Nell’anno del centenario di Italo Calvino vale la pena ricordare la preziosa lezione morale contenuta ne La giornata di uno scrutatore (1963), il libro forse più sofferto della produzione letteraria calviniana. L’autore stesso lo definì un “pamphlet violentissimo, un manifesto anti democristiano”, una dichiarazione di intenti piuttosto arzigogolata per un libretto di appena sessanta pagine che, almeno in apparenza, non aveva nessuna pretesa politica ma si concludeva con una riflessione quasi religiosa, simile a una preghiera, o a un’invocazione spirituale:
“L’umano arriva dove arriva l’amore: non ha confini se non quelli che gli diamo.”
La genesi di questo romanzo - o forse sarebbe meglio definirlo lungo racconto - fu complicata e parecchio travagliata. Calvino impiegò dieci anni a scriverlo, dal 1953 al 1963, e nella prefazione raccontava che si trattava del suo libro più difficile.
Posso dire che, per scrivere una cosa così breve ci ho messo dieci anni, più di quanto avessi impiegato per ogni altro mio lavoro.
Di cosa parla la Giornata di uno scrutatore? Qual è la sua morale, il suo significato?
Forse non è una delle opere più conosciute di Italo Calvino, eppure contiene un insegnamento imprescindibile che tornerà significativamente in altre opere dell’autore, come Le città invisibili (1972).
La giornata di uno scrutatore: politica, amore e morale in Calvino
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Nell’introduzione de La giornata di uno scrutatore Calvino presenta i temi da lui toccati nel corso della narrazione: l’infelicità di natura, il dolore, la responsabilità della procreazione. E aggiunge che si tratta di un racconto in cui “non succedono molte cose”, ma che si regge sulle riflessioni del protagonista. Si tratta di un’introduzione molto breve che Calvino conclude quasi frettolosamente per il timore di dire una parola di troppo, mentre tutto è già stato scritto nel libro esattamente come lo voleva dire.
Lo scrittore chiude il testo introduttivo con una frase sibillina in cui dice che lo scrutatore giunge alla fine della sua giornata sentendosi un poco diverso rispetto a quando l’aveva iniziata e di sentirsi anche lui, come autore, cambiato dopo questa storia.
Possiamo cogliere in quest’opera di Italo Calvino una funzione di cerniera con la sua produzione letteraria: c’è un “prima e un dopo” La giornata di uno scrutatore e questo libro li cuce insieme, in un certo senso li unifica saldando riflessione morale e denuncia politica.
Il romanzo ebbe origine da una crisi dell’autore - che in quel periodo era portato a interrogarsi sul metodo di scrittura - e da un episodio autobiografico.
Come raccontato dallo stesso Calvino al Corriere della Sera in un’intervista rilasciata il 10 marzo 1963, dopo la pubblicazione:
La prima idea di questo racconto mi venne il 7 giugno 1953. Fui al Cottolengo durante le elezioni per una decina di minuti. No, non ero uno scrutatore, ero un candidato del Partito comunista. (...) E fu lì che mi venne l’idea del racconto, il suo disegno ideale. (...) Provai a scriverlo, ma non ci riuscivo.
Recensione del libro
La giornata d’uno scrutatore
di Italo Calvino
Lo scrutatore Amerigo Ormea è quindi un chiaro alter ego dell’autore stesso: la differenza è che le riflessioni del protagonista si svolgono nell’arco di una sola giornata, mentre Italo Calvino impiegò un decennio a svilupparle e a metterle su carta. Il risultato è un breve romanzo estremamente contemporaneo che racconta la società e le sue trasformazioni, le contraddizioni e gli imbrogli della politica e, soprattutto, è un grande atto d’amore nei confronti dell’umanità tutta.
Il microcosmo del Cottolengo, così simile a un girone infernale, rappresenta forse la prima ed essenziale delle Città invisibili, l’anticamera di una dimensione ancora da scoprire, ma è anche il punto d’approdo dell’opera dell’autore, ciò che infine ci conduce a scoprire:
ciò che Inferno non è
La giornata di uno scrutatore: trama e significato
L’intero racconto può essere letto come un viaggio labirintico nella mente del suo protagonista, Amerigo Ormea, che pensa molto, forse pensa troppo, interrogandosi sulla società del suo tempo, sul fine ultimo della politica e sul senso della democrazia. Ma è chiaro che non si tratta semplicemente di questo: come sempre accade nelle opere calviniane tutto è un’allegoria di qualcos’altro.
