Come in altri racconti di Anton Pavlovič Čechov, anche in L’uomo nell’astuccio una storia in apparenza lineare e dai risvolti comici si trasforma sotto lo sguardo del lettore, diventando il pre-testo di una riflessione umoristica incentrata sul senso di colpa umano e le sue conseguenze nella coscienza morale.
L’uomo nell’astuccio: trama del racconto
È notte. In un villaggio della Russia due uomini si attardano davanti a una rimessa raccontando le loro storie. A dire il vero, è uno solo che parla: il suo nome è Burkin; l’altro, Ivan Ivanic, ascolta quieto fumando la pipa. Si parla di una delle varietà del carattere umano, quella dei solitari per natura, che non sono pochi, che sembrano fermi al tempo in cui l’uomo non era ancora un animale socievole. Uno di questi solitari Burkin dice di averlo conosciuto: era un suo collega, professore di greco, ormai da tempo defunto, ma tanto vivo nel ricordo da impadronirsi dei suoi pensieri (e del racconto). Si chiamava Belikov, ed era un ometto gretto, pignolo, schiavo delle convenienze e delle rigide abitudini, incapace di stabilire legami di sodalità con nessuno, per una inaudita propensione a ritrarsi nel guscio della propria sussistenza, come una chiocciola o un granchio eremita. Fino al punto di mostrarsi sereno solo quando fu disteso nella sua bara, la dimora ideale per uno come lui, l’astuccio dal quale nessuno più avrebbe potuto smuoverlo.
Chi è veramente Belikov?
L’uomo nell’astuccio, scritto nel 1898, sembrerebbe un racconto squisitamente comico, la superba caratterizzazione satirica di un personaggio tanto ridicolo da apparire irreale, un’iperbole divertita. Per Ettore Lo Gatto, nel suo Profilo della Letteratura russa (Oscar Mondadori, 1991, p. 286), Cechov non è da ritenere uno scrittore satirico, bensì autore capace di "vedere comicamente e sentire tristemente", e a proposito di Belikov, pur ammettendo la comicità del personaggio, aggiunge opportunamente:
"Quale maggiore tristezza dell’ideale della solitudine trovato nella tomba?"
Ben oltre l’evidenza comica, sembrerebbe di riscontrare nel racconto un senso più profondo, ma per farlo riemergere occorre che il lettore non si fermi a quell’evidenza, bensì provi a togliere Belikov dall’astuccio in cui è stato confinato.
Per fare ciò, sarà necessario formulare preliminarmente un quesito: chi era veramente Belikov? E senza accontentarsi della risposta più ovvia: un "uomo nell’astuccio". Non possiamo ignorare infatti che questo caustico, irridente epiteto ci è stato suggerito, o piuttosto imposto, dall’intrigante racconto di Burkin, che è l’io narrante, e con il quale, per la carezzevole violenza del suo eloquio, rischiamo giocoforza per identificarci. Non c’è da stupirsi, dal momento che seguendo l’ordito del racconto non abbiamo fatto altro che giudicare e osservare Belikov esclusivamente identificandoci con il punto di osservazione di Burkin.
Belikov è un personaggio al quadrato
Per quanto sia costantemente in primo piano, di fatto Belikov per noi è solamente un nome, un io-maschera plasmato da un altro personaggio, quello che funge da narratore, le cui logorroiche argomentazioni ci lasciano in bocca il sapore aspro della celia.
Quello che stiamo esaminando insomma ci appare come il racconto di un racconto; Cechov infatti solo inizialmente interviene in prima persona, ma lascia in seguito la "responsabilità" della narrazione al personaggio Burkin, il cui racconto è tutto incentrato sulla rimemorazione, soggettiva e nondimeno livorosa, dell’uomo nell’astuccio. Se Cechov ha creato Burkin e ne ha fatto l’io narrante del racconto, è pur vero che Burkin ha creato Belikov.
È stupefacente l’autonomia del personaggio-narratore: l’uomo nell’astuccio è un parto del suo ingegno. Leggendo il racconto di Burkin, noi assistiamo in presa diretta a una vera e propria istruttoria, un processo già deciso in partenza, in cui Burkin è il grande inquisitore e Belikov, emblema della selvatichezza, il capro espiatorio.
Se accettassimo questo verdetto, non ci resterebbe che fare come Ivan Ivanic: accendersi un buon sigaro e restare in ascolto. Ma così facendo accadrebbe qualcosa. Acquisendo il punto di vista di Ivan Ivanic (un punto di vista apparentemente anamorfico rispetto alla strutturazione del racconto che prevedrebbe un narratore onnisciente alter ego dell’autore), forse potremo comprendere il senso autentico del racconto, e le vere intenzioni del suo autore: ascoltando e soppesando le parole di Burkin, anziché identificarci con il suo punto di vista, noi potremo giungere a una conclusione diversa da quella sprezzante e liquidatoria di Burkin.
