Nella giornata di oggi, 8 Dicembre, la cristianità celebra l’Immacolata Concezione di Maria, che anche noi vogliamo ricordare rileggendo L’Immacolata, l’omonimo componimento di Clemente Rebora. Questa festività commemora un dogma, istituito da Papa Pio IX l’8 dicembre del 1854, in base al quale la Vergine Maria è scevra dal peccato originale che caratterizza tutto il genere umano, fin dal momento in cui venne concepita dai genitori, i santi Gioacchino e Anna. Proprio per questo la festa dell’Immacolata viene distinta da quella dell’Annunciazione, che ricorre il 25 marzo e ricorda il momento in cui Maria, mediante lo Spirito Santo, concepisce nel suo grembo Gesù, pur mantenendo inalterata la sua verginità.
Quello dell’Immacolata è un dogma che trova nei testi biblici non tanto una prova quanto degli indizi, non a caso viene istituito nell’Ottocento e si fonda sulla tradizione della chiesa. Le Scritture, dal canto loro, evidenziano che Maria si pone al servizio di Dio e permette l’ingresso di Cristo del mondo, come suo salvatore; in questo modo prende parte, seppur collateralmente, alla vittoria di Cristo sul peccato, per questo non può essere toccata, neanche tangenzialmente da quest’ultimo.
Clemente Rebora (Milano, 6 gennaio 1885 – Stresa, 1° novembre 1957) maturò la sua conversione nel 1929 a seguito della profonda crisi nervosa in cui era caduto dopo le drammatiche esperienze vissute durante la prima guerra mondiale, alla quale aveva partecipato come ufficiale di fanteria. Entrato nel 1931 nell’Istituto della Carità dei padri rosminiani di Domodossola, fu ordinato sacerdote nel 1936.
Il componimento L’Immacolata fu composto nel 1952: quasi a coronare la fase religiosa della sua produzione poetica, esprime con toni appassionati, grazie ai frequenti richiami a immagini bibliche, il patente contrasto tra il male e la corruzione, attestati come presenze costanti nel nostro cammino terreno, e l’assoluzione, che può realizzarsi proprio grazie all’intercessione di Maria.
Non a caso, anche nella dottrina cristiana, la Madonna rappresenta la certezza che l’umanità non è necessariamente destinata al peccato e che l’uomo, nel suo intimo, non è per forza un peccatore. Per quanto vasto possa essere il male che si consuma nella storia, per quanto abissale possa essere l’abiezione in cui gli uomini possono talvolta sprofondare, il cuore del cristiano anela all’armonia che splende nel volto della Vergine. Al fondo di ogni uomo, anche di quello più degradato c’è sempre un richiamo al bene, un desiderio profondo di realizzazione, una nostalgia di quella pace che emana dall’immagine materna di Maria, e che solo lei, madre di Cristo, può aiutarci a conquistare.
Scopriamo, allora, insieme il significato e lo stile de L’Immacolata di Clemente Rebora.
L’Immacolata di Clemente Rebora: il testo della poesia
Ignare a quella sete che per noi
patì là in Croce Cristo benedetto
onde sgorga la Fonte da Maria
che quanti appaga infin l’imparadisa,
urlan le genti, dopo aver mangiato
terra per cibo: – bruciamo di sete!
e come pazze si scontran cercando
sorsi a ristoro, e le sorgive tutte
di loro stragi sfociano inquinate.
Tu l’unica sorgente, o Immacolata,
donde fluisce acqua di vita al Cielo
che per l’amore in vino e vino in sangue
a Cana è pregustata e sul Calvario
versata al mondo dal Cuore Divino!
Analisi e significato de L’Immacolata di Clemente Rebora
Dal punto di vista sintattico la lirica è nettamente divisa in due periodi che ruotano intorno a due diversi baricentri: “le genti” e “l’Immacolata”.
La prima parte del componimento, dove la principale è posticipata a lungo (v. 5: “urlan le genti”), si apre con un’impietosa caratterizzazione del genere umano, inconsapevole del sacrificio di Cristo che, per redimere l’umanità tutta, ha consegnato sé stesso alla tribolazione della croce e ha accettato di patire una sete connotata da un valore sacrale, perché segue alla scelta di cancellare i peccati del mondo. Si tratta, dunque, di una sete ben diversa da quelle che le genti lamentano pochi versi dopo (v. 6: “bruciamo di sete”). Si ritrova qui tutta l’amara consapevolezza di un credente attonito di fronte allo spettacolo della secolarizzazione e della morte di Dio: Rebora riflette qui sullo spirito del tempo e sull’uomo novecentesco, ormai irrimediabilmente lontano dai valori cristiani. Il suo destino è stato profondamente mutato dai due conflitti mondiali: a questi tragici eventi sembrano alludere le immagini, così icastiche da rimbombare nella mente del lettore, dei versi successivi. Era, infatti nelle trincee che anche la terra veniva scambiata per cibo, in quei tuguri i soldati, poco più che adolescenti – tra loro c’era anche lo stesso Rebora – bruciavano di sete, per la scarsità di rifornimenti, per i turni stremanti, per l’orribile odore di polvere da sparo che sovente si mischiava con quello del sangue e degli escrementi. Le genti del mondo urlano una sofferenza tutta terrena, il loro scontro è folle (“pazze”), del tutto privo di senso, cercano ristoro in una natura ormai irrimediabilmente corrotta, come ben mostra l’attualissima immagine delle sorgenti (“sorgive”) inquinate dagli effetti del conflitto.