Il nome stesso del protagonista racchiude un interessante gioco di parole: si chiama Amerigo come l’esploratore Amerigo Vespucci - un chiaro rimando al “viaggio dell’eroe” - e di cognome fa Ormea, un anagramma della parola “amore” che in un certo senso anticipa la splendida conclusione del testo.
Il racconto inizia narrando di Amerigo che, senza troppo entusiasmo, si trova al seggio del Cottolengo cui è stato assegnato nel ruolo di scrutatore per le elezioni in corso. La sua giornata scorre abbastanza monotona, con vari grattacapi. Ad angosciarlo inizialmente è un problema personale, la sua fidanzata Lia è incinta e lui non ha accolto la notizia della gravidanza come ci si aspetterebbe da un padre affettuoso, invece ha affermato ancora una volta il suo egoismo e ora prova un latente senso di colpa.
I pensieri si susseguono confusi, disordinati, ma infine convergono in una riflessione di abbacinante perfezione come onde verso il mare.
Viene innanzitutto descritto il luogo in cui la vicenda è ambientata, il Cottolengo, definito come il “luogo del dolore” e della “sofferenza” nel quale si aggirano povere creature malate e incapaci di intendere e di volere, come le anime in pena dei dannati nello scenario dantesco. La Piccola Casa della Divina Provvidenza di Torino - questo il vero nome del posto - era un istituto religioso nel quale venivano ricoverati minorati fisici e mentali; ma Calvino ce lo descrive come un mondo parallelo che riflette l’alienazione della società contemporanea.
Il compito di Amerigo è quello di evitare brogli nelle elezioni e di fare il modo che i malati votino con consapevolezza e non siano forzati dal volere dei preti e dei religiosi che dettano le regole dell’Istituto. Deve, insomma, evitare che gli abusi della Democrazia Cristiana, la sopraffazione del pensiero dei preti sulla debole individualità dei degenti. Emerge così la corruzione politica, un tema caldo nell’Italia del boom economico degli anni Cinquanta. Attraverso lo sguardo di Amerigo l’autore osserva la progressiva perdita dell’individualità delle persone che nel microcosmo del Cottolengo - palese riflesso del mondo intero - tendono ad omologarsi l’una all’altra nelle idee e nelle azioni.
Il contatto con tanta sofferenza fa sentire impotente il protagonista e lo conduce a interrogarsi sul senso della politica e sulla sua adesione al Partito comunista: i suoi ideali possono davvero salvare quella gente? Cosa può fare, in concreto, la politica per quelle povere anime? Il filo dei suoi pensieri lo condurrà a trarre una conclusione inaspettata, apparentemente distante dal suo lavorio logico ed estremamente razionale, dalla sua posa intellettuale.
Mentre lo Scrutatore cerca di far valere le proprie ragioni - portando addirittura il seggio sul letto dei votanti incapaci di muoversi autonomamente - comprende di essere di fronte a una realtà più complessa e stratificata di come l’aveva immaginata, fondata su contraddizioni. Nei corridoi grigi e claustrofobici del Cottolengo prende vita il grande mistero dell’umano, cui neppure Amerigo Ormea nei suoi ragionamenti cervellotici riesce a trovare una risposta.
Nel finale emerge proprio l’incomunicabilità del linguaggio - tema poi ripreso da Calvino in Palomar:
Ma più s’ostinava a pensare queste cose, più s’accorgeva che non era tanto questo che gli stava a cuore in quel momento, quanto qualcos’altro per cui non trovava parole.
