Silvia Letizia ha 29 anni, è nata e vive a Palermo. Laureanda in Lettere Moderne, scrive per un blog (www.komixjam.it) dedicato alle serie d’animazione e a vari aspetti della cultura giapponese. Kazuya (Edizioni della Sera 2014) è il suo romanzo d’esordio nel quale una giovane donna resa cinica e disincantata dalla vita scopre la bellezza dell’esistenza nel sorriso di una persona speciale. Ma un evento catastrofico è in agguato.
“... il terremoto, dicono, è stato potentissimo...”,
“... Si parla anche di un rischio tsunami”.
A metà tra un romanzo di formazione e una storia d’amore, l’esordio narrativo di Silvia Letizia dimostra non solo il talento dell’autrice ma anche la sua passione per una terra lontana.
- Silvia, chi è Kazuya?
Kazuya è molte cose, è un idol, qualcosa che viene dall’esterno e si inserisce in una quotidianità fatta di elementi noti, è un osservatore più che un attore. La cultura moderna giapponese ha creato queste figure, gli idol per l’appunto, che sono molto diverse dai tradizionali vip occidentali. Agli idol non sono concessi scandali, in seguito ai quali possono anche arrivare a essere licenziati dalle loro agenzie, e sono spesso persone di una certa cultura, con una poliedricità di interessi e capacità. Rivestono il ruolo di idoli, quasi in senso letterale. Sono dei modelli di comportamento e il loro ruolo è importante anche nelle situazioni di crisi. Trasmettono messaggi incoraggianti, positivi, in una nazione dove il termine "buona fortuna" non esiste, ma ci si augura "ganbatte!" e cioè "fai del tuo meglio", "forza", "non arrenderti". Kazuya è un elemento esterno ma non è invadente, chiede poco ed è in questo che è diverso da tutti gli altri. È confortante con i suoi silenzi, discreto con i suoi gesti, e allo stesso tempo porta un grosso squilibrio nella vita delle persone che incontra.
- Come si è sviluppata la trama del romanzo?
La trama prende spunto da due eventi realmente accaduti ma il secondo ha effettivamente avuto luogo solo durante la fase di elaborazione del romanzo. Per quanto riguarda il primo, si tratta del ritrovamento di una lettera. Stavo riorganizzando i file del mio computer quando ho trovato una vecchia lettera datata gennaio 2009, due anni prima che cominciassi a lavorare al romanzo. Rileggendola sono rimasta colpita perché non ricordavo né di averla scritta né di aver vissuto quelle esperienze con quel determinato stato d’animo. Ho pensato che fosse uno spunto interessante per una storia. Per il resto, il romanzo è in realtà ricco di citazioni tratte da dorama giapponesi (serie televisive dal vivo) o anche manga. Sono citazioni relative a certe situazioni o oggetti che tendono a ripetersi o comparire spesso, come i fuochi d’artificio (belli ma effimeri come tutto ciò che i giapponesi amano tradizionalmente, ad esempio i ciliegi in fiore). Lo sviluppo della trama, poi, è avvenuto per gradi. Lo stesso Kazuya era molto diverso nella mia mente prima che prendesse vita sulla pagina, e cominciasse a comportarsi come voleva. Era molto più giapponese e, in un certo senso, più ipocrita. E addirittura c’erano alcuni personaggi negativi che sono diventati positivi.
- Ha sempre amato la scrittura?
Ho sempre amato scrivere. Il mio primo racconto, o almeno il primo di cui ho memoria, parlava di un sogno: alieni con le ali piumate e mele caramellate cotte in una stufa. Ero molto piccola, forse in prima elementare o all’ultimo anno dell’asilo. Da lì ho cominciato a pensare di scrivere romanzi: volevo fare tutto da sola, dalla copertina al contenuto, così scrivevo il titolo sulla prima pagina di un quaderno, aggiungevo una bella illustrazione e cominciavo a scrivere. I miei romanzi non duravano mai più di una dozzina di pagine. C’è stata la storia di un ragazzo di nome Jack che abitava vicino a Firenze, il manuale del perfetto seduttore e anche delle poesie. E c’è stato anche il tentativo di scrivere "La Storia Infinita". Ignoravo l’esistenza del romanzo di Ende e, vedendo il film, ho pensato che sarebbe stato bellissimo se fosse esistito anche il libro. Non pensavo per nulla di voler diventare una scrittrice "da grande". Volevo diventare un detective privato, avevo anche la carta da lettere intestata alla mia agenzia, "Occhio di Falco". Arrivata alle scuole medie ho cambiato idea e deciso che sarei diventata un Ingegnere Elettromeccanico. Volevo costruire K.I.T.T., la macchina del telefilm Supercar. Nello stesso periodo ho cominciato a leggere Tolkien. Prima Lo Hobbit e poi Il Signore degli Anelli. Ho cominciato a scrivere romanzi fantasy e storie brevi. A sedici anni ho vinto il mio primo concorso letterario, al quale è seguito un secondo. Durante le lezioni riempivo i miei quaderni con storie, trame, disegni e personaggi invece di appunti. Mi piaceva occuparmi della trama. Sono un’appassionata di trame e di dettagli. Mi divertiva progettare storie, scrivere scene, dialoghi che mi sarebbe piaciuto inserire in seguito in romanzi che poi non hanno mai visto la luce. Mi piaceva inventare personaggi, scoprire come descrivere nel modo più convincente tanto una lince quanto un canale di scolo. Ho passato tutto il liceo a giocare di ruolo. Mi divertivo con sessioni di interpretazione narrativa e giochi di ruolo più classici, testuali, sul web, e anche dal vivo, con spade, mantelli e tutto il resto. E se quand’ero piccola non pensavo certo di voler diventare una scrittrice, mi rendo conto che finora non ho fatto altro che raccontare. E voglio continuare a farlo.
