole possono esaurire la nostra conoscenza del mondo? È a questa domanda, infine, che l’autore cerca di dare risposta tramite l’attività che gli è più congeniale: la scrittura.
Ricordiamo quindi Italo Calvino con una delle sue lezioni narrative più importanti: cos’ha da dirci oggi il suo signor Palomar?
Palomar: la morale dell’ultimo Calvino
Il personaggio del signor Palomar riassume lo sforzo filosofico dell’ultimo Calvino: il tentativo di dare senso e significato a quanto lo circonda attraverso il linguaggio. Dopotutto, questo è ciò che fa uno scrittore. Ed è esattamente lo sforzo sperimentale che Italo Calvino compie in questo romanzo: scomporre l’arte narrativa nei minimi termini, giocare con le parole e il loro significato, mettere alla prova il linguaggio nella sua funzione “significante”.
Descrivendo ciò che il signor Palomar vede e sente, Calvino riesce a dar forma al mondo, anzi, a cercare di esaurire tutto ciò che del mondo è visibile, conoscibile, analizzabile.
Il primo capitolo si apre con la descrizione delle onde che si infrangono sulla battigia:
Il mare è appena increspato e piccole onde battono sulla riva sabbiosa. Il signor Palomar è in piedi sulla riva e guarda un’onda.
Lo sforzo compiuto da Palomar è singolare: vuole guardare “un’onda e basta”, soffermarsi su un oggetto limitato e preciso, ma non riesce a scindere un’unica onda dalle sue consorelle, il mare è in continuo moto: l’acqua si infrange, si arrotola su sé stessa, costantemente rifluisce. Capiamo da subito che il tentativo del signor Palomar di “guardare un’onda” è destinato a fallire, così come è destinato a fallire lo sforzo del Calvino-scrittore costretto ad ammettere, infine, che le parole non possono in alcun modo esaurire l’inesauribile materia della Realtà. Il tentativo filosofico di comprendere il mondo è destinato a vanificarsi: non è possibile trovare una spiegazione alla realtà, c’è un limite oltre cui le parole non giungono.
Il finale del libro, tuttavia, non è una vera dichiarazione di resa:
Decide che si metterà a descrivere ogni istante della sua vita, e finché non li avrà descritti tutti non penserà di essere morto. In quel momento muore.
Calvino decide di far morire il suo Personaggio, proprio dopo aver fatto risuonare in lui il proposito di “scrivere e raccontare ogni cosa”. Come dobbiamo interpretare questo lieto fine mancato? Cosa vuole dirci la parabola del Signor Palomar?
L’autore nell’introduzione all’opera lo spiegò così:
Rileggendo il tutto, m’accorgo che la storia di Palomar si può riassumere in due frasi: Un uomo si mette in marcia per raggiungere, passo a passo, la saggezza. Non è ancora arrivato.
In realtà con Palomar, Calvino ci ha consegnato, forse senza saperlo, la sua ultima lezione per i tempi moderni. In un mondo bombardato da parole e immagini, come quello attuale, Palomar ci insegna che il silenzio è una risorsa
e anche una virtù (pensiamo alla famosa scena in cui il protagonista si morde la lingua per tre volte), che non dobbiamo per forza esprimere un’opinione su tutto, che spesso tacere, dire “no” o addirittura “non dire” è l’atto di coerenza più grande per un uomo. Il suo protagonista - e probabile alter ego - è un uomo che osserva e non giudica, è un uomo che osserva nello sforzo di capire. Alla fine non si tratta di un libro sperimentale o di un esercizio stilistico, come spesso viene insegnato a scuola, ma di un percorso gnoseologico. Attraverso il signor Palomar, Calvino metteva alla prova le sue stesse capacità di scrittore e le potenzialità stesse del linguaggio. Non tutto può essere detto, è questa la solenne verità che ci sussurra all’orecchio lo scrittore dopo essersi impegnato, per ben 27 racconti, a cercare di narrare l’istante, la vita, nelle situazioni più varie.
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Palomar: i silenzi e il linguaggio in Calvino
Oggi che tutti noi siamo preda della smania di dire il più possibile, di fotografare ogni istante, di registrare minuto per minuto, di una vitalità chiassosa, invadente, incapace di rispettare persino il confine tra pubblico e privato, l’osservazione di Calvino appare preziosa. Ci insegna l’importanza dei dettagli, dell’osservare, del sentire e, soprattutto, l’arte sconosciuta di costruire silenzi. Non è un personaggio debole il signor Palomar, perché ci vuole molto più coraggio ad ammettere di aver fallito o di aver molto ancora da imparare, anziché a dire di sapere, di essere arrivato. Nel finale, dopo che ci ha descritto un intero universo, il personaggio si ripromette di scrivere ancora, di raccontare ancora per afferrare quanto gli sfugge. Fotografa così, tramite la metafora della scrittura, il sentimento sfuggente della vita. Tutto si ricollega all’incipit, al moto del mare, al tentativo di isolare un’unica onda, una matrice di individualità, dall’eterno accavallarsi delle onde marine.
Italo Calvino in Palomar dà forma un corpo a corpo con il dicibile, e infine ci insegna che non tutto può essere detto e che esiste l’importanza - oserei dire “sacra” - del limite, ma che è proprio questo limite ciò che da senso e significato all’esistenza. Alla fine il signor Palomar muore, ma senza accorgersi che tutto ciò che ci ha raccontato era la vita che tanto si ostinava a spiegare.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Italo Calvino e la lezione del signor “Palomar”
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