In questo estratto troviamo anche la crisi di Calvino come scrittore che si trova dinnanzi a un problema di metodo, sente di “non avere le parole” per descrivere la realtà. Una Realtà che appare persino troppo complessa e sfaccettata per essere spiegata attraverso il linguaggio, come dimostra il Gorilla osservato dal signor Palomar che si rigira tra le mani un vecchio copertone. Il linguaggio non può in alcun modo esaurire il materiale infinito, tumultuoso, inafferrabile del reale.
Ma proprio da questa apparente afasia, da questo eccesso di significato che forse nasconde una totale mancanza di senso, Italo Calvino trae la sua splendida morale finale.
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Le certezze incrollabili di Amerigo Ormea, comunista e intellettuale, affondano implacabilmente nel corso di una sola giornata trascorsa tra le mura del Cottolengo. Assistendo a questa sfilata di anime dolenti il protagonista sembra venire a contatto con una dimensione altra, con il collante invisibile che tiene insieme l’intera umanità, che non è altro che amore.
La ferma volontà della Madre Superiora che assiste i malati, obbedendo alla sua missione (o milizia) di vita, sconvolge Amerigo, poiché capisce che la suora ha scelto di vivere in quella corsia con consapevolezza, come un atto di libertà, esattamente come lui ha deciso di aderire al Partito comunista. Ma ciò che ancor più sconvolge il protagonista è la visione di un contadino che ogni domenica viene dal paese per imboccare suo figlio.
Quell’immagine proietta Amerigo in un territorio sconosciuto, inesplorato: non sa spiegarsi perché quell’uomo abbandoni le sue terre solo per veder masticare il figlio minorato che non parla e forse nemmeno lo riconosce. Ogni domenica gli porta la sua merenda e dopodiché restano semplicemente a guardarsi, fermi ai due lati del letto. A differenza della Madre Superiora, riflette Amerigo, il contadino non ha scelto la sua missione, gli è capitata “il legame che lo teneva stretto alla corsia non l’aveva voluto lui, la sua vita era altrove”. Ed è infine questa visione, in apparenza drammatica, il contadino che guarda negli occhi suo figlio, a tramutarsi in una vera e propria epifania:
Ecco, pensò Amerigo, quei due, così come sono, sono reciprocamente necessari. E pensò: ecco, questo modo d’essere è amore. E poi: l’umano arriva dove arriva l’amore; non ha confini se non quelli che gli diamo.
Questa è la morale cui giunge Calvino al termine del suo viaggio labirintico attraverso le contraddizioni della società e della vita. Nel mezzo del dolore tocca con mano una verità superiore, che non è la legge della carità, ma dell’amore. Questa conclusione segnerà un punto di svolta nell’opera calviniana e sarà ripresa dall’autore anche in altri scritti. L’inferno del Cottolengo, in fondo, non è che l’inferno dei viventi descritto ne Le città invisibili. Ma, proprio come Teseo nel labirinto del Minotauro, lo scrittore aveva trovato la strategia per uscirne:
L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà: se ce n’è uno è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiano stando insieme.
Due modi ci sono per non soffrirne.
Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più.
Il secondo è rischioso ed esige attenzione e approfondimento continui: cercare e saper riconoscere che e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.
Nel finale de La giornata dello scrutatore è racchiusa la lezione morale di Italo Calvino, la sua più convincente risposta, la perfetta descrizione di “ciò che inferno non è”. Con poche parole, racchiuse in un paragrafo di sole tre righe, lo scrittore ci consegna una risposta letteraria alla nostra radicale ricerca di senso.
L’opera di un grande autore, a ben vedere, è sempre in costante dialogo, si compone di pagine che si rispondono in una continua eco di corrispondenze.
La narrativa di Calvino è una mirabile “foresta di simboli”, ma per fortuna l’autore ci ha consegnato tutte le chiavi per interpretarla e anche il gomitolo per uscire dal labirinto del dubbio.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “L’umano arriva dove arriva l’amore”: la lezione morale di Italo Calvino
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Ho trovato davvero illuminante questo articolo. La chiave di lettura del (gaddiano) "gliuommero" anche della nostra attuale vita mi pare proprio stare tutta lì, nell’ amore (nella mancanza/carenza del suddetto). Mi ha fatto venir voglia di rileggere il testo di Calvino e anche altri suoi. Grazie. A.S.