Jacopo Ramonda, nato nel 1983, scrive testi collocabili in un’area di confine tra prosa e poesia. Le sue prose brevi sono state pubblicate su Nazione Indiana da Andrea Inglese, su Absolute Poetry da Marco Simonelli, su Poetarum Silva da Luciano Mazziotta; oltre che su varie riviste cartacee, tra cui Prospektiva e La Masnada. "Carichi sporgenti", pubblicato per Bel-Ami Edizioni nel libro "Ho tutto in testa ma non riesco a dirlo", è l’equivalente letterario di un album di scatti rubati che ritrae dettagli, presentimenti, rivoluzioni silenziose ed eventi marginali, sospesi tra quotidiano e surreale.
Jacopo ha accettato di rispondere alle nostre domende per la rubrica "4 chiacchiere (contate) con..."
Jacopo, intanto ti do il benvenuto a quella che non sarà la solita intervista chilometrica, ma solo 4 chiacchiere contate.
- Prima chiacchiera: spesso le tue prose brevi sono caratterizzate dall’elemento del silenzio, un silenzio molto pesante che non sembra assenza ma presenza di qualcosa che manca e dovrebbe esserci. Che cosa rappresenta davvero il silenzio per te e perché si ritrova spesso nelle situazioni che descrivono un rapporto di coppia?
Sono estremamente interessato al non detto, sia nella vita che in letteratura. In particolare mi affascina tutto ciò che tacciamo a noi stessi e le ragioni dietro a queste tentate omissioni. Personalmente, pur non essendo un taciturno, tendo a soffrire le compagnie numerose e trovo meno intimidente parlare con una persona alla volta, nonostante sia più difficile nascondersi in un dialogo faccia a faccia. La coppia rappresenta lo spazio in cui, almeno in teoria, dovremmo aprirci totalmente, sentirci completamente a nostro agio. Spesso accade il contrario e, in questi casi, il silenzio può parlare più apertamente di una confessione, oppure può costituire un tentativo di manipolazione o, paradossalmente, diventare il collante tra due persone. Credo che le dinamiche di una coppia rivelino molto degli individui che ne fanno parte, anche e soprattutto nel silenzio.
- Seconda chiacchiera: "Da sempre preferisco prefiggermi obiettivi altissimi per poi abbandonarli, piuttosto che fallire la normalità, perché mancare il tentativo di essere mediocre sarebbe davvero troppo triste". Questa è una delle frasi più amare delle tue prose brevi e questo senso di amarezza ricorre in tutta la raccolta. Credi che la tua visione sia condivisa dalla maggior parte dei ragazzi della tua generazione o sia piuttosto una condizione esistenziale costante che caratterizza l’uomo?
Mi piace pensare alle mie prose brevi come ad una raccolta di profili psicologici, una serie di testimonianze anonime. La frase che hai citato è scritta in prima persona, ma non per questo descrive necessariamente il mio punto di vista. Spesso riporto in prima persona il pensiero di un personaggio con cui empatizzo, altre volte una mia personale testimonianza è scritta in terza persona. Come molti altri, sono abbastanza propenso all’amarezza e alla malinconia, ma questa particolare tendenza alla rinuncia credo sia generazionale. Ne capisco le ragioni, ma nello stesso tempo credo sia uno dei principali difetti della nostra generazione.
- Terza chiacchiera: parliamo della prosa breve, come mai hai scelto proprio questo genere? A chi ti sei ispirato? Quali sono gli elementi che ti spingono a preferire questo genere rispetto alla prosa? E rispetto alla poesia?
La prosa breve è, per me, una pratica di scrittura libera dall’intenzione ritmica della poesia e dallo sviluppo di una trama tipico della narrativa. Risulta quindi collocabile in un’area di confine, di ibridazione tra i generi letterari. Questa grande libertà che la prosa breve porta con sé mi permette quindi di concentrarmi su ciò che più mi interessa, sia come lettore che come autore, e cioè la micronarrazione di frammenti di vita quotidiana, la descrizione puntuale del dettaglio, di tutto ciò che appare marginale e secondario, ma che in realtà è profondamente significativo.
Leggendo i miei testi è sicuramente possibile rintracciare varie influenze: dalle poesie prosastiche di Carver e Bukowski alla narrativa breve di Cheever e Yates; dalle prose brevi di Kafka a quelle di Andrea Inglese, Gherardo Bortolotti e Guido Mazzoni; dalle poesie in prosa surreali di Russell Edson a quelle estremamente realiste di Tiziano Rossi.
- Quarta chiacchiera: che cosa sono questi "carichi sporgenti" e come fare per renderli meno ingombranti nelle nostre vite?
I carichi sporgenti sono i pensieri che sbucano disordinatamente dalle nostre teste; i rancori, le frustrazioni, i sentimenti che istintivamente preferiremmo tacere, ma che riescono sempre e comunque ad evadere, rivelandosi nella nostra espressione, in uno sguardo, in un atteggiamento. Tutto ciò che ci leggiamo in faccia a vicenda.
Esistono molti modi per rendere il peso di questi carichi meno gravoso. Evitare di comportarsi come i miei personaggi sarebbe già un buon risultato. La mia soluzione personale, mai completamente risolutiva ma comunque di grande aiuto, è scrivere. Per lo meno provarci, ogni giorno.
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