Rebora mostra qui una consapevolezza profonda degli effetti nefasti della tecnica, rivela quasi una coscienza ambientalista, sembra qui alludere alle armi di distruzione di massa che gli uomini hanno messo all’opera: si potrebbe pensare ai gas, così frequentemente utilizzati nella prima Guerra Mondiale da diventarne un simbolo, o alle bombe atomiche che oltre a sterminare migliaia di civili deturparono indelebilmente l’ecosistema giapponese.
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Questa delle sorgenti è un’immagine speculare a quella offerta solo qualche verso prima (vv. 3-4) dove, quasi con un inciso che anticipa la seconda parte della poesia, Rebora accenna subito a Maria, descritta come colei dalla quale sgorga la fonte stessa di Cristo, la madre dalla quale scaturisce una vita divina anche nel suo viaggio terreno. A Maria, poi, Rebora assegna qui anche la speciale prerogativa di salvare coloro che cercano in lei rifugio e conforto: la preghiera e la fede in lei, sembra dire qui Rebora, inducono nel fedele un appagamento e una gratificazione che sono già di per sé garanzia e anticipazione della beatitudine.
Nella seconda parte della lirica, quasi come in una preghiera, Rebora si rivolge direttamente alla Vergine, invocandola: reitera l’immagine potente della sorgente – un leitmotiv di tutta la poesia –, intendendo che è solo grazie a Maria che Dio (“al Cielo”) può assumere una natura umana.
Nei versi successivi troviamo un richiamo non casuale al miracolo delle nozze di Cana: è in questa occasione che Maria, per la prima volta, intercede a favore degli uomini di fronte a Cristo che, poi trasmuta l’acqua in vino. Si tratta di una vicenda importante perché anticipa (“è pregustata”) il sacramento dell’Eucarestia (“e vino in sangue”) istituito durante l’Ultima cena.
L’ultimo verso, infine, richiama il sacrificio di Cristo, con il quale la poesia si era aperta, indicando il Calvario come l’evento in cui la vita di Cristo è riversata sul mondo, per redimerlo.
Analisi metrica e stilistica della poesia
Il componimento consta di un’unica strofa di 14 versi liberi, per la maggior parte endecasillabi e decasillabi, senza rime.
Il periodare risulta abbastanza involuto, con una netta prevalenza dell’ipotassi e termini dislocati in una posizione innaturale per sottolinearne il valore semantico (ad esempio il già citato soggetto “le genti” al v. 5).
Altri elementi degni di nota sono:
- il frequente utilizzo di vocaboli evocativi, propri del lessico religioso, e dalle forti consonanze bibliche: "sorgente", "acqua di vita", "Immacolata" sono tutti termini che evocano la purezza, la sacralità e la vitalità, e donano, quindi, al componimento un tono reverente e una particolare forza emotiva.
- il discorso diretto, che dà forma sicuramente più vivida al lamento, e l’invocazione alla Vergine, alla quale l’io lirico si rivolge direttamente “Tu” (v. 10), all’inizio della seconda parte, quasi si trattasse di una preghiera.
Per quanto riguarda le figure retoriche presenti nel testo segnaliamo:
- l’anastrofe (“urlan le genti”) che inverte il naturale ordine delle parole e crea un effetto poetico che enfatizza l’atto dell’urlo e le emozioni sottese;
- il contrasto tra la ricerca umana di cibo e le sorgenti divine (alle quali si può accostare la “Fonte” che sgorga da Maria), che mette in luce la differenza tra le necessità terrene e quelle spirituali;
- l’iperbole (“che quanti appaga infin l’imparadisa”) che accentua l’idea che la fonte divina soddisfi un bisogno di natura spirituale e, quindi, amplifica l’importanza di questa risorsa;
- il chiasmo (“amore in vino e vino in sangue”) che riflette un’inversione e, quindi, dona al fenomeno della trasformazione, qui descritto, una consistenza anche verbale.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “L’Immacolata” di Clemente Rebora: significato e analisi della poesia
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