Corrado, il protagonista de La casa in collina di Cesare Pavese, si può identificare come un alter ego di Pavese: tutto immerso nel suo tormentoso conflitto interiore, nel tentativo angoscioso di tradurre in azione ciò che egli sente come esigenza e che gli è tuttavia impossibile, Corrado di certo rappresenta perfettamente quel costante senso di inadeguatezza che aveva perseguitato l’autore piemontese per tutta la sua (breve) vita.
Anche per Corrado, per quello che questo professore rappresenta, Pavese decide di togliersi la vita a soli quarantadue anni: Corrado è un uomo che “fa pena”, perché vive “solo come un cane”, è un “buono contro voglia” che può arrivare perfino a “fare ribrezzo”. Se consideriamo che in Corrado l’autore si rispecchia e si riconosce (non senza struggimento), risulta evidente quanta poca stima Pavese avesse di se stesso: d’altronde, i suoi successi letterari gli apparivano in realtà come vuoti, spolpati, perché essi non venivano sostenuti dalla realizzazione esistenziale e affettiva.
La casa in collina (Einaudi tascabili. Scrittori)
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Cesare Pavese: vissuto per la morte, ma morto per la vita
In una foto che lo ritrae all’apice della sua carriera letteraria (nonché verso la fine della sua vita), ovvero quando ricevette il prestigioso Premio Strega, egli sorride, ma di un sorriso malinconico, sfatto, sofferente: quell’immagine può perfettamente inquadrare quello che è stato lo stato d’animo di tutta una vita. Pavese è stato, a mio parere, un uomo che è vissuto per la morte, ma che poi è morto per la vita: tutta la sua esistenza, nonché la sua globale produzione letteraria, si articola in fondo attorno a questa tensione verso la morte, ma quando egli sceglie di morire, non lo fa per scomparire, bensì per restare, restare al di fuori del tempo, ma soprattutto della Storia.
D’altronde l’insolubile dicotomia di vita e morte non è che la più estrema di quelle coppie oppositive che costellano la sua intera opera: egli è il perfetto uomo del Novecento, orfano di padre, ma non solo da un punto di vista personale (perse il padre a pochi anni), bensì a livello universale. Nel Novecento le coscienze si scompongono, le menti si logorano, la tradizione viene brutalmente scardinata dalla nichilista consapevolezza (lentamente acquisita) che l’uomo non ha certezze su cui poter contare: Pavese è uno degli esempi concreti più acutamente e dolorosamente evidenti di questa mancanza di solidi punti di riferimento.
Corrado: una vita da spettatore
Inoltre, in questa tensione verso una morte che allontani dalla Storia può essere forse cercata l’essenza del personaggio di Corrado: egli fugge dalla Storia, ma è ben consapevole di doverla affrontare, di avere il dovere quantomeno morale di guardarla negli occhi e di combattere, resistere, difendere le proprie idee, schierarsi a fianco di Cate, del giovane Dino, di Fonso, di Giulia e di tutti gli altri combattenti per la resistenza. Eppure l’unico ruolo che riesce a rivestire è quello del passivo e statico spettatore: è spettatore quando i suoi amici e la donna che amava (forse) vengono arrestati, è spettatore durante la strage partigiana.
Corrado non vive la vita, ma si limita a guardarla scorrere sotto i suoi occhi: questa condizione di voluta e cosciente esclusione da qualunque dimensione attiva
dell’esistenza grava su di lui come il peggiore dei macigni. La sua passività è in fondo la sua condanna estrema: passivo nella Storia, è costretto ad esserlo anche nella dimensione intima; Corrado non ha via di uscita se non rifugiarsi nel mondo mitico delle sue natie colline, fuggire nei boschi, riparare in quel mito individuale che sembra essere l’estrema soluzione.
Anche la campagna, rifugio di Corrado e di Pavese, dimensione autentica, ancestrale, viva, diventa però un “gioco futile”, uno scherzo infantile, “come i selvaggi e i giornaletti di Dino”. E la Storia, d’altronde, viene a cercarlo anche in quei luoghi che lui considerava così sicuri, dove sentiva di poter trovare un suo posto nell’universo: i cadaveri sulla strada per tornare presso la propria famiglia sono la terribile prova tangibile di come non sia possibile sfuggire al male della Storia.
Tra azione e rassegnazione
Corrado rappresenta in particolare la condizione dell’intellettuale borghese che preferisce estromettersi dall’azione politica per non correre rischi, o meglio, la sua figura è ancora più complessa: egli non rinuncia semplicemente, senza rimorsi all’azione, come farebbe un vile; egli tenderebbe verso la condizione dell’intellettuale impegnato dal punto di vista politico, ma poi si trova di fronte alla sua debolezza, alla sua rassegnazione di fronte al reale, a un profondo senso di adeguatezza che lo fanno desistere.