L’umanità di Cechov
Ci riuscirebbe difficile immaginare che a Cechov stesse a cuore la demolizione impietosa di Belikov, presentato come un grottesco monumento al disumano. No, in Cechov quanto più l’uomo è ferito, tanto più è umano. Prendete l’impiegato Cerviakov , protagonista del racconto La morte dell’impiegato, che muore per il semplice rimorso d’avere starnutito addosso a un suo superiore. Quando ne descrive la fine, Cechov non condanna il personaggio, ma denuncia attraverso la caratterizzazione parossistica di esso e del milieu, il male della coscienza morale che lo ha esautorato: quel senso di colpa che lo ha messo in conflitto non solo con la società, ma con la sua stessa coscienza, confondendone la voce con i diktat dei quadri superiori, dei regolamenti.
Non sembra errato sostenere che Belikov possa essere in fondo un parente stretto di Cerviakov, che anch’egli soffra della stessa malattia. Non muore forse anch’egli ferito dal rimorso?
Basta confrontare il finale de La morte dell’impiegato con un brano del nostro racconto. Cerviakov, dopo avere suscitato le ire del superiore "arrivato macchinalmente a casa, senza togliersi la divisa di servizio, si coricò sul divano e… morì".
Parimenti, a Belikov, dopo aver rimediato una brutta figura davanti alla sua promessa sposa:
"Pareva che sarebbe stato meglio rompersi il collo, o tutt’e due le gambe, che diventare lo zimbello della gente; adesso tutta la città avrebbe saputo, la cosa sarebbe arrivata fino al provveditore […] Tornato a casa sua, prima di tutto tolse dalla tavola il ritratto, poi si coricò e non si alzò più".
Mania di persecuzione, paranoia, shock depressivo: non c’è dubbio che il campionario dell’uomo nell’astuccio esalterebbe la reputazione di qualsiasi neurologo. Ma con L’uomo nell’astuccio Cechov ha lasciato che fosse il personaggio Burkin a raccontare Belikov, non si è eclissato dietro il suo io-narrante, gli ha ceduto la parola, ma per dissociarsene, per godere della prospettiva di Ivan Ivanic (e del lettore), diventando lui stesso spettatore e critico, affinché Burkin abbandonato ai fantasmi della sua coscienza rivelasse il suo vero volto.
Il disagio della società e del singolo
Belikov è una maschera, dicevamo prima: la maschera di un disagio che riguarda non solo Burkin ma tutto un mondo. Distruggendo Belikov, Burkin non fa altro che rifugiarsi lui stesso in un astuccio, quello della normalità, dell’onorabilità, del vivere al di sopra di ogni critica e condanna. Proprio ciò che capisce Ivan Ivanic nelle battute conclusive del racconto:
"E il fatto che noi passiamo tutta la vita fra scioperati, uomini litigiosi, donne sciocche e oziose, che diciamo ed ascoltiamo ogni sorta di futilità, forse che questo non è un astuccio?"
È questa dunque la morale più profonda e umoristica della storia? Che tutti, senza volerlo, siamo uomini nell’astuccio se dobbiamo infierire sull’altro, sull’estraneo, sull’altro da sé, per sentirci normali e innocenti.
Quanto più Burkin tenta di compiangere e ridicolizzare Belikov, tanto più paradossalmente smaschera l’ipocrisia effimera che intonaca esteriormente ogni facciata di normalità?
Non è Belikov allora il protagonista (negativo) del racconto, bensì lo stesso Burkin, che tenta di eclissare dietro la maschera grottesca del "suo" Belikov il profilo di un senso di colpa individuale e collettivo e sembra volere vanamente isolare nell’astuccio il malessere di un’intera società arida e malata. È significativo che Burkin non sappia dire io, e che raccontando di Belikov finisca per svelare tanto di sé con una confessione involontaria o, per meglio dire, inconscia.
Non è forse questa una prerogativa del linguaggio umano, che penetra come una sonda nell’anima più segreta di noi, facendo riemergere le verità più nascoste? È ciò che scrive, molto prima di Lacan, Agostino di Ippona nelle battute iniziali del De Magistro, dialogando con il figlio Adeodato:
"Penso invece si possa insegnare attraverso il ricordo [...]. Ma se tu non ritieni che ricordando si impari e chi spinge a ricordare insegni, non mi oppongo a quanto hai detto. Stabilisco fin d’ora due finalità del linguaggio: si parla per insegnare oppure per aiutare gli altri o noi stessi a ricordare. Lo facciamo anche quando cantiamo, o non ti pare?"
Allo stesso modo, in questo racconto incentrato sulla commemoratio, Burkin è parlato dal suo linguaggio, e così Cechov può arrivare allo scopo: l’analisi oggettiva di una società incapace di rispecchiarsi nei propri limiti, senza imporre il suo punto di vista al lettore, ma lasciando emergere la verità di quel contesto umano spontaneamente, attraverso la rimemorazione di un suo esponente, parlando con la sua voce vera.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: L’uomo nell’astuccio: trama, analisi e commento del racconto di Cechov
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