L’ultimo fratello di Nathacha Appanah-Mouriquand

"L’ultimo fratello" (Rizzoli, 2008) è il quarto romanzo della scrittrice mauriziana Nathacha Appanah-Mouriquand che dopo averci portato in Francia (dove attualmente vive) con il suo Le nozze di Anna, decide di ritornare nella sua terra di origine per raccontare un’altra storia, sempre intensa, sempre intima, sempre commovente.

La vicenda narrata in questo libro è quella di due ragazzi che, colpiti dalle rispettive sventure, si ritrovano a condividere una parte limitata della loro esistenza. Tanto limitata quanto intensa. Sia Raj, abitante dell’isola, che David, profugo ebreo e ceco, hanno vissuto, nonostante la giovanissima età (circa dieci anni), delle disgrazie che inevitabilmente segnano e dalle quali è difficile sfuggire. Anche quando Raj porta David fuori dalla prigione progettando una fuga dal paese dove vive si ritrova a girare intorno alle stesse zone, quasi a simboleggiare l’impossibilità di scappare davanti alle amarezze e tristezze a cui la vita ci sottopone.

Una libertà che quindi è più da trovare all’interno che all’esterno, in quei momenti di pura amicizia, in quei sorrisi strappati da gesti puri e semplici, negli “aeroplani” che liberano nel loro vortice la mente da tutto. Una libertà interiore più che fisica, che nasce e finisce nel sentimento puro e incondizionato.

L’autrice come in tutti i suoi romanzi usa un approccio molto intimo. Chi parla è il Raj settantenne, ma il protagonista è il Ray decenne, contrapponendo la conoscenza dell’anziano all’inconsapevolezza del bambino, creando un contrasto che rende anche più drammatica la descrizione, che rimane sobria, triste e commovente, che ti prende per mano e ti porta lungo un ricordo tanto difficile quanto profondo.
Il tutto inserito in un contesto storico difficile, quello della Seconda Guerra Mondiale, che aveva colpito anche se solo indirettamente persino l’isola di Mauritius, sconvolgendo la vita dei piccoli protagonisti.

Un libro interessante, che perde forse un po’ di originalità rispetto agli altri, ma che conserva lo stesso tipo di analisi interiore dei personaggi e quella che definirei “pacatezza” descrittiva degli altri lavori.