Questa tensione dicotomica tra azione e passiva rassegnazione si può scorgere nei due gruppi sociali che Corrado frequenta in campagna: da una parte l’Elvira e la madre, due donne “per bene”, due “timorate di Dio”, si potrebbe definirle, che rappresentano il polo negativo della passività, della preoccupazione per la propria incolumità che paralizza ogni tensione eroica; dall’altra Cate e i suoi compagni, appartenenti al ceto proletario, di orientamento comunista e fervidi sostenitori della lotta partigiana.
Corrado disprezza le prime, trovandole grette e quasi patetiche, tuttavia, pur sostenendo le idee del secondo gruppo, non riesce a prendere parte alle loro azioni fino in fondo: rimane così in un doloroso limbo da cui gli è impossibile uscire. In quest’ottica, la sua affermazione secondo cui Cate e i suoi compagni sono naturalmente portati, dalla vita che fanno, a comportarsi da sovversivi, non ha tanto il peso di un’osservazione sociologica, bensì una sorta di scusa, di protezione per la sua passività.
Corrado pare affetto da quella “nevrosi della salute” cui accenna Nietzsche ne La nascita della tragedia: questa è, insieme alla passività di fronte al reale e strettamente connessa a essa, la sua peggior condanna; coloro che soffrono per cause riconosciute valide, possono quasi compiacersi del proprio dolore e della compassione umana che esso porta con sé, ma coloro che soffrono di un male inesistente, ineffabile, logicamente impossibile non possono neppure godere della pietà altrui e sono destinati a soffrire ancora di più.
Perché “della salute”? Non è forse anche Corrado circondato dalla guerra, dalla morte, dal fascismo, dalla lotta partigiana e dai bombardamenti? Certo, ma Corrado, come sentenzia la madre di Cate, “ha la pagnotta e può stare in collina”: infatti sono forse queste parole a colpire maggiormente il protagonista, ad avvilirlo profondamente. Che esse siano del tutto vere o siano in parte alterate da vecchi pregiudizi di una donna anziana assuefatta alla fatica contadina, a Corrado poco importa, perché egli sente dolorosamente che esse possano etichettare la sua esistenza in modo sincero e genuino. Ecco che, allora, la sua nevrosi della salute torna chiaramente in superficie ed egli non può fare altro che sentirsi in colpa, tremendamente: l’inadeguatezza lo divora, così come ha fagocitato Pavese e tutte le sue fragilità.
In fondo è proprio il tentativo che egli fa di uscire da tale passività a esasperarlo: se Corrado fosse uno “straniero” immerso nella più assoluta apatia e alienazione, tanto da pensare con la più assoluta e distaccata indifferenza alla morte della madre, per un omicidio insensato e per la pena di morte inflittagli, egli allora non soffrirebbe. Chi non prova sentimenti, non può soffrire, chi si aliena a tal punto da perdere i contatti con la realtà, scordando così i valori morali che dovrebbero guidare gli uomini, nonché l’importanza della relazione con gli altri, è alienato anche da se stesso, dalla propria sostanza ontologica e dunque anche dal proprio dell’altrui dolore.
Corrado, però, non ha nulla del Meursault di Camus: Corrado cerca l’impegno politico, cerca l’affetto, il contatto con gli altri, l’eroismo, la possibilità di porre il proprio sapere al servizio di coloro che potrebbero tradurlo in azione (“sai tante cose, Corrado, e non fai niente per aiutarci”, gli dice Cate) e ha piena coscienza che “conta quello che si fa, e non quello che si dice”, ma alla fine si rende conto che non desidera la “pace del mondo”, ma soltanto la sua.
Corrado: l’alter ego di Pavese
In questo Corrado è davvero l’alter ego di Pavese: egli ha sempre sognato la posizione di intellettuale impegnato, ha sempre teso verso relazioni sentimentali appaganti (con donne che lo chiamassero “il mio uomo”), ma, poi, ha sempre rinunciato.
Dal punto di vista affettivo le delusioni gli sono arrivate dall’esterno - l’abbandono della Dowling è stato fatale – mentre è stato Corrado a lasciare Cate, nella giovinezza, perché “la gioia di quel rossetto [gli aveva dato] ai nervi”; ma dal punto di vista dell’impegno politico, è Pavese a desistere.
D’altronde, ne Il mestiere di vivere, è lui stesso ad affermare di avere “una tendenza a celebrare nella vita piuttosto le facoltà statiche goditrici che non quelle attive rinnovatrici”: il suo rinnovamento morale non può provenire da una rivoluzione, quanto più dalla letteratura, dotata di facoltà rigeneratrici. Tuttavia poi aggiunge: “Se non è però pigrizia o vigliaccheria”, delineando così il suo timore di diventare un vile, nel seguire quella che definisce “la mia natura”. Quanto questa natura sia giustificabile e quanto possa provocare vergogna, è certamente un dilemma sia per Pavese che per Corrado.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: La casa in collina: analisi del romanzo di Cesare Pavese
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