- Quale aspetto la attrae della cultura giapponese?
Mi sono avvicinata alla cultura giapponese, come molte persone della mia generazione, penso, attraverso i manga e gli anime. Da piccola guardavo molti cartoni animati che mia madre non approvava, come Ken il Guerriero o l’Uomo Tigre, e qualunque saga di fantascienza con robot giganti che riuscissi a trovare. Successivamente ho cominciato a leggere manga. Avevo dodici anni quando ho comprato i primi volumi di Ranma ½ e Sailor Moon in edicola, e più o meno nello stesso periodo ho comprato un vocabolario tascabile di giapponese. La cultura giapponese, per me, è affascinante proprio in quanto si tratta di una cultura altra. È differente dalla nostra cultura in diversi aspetti, dal modo di gestire i rapporti professionali al modo di esprimere i propri sentimenti, e indagare queste differenze è molto interessante, soprattutto perché il Giappone è pieno di contraddizioni e, alla fin fine, impossibile da comprendere veramente. Alcuni aspetti della sua cultura si possono cogliere studiando la lingua (concetto generale, che vale per qualunque cultura) che a me piace molto, così come il modo che il Giappone ha di preservare se stesso. In fondo, è molto meno occidentalizzato di quanto la gente pensi. Non saprei indicare, quindi, un singolo aspetto che mi attrae della cultura giapponese, anche se tra i più importanti c’è sicuramente la loro cultura popolare moderna, e quindi la musica giapponese (il così detto j-pop, ma anche il j-rock), le serie televisive dal vivo o d’animazione, i manga, i romanzi, e la loro cultura tradizionale, quella forse più conosciuta. Dal punto di vista sociale, invece, la loro visione del singolo come parte di una comunità, la loro condanna dell’individualismo e il concetto giapponese di armonia.
- Qual è stato il Suo percorso prima di riuscire a far pubblicare il Suo primo libro?
Come ho già detto, ho sempre amato scrivere, e per un po’ di tempo ho partecipato a diversi concorsi letterari con dei risultati che mi hanno dato una certa soddisfazione. Ho molti romanzi nel cassetto, scritti nel corso degli anni, e quando mi sono decisa a mandarne uno a una casa editrice, ho ricevuto, dopo molti mesi, una lettera di rifiuto che mi ha ovviamente scoraggiato. È stato il mio unico tentativo e per un po’ di tempo ho smesso di scrivere romanzi. Ho continuato a lavorare a certe idee, ma mi sono dedicata ad altri tipi di scrittura, come racconti o fan-fiction in inglese che mi hanno aiutato a spostare la mia attenzione dall’ossessione per un romanzo e per la pubblicazione, al piacere della scrittura in sé, e il contatto diretto con un "pubblico" che aspettava con impazienza l’arrivo di un nuovo capitolo di una storia a puntate. Tutto questo mi ha dato in un certo senso la spinta necessaria per mettermi a lavorare a un nuovo romanzo e successivamente a trovare il coraggio necessario per proporlo ad alcune case editrici. Da questo punto di vista devo dire che il supporto della mia famiglia e di alcuni amici è stato fondamentale.
- Che consigli darebbe a un giovane che desidera vedere pubblicato il suo volume?
Potrà sembrare scontato, ma innanzitutto consiglio sempre di leggere molto, scrivere molto, e studiare, perché si può sempre migliorare a livello di tecnica, e l’esercizio e il confronto con altri autori è fondamentale da questo punto di vista. Per quanto riguarda l’approccio a una casa editrice, è importante cercare di essere quanto più possibile professionali e non mandare il proprio manoscritto a destra e a manca senza prima aver fatto un po’ di ricerche. Controllare il sito web di una casa editrice è sempre un buon modo per vedere se questa potrebbe essere interessata a pubblicare il tipo di romanzo che abbiamo scritto. Per dirlo semplicemente, è inutile mandare poesie a una casa editrice che pubblica solo manualistica, ed è inutile mandare un romanzo dell’orrore a una casa editrice specializzata in fantascienza. Poi, e questo è un consiglio che potrei anche darmi da sola, c’è bisogno di avere un po’ di fiducia in se stessi e nelle proprie capacità, senza per questo dimenticare il valore dell’umiltà. Per il resto, provare, provare, e non lasciarsi abbattere da un rifiuto.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Kazuya. Intervista a Silvia Letizia
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