La cucina color zafferano di Yasmin Crowther

Si può vivere lontano da se stessi? Maryam Mazar ci ha provato: poco più che ventenne, rinnegata dal padre, ha lasciato l’Iran e si è costruita una nuova vita a Londra con un marito, Edward, e una figlia, Sara. Ma i fantasmi del passato hanno continuato a chiamarla dall’Iran finché un giorno, dopo l’aborto che la figlia Sara subisce indirettamente a causa sua, Maryam decide di tornare ad affrontare il paese in cui ha trascorso i primi vent’anni della vita, anche se i suoi genitori e tutti i suoi parenti più prossimi sono già morti.
Né il marito né la figlia sanno esattamente quali motivi la spingano ad andare e soprattutto non sanno se tornerà indietro: il dubbio ci accompagna quasi fino alla fine della lettura.

Pubblicato nel 2006 da Guanda, La cucina color zafferano è un libro molto delicato, scritto sull’onda della nostalgia per il proprio paese e la propria gioventù, ma anche sull’ambivalenza di una cultura per molti aspetti all’opposto di quella occidentale: non ci sono giudizi, né prese di posizione, ma la Crowther, lei stessa anglo-iraniana, ci fa ben entrare nella mente di una donna che, pur essendosi trovata bene a Londra, ha sempre sentito il bisogno di tornare in Iran per accettare quello che ha subito da giovane e per reinstaurare alcuni rapporti, coi vivi e coi morti.

E’ un romanzo in cui sono protagoniste le donne: gli uomini, anche se ci sono, restano a guardