Tra i film presentati in anteprima al Locarno Film Festival troviamo La bella estate, tratto dall’omonimo romanzo di Cesare Pavese. La regia e la sceneggiatura sono a cura di Laura Luchetti che ha spiegato di aver voluto realizzare un’opera sul “corpo di una ragazza che cambia e si trasforma, spinto dal desiderio di essere visto e amato”.
La pellicola è stata girata interamente in Piemonte, tra Torino e i laghi di Avigliana e Carignano. Nel ruolo delle due protagoniste, Ginia e Amelia, troviamo Yile Yara Vianello e l’esordiente Deva Cassel, figlia di Monica Bellucci e Vincent Cassel.
La bella estate è nelle sale italiane dal 24 agosto 2023. Scopriamo le principali differenze tra il libro di Pavese e il film.
La bella estate: il romanzo di Pavese diventa un film
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Chi ha letto La bella estate di Cesare Pavese in tempi recenti sarà senza dubbio rimasto colpito dalla sua straordinaria attualità; non stupisce quindi che venga portato sul grande schermo, sorprende semmai l’imperdonabile ritardo con cui è stato realizzato l’adattamento. A suo tempo, nel 1955, era stato tratto un film dal racconto Tra donne sole che concludeva il trittico pavesiano La bella estate (1949): si intitolava Le amiche e fu diretto da Michelangelo Antonioni sulla base di una sceneggiatura scritta da Suso Cecchi D’Amico e dalla scrittrice Alba de Céspedes. La storia di Ginia e della sua “bella estate” era tuttavia stata, sin da allora, immeritatamente trascurata e solo ora diventa protagonista di una pellicola cinematografica che finalmente la illumina mostrando al grande pubblico tutta la modernità di Cesare Pavese.
Il tema centrale dell’opera è infatti la scoperta di sé e, soprattutto, la libertà di amare. La bella estate che dà il titolo il romanzo simboleggia metaforicamente l’ultimo bagliore della giovinezza: il lettore assiste all’attraversamento della soglia invisibile che separa la gioventù dall’età adulta da parte di Ginia. Siamo nella Torino del 1938, che tuttavia non è poi così distante dai giorni nostri. Attraverso la sua giovane protagonista Pavese esplora tematiche universali che non cessano mai di parlare al presente. Ginia è una giovane alla scoperta di sé e dell’amore: crederà di aver trovato ciò che cercava in Guido, un pittore squattrinato dalla vita bohémienne, ma sarà turbata dalla presenza di Amelia, donna ambigua e misteriosa che posa come modella per i pittori. Come già avevano osservato, al tempo, alcuni critici è proprio la relazione tumultuosa tra Ginia e Amelia il vero perno centrale della storia e non il fatuo innamoramento di Ginia per Guido.
Il rapporto tra le due protagoniste è ambiguo e pieno di sottintesi, come viene rivelato a un certo punto del libro proprio da una battuta di Rodrigues, l’amico scanzonato del pittore Guido:
Voi altre non fate che corrervi dietro, perché se siete tutte e due donne?
Questa domanda venata di pungente sarcasmo è una chiave di lettura imprescindibile per comprendere La bella estate e la sua attualità. Nel finale Ginia è chiamata a compiere una scelta: le sue azioni sono sempre state guidate da un principio di incoerenza, di irresolutezza, eppure è giunto per lei il momento di uscire dall’incertezza che la avvolge fumosa e soffusa come una nuvola.
A fare da sfondo alla storia non sono paesaggi aridi e assolati bagnati dalla luce estiva, ma una Torino grigia e crepuscolare.
Per mostrarci lo smarrimento esistenziale in cui è precipitata la sua protagonista Pavese scrive:
Tutte le strade erano vuote e non sapeva dove andare
Ma nella conclusione - che non a caso sembra un nuovo inizio - la ragazza si affida non a Guido - come avrebbe previsto un qualsiasi lieto fine di metà Novecento - ma ad Amelia.
Il libro di Pavese si conclude inaspettatamente proprio con Ginia che dice ad Amelia:
Andiamo dove vuoi, conducimi tu.
Stiamo parlando di un romanzo scritto nel 1938, capace di superare dal punto di vista narrativo e di introspezione psicologica molte narrazioni contemporanee e di cui nessuno, fino ad ora, aveva colto l’incredibile modernità.
L’adattamento cinematografico realizzato da Laura Luchetti ha la capacità di togliere una patina di grigiore da un romanzo che invece brilla di luce propria, come un’invincibile estate.
Questo film viene realizzato nel tempo giusto, in cui finalmente può essere data alle due protagoniste - Ginia e Amelia - la centralità che meritano.
La bella estate: le differenze tra libro e film
La bella estate di Laura Luchetti porta sullo schermo tutta la dirompente modernità del Pavese narratore, con un interessante cambio di punto di vista. L’estate narrata da Luchetti è crepuscolare come un autunno: il cielo non è mai blu, i viali alberati sono pieni di foglie secche e le strade appaiono sempre in penombra, mentre la pioggia scandisce il ritmo lento dei pomeriggi. La regista ci propone la visione di un’estate interiore che esplode nel cuore della sua protagonista, Ginia, interpretata da una bravissima Yile Yara Vianello dagli occhi innocenti e la voce decisa. Al centro di tutto, a differenza del romanzo di Pavese, c’è l’incontro folgorante tra Ginia e Amelia (Deva Cassel) in riva al lago durante una splendida giornata estiva che presto lascia spazio a un lungo autunno che declina nell’inverno.
Nel romanzo di Pavese Amelia è un personaggio meno centrale, anche se tutti i lettori vengono completamente rapiti dalla sua presenza. Nella storia originale è la relazione tra Ginia e il pittore Guido l’apparente svolta narrativa; mentre nel film a Guido viene affidata subito una presenza di contorno ed è Amelia, attraverso il fascino di Deva Cassel, a riempire la scena. Luchetti sceglie anche di calcare la mano sull’indipendenza di Ginia, che qui appare totalmente dedita al suo lavoro nell’atelier di moda - di cui viene mostrata anche la direttrice - per il quale rivela anche un certo talento. Il mutamento di Ginia viene rappresentato dalla regista non con l’ausilio di una voce narrante esterna, ma attraverso dei sapienti trucchi visivi che riescono bene solo a chi sa fare il vero cinema. La bella estate è soprattutto un film di interni, in cui i quadri, gli specchi, gli oggetti di uso domestico svolgono un ruolo fondamentale. Sin dal principio Ginia si riflette nello specchio dell’atelier dove lavora per sistemarsi la divisa; non a caso ripeterà lo stesso identico gesto dopo aver fatto l’amore con Guido, scoprendo così di avere dei lividi sulle gambe.
Il riflesso all’apparenza non cambia, è sempre lo stesso viso quello visto nello specchio; ma quell’ostinato osservarsi diventa metafora del suo mutamento interiore. Ginia si specchia anche quando si trova nel cafè con Amelia e dice la famosa frase:
Anch’io vorrei farmi ritrarre.
La rappresentazione ha un ruolo chiave nel film, così come la corporeità. Ginia dice che vuole farsi ritrarre per “vedersi con gli occhi di un altro”. In questo la pellicola di Luchetti affronta un tema molto contemporaneo: il nostro bisogno di rappresentazione che oggi ha raggiunto il parossismo. Le foto sui social, il costante bisogno di immagini, fotografie e selfie, rientra nel nostro desiderio di sentirci rappresentati e quindi voluti, celebrati, amati. Ginia dà voce a questo bisogno chiedendo di essere ritratta; ma solo quando effettivamente si spoglia e si ritrova nuda capisce che, in realtà, non era quella l’attenzione che desiderava.
La nudità fisica riflette un’evoluzione psicologica. Quando Ginia si espone inerme allo sguardo di Guido comprende di fare a sé stessa una violenza, non si sente appagata né amata come avrebbe creduto. E allora capiamo che la chiave di lettura della scena è nella frase: “Se lo fa lei posso farlo anch’io”, riferita ad Amelia, che è sempre la ragazza a guidare inconsciamente i suoi gesti, le sue azioni, persino quelle più impensabili.
La più bella scena d’amore del film è in realtà molto casta e non è quella tra Ginia e Guido nella camera da letto (in cui viene messa in luce l’alienazione della donna che si sente scorporata dal proprio corpo), ma è il ballo tra Ginia e Amelia alla festa.
Nella sequenza le due protagoniste non si spogliano né si baciano, ma caricano il momento di tutta l’elettricità necessaria semplicemente attraverso un gioco di sguardi e le mani che si sfiorano. In quel momento Ginia capisce di essere innamorata di Amelia e, per spiegarlo, la regista non deve servirsi di parole. La bella estate è un film intimo, dove i silenzi superano di gran lunga i dialoghi e i paesaggi non sono un semplice contorno. Le inquadrature sono come delle opere d’arte, sembrano quadri ritratti da un pittore paesaggista che gioca sul contrasto: pensiamo a Ginia di fronte all’atelier in un giorno d’inverno mentre cade la neve, oppure alla scena di lei e Amelia nel caffé che ricorda L’assenzio di Degas o un interno di Edward Hopper.
L’intera città di Torino diventa un quadro in movimento, con i suoi lunghi viali alberati, i tram, i portici immersi nella penombra, la sua architettura urbana elegante e geometrica. Luchetti cura l’ambientazione in maniera maniacale facendoci percepire - attraverso la vista - ciò che al romanzo di Pavese necessariamente sfuggiva. Il legame tra Ginia e Amelia nel libro si riverbera attraverso le parole - quando le due si incontrano, le pagine sembrano vibrare - mentre nella pellicola tutto viene taciuto, ma espresso attraverso un gioco di rimandi. Quando Ginia si perde nella galleria d’arte e osserva ansiosamente le donne riflesse nei quadri, capiamo che è ad Amelia che pensa, che è Amelia che cerca.
Un ruolo non secondario lo svolge il fermaglio per capelli dorato, una sorta di senhal di Amelia. Ginia lo nota tra i capelli di Amelia quando sono sedute al caffè, lo ritrova per caso nel letto di Rodriguez e decide di tenerlo con sé, forse con l’idea di restituirglielo; infine lo indossa. Sarà quel fermacapelli a simboleggiare l’attesa straziante di Amelia nell’ultima parte del film. Il fratello di Ginia, Severino (Nicolas Maupas, che ricorda un giovane Pavese), lo nota mentre lei sta annaffiando le piante e toccandole le dice: “Ti sta bene”. Ed è subito chiaro allo spettatore a cosa stia pensando la ragazza con quell’espressione così triste; non è necessario aggiungere altro e - nello stesso istante - sappiamo che anche il fratello l’ha capito.
Laura Luchetti propone una sfida rappresentativa alla narrativa di Pavese, riuscendo a giungere dove le parole non giungono, a emozionare servendosi dell’arte visiva e non del linguaggio. Riesce così a inserire nel film tutto ciò che c’è di vibrante ed elettrico nelle pagine pavesiane, muovendo i suoi personaggi come su un palcoscenico invisibile fatto di corpi che si muovono attraverso lo spazio.
I personaggi che nel romanzo avevano un ruolo più centrale, come l’amica di Ginia, Rosa, Severino o Guido vengono in parte offuscati da nuove figure: Luchetti inserisce la direttrice dell’atelier, Gemma (Anna Bellato), e umanizza la figura del dottore, il dottor Andrea, che qui non ha più la parte di antagonista. Infine, al contrario di quanto avviene in Pavese, viene messa al centro la crisi di Ginia che non esplode solo nel finale ma percorre, sottotraccia, tutta la pellicola. Seguiamo il suo sforzo di comprendere e comprendersi, il coraggio che acquisisce passo passo, la sua scoperta identitaria, comune a quella di tante adolescenti.
Yile Yara Vianello incarna appieno la protagonista, donandole la giusta eleganza, timidezza e delicatezza, dando corpo al suo tormento. Tutto ciò che non viene detto glielo leggiamo negli occhi. Il giusto complemento è dato da Deva Cassel, che non le ruba mai la scena, ma riesce a inserirsi al suo fianco come una presenza necessaria. La bella estate è indubbiamente un film femminista, ma non caricato in questo senso, capace di ribadire il messaggio in maniera delicata, usando il tono sommesso delle emozioni. Una scena esemplare è quella in cui Amelia lascia la borsa al dottore, “La tenga lei”, per poter ballare con Ginia. Questo Pavese non l’aveva scritto, ma potrebbe essere accaduto nella Torino del 1938, dove iniziava a incombere lo spettro della guerra e il fascismo mostrava, pian piano, il suo volto demoniaco.
Laura Luchetti inserisce l’elemento moderno senza fare violenza alla storia, mantenendo intatte atmosfere e consuetudini, mostrandoci semplicemente due ragazze che diventano adulte e osano sfidare lo sguardo del mondo.
La bella estate: il trailer ufficiale del film
La bella estate di Cesare Pavese: il destino ingiusto di un classico
Con La bella estate Cesare Pavese si aggiudicò il premio Strega nel 1950, tuttavia l’opera fu a lungo svalutata dalla critica e ancora non è ritenuta un vero e proprio classico, al pari ad esempio di altri romanzi dell’autore quali La luna e i falò.
Il testo fu scritto nella primavera del 1940 e pubblicato solo nove anni dopo nel trittico omonimo formato anche dai racconti Il diavolo sulle colline e Tra donne sole. Pavese, in occasione del Premio Strega, aveva definito quel primo racconto, La bella estate, come “la storia di una verginità che si difende” e molti critici vi avevano colto una sorta di “iniziazione alla vita”. In realtà era altro, molto altro: una storia di vita capace di intrecciarsi a mille altre storie di vita, il racconto ineffabile di una giovinezza e dello smarrimento che porta con sé. Una storia che si ripete ogni volta uguale e ogni volta è diversa. Perché l’essenza de La bella estate è nel suo tentativo di descrivere un cambiamento, una metamorfosi, la morte del bruco che diventa farfalla.
Il trionfo dello Strega (aveva vinto con 121 voti, distaccando tutti gli altri finalisti) non salvò Pavese, che una ventina di giorni dopo scriveva sul suo diario:
A Roma, apoteosi. E con questo? Ci siamo. Tutto crolla.
Rimane una fotografia in bianco e nero che lo ritrae sorpreso, con un’espressione bizzarra di finto stupore, mentre Maria Bellonci sorridente gli consegna l’assegno del premio.
Cesare Pavese si sarebbe tolto la vita nell’agosto di quello stesso anno; non avrebbe più parlato del libro “stregato”, ma la bella estate di Ginia vive ancora e sempre si ripete. Un romanzo che dovrebbe essere da tempo ritenuto un classico e letto nelle scuole, eppure viene puntualmente ignorato. Forse paga lo scotto di non narrare la Resistenza e la guerra partigiana, ma solo la piccola storia di una ragazza alla ricerca di sé stessa, una ragazza dopotutto uguale a tante altre. Un libro da leggere e rileggere, perché non cessa mai di trasmetterci un senso di meraviglia, stordimento e ineffabile bellezza consegnandoci il bagliore puro di un’estate che ogni volta ricomincia con un incipit folgorante:
A quei tempi era sempre festa. Bastava uscire di casa e attraversare la strada, per diventare come matte, e tutto era così bello, specialmente di notte.
Speriamo che ora questa tardiva riscoperta cinematografica possa mostrare al pubblico - italiano e non solo - un capolavoro ritrovato.
Recensione del libro
La bella estate
di Cesare Pavese
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “La bella estate”: le differenze tra il libro di Pavese e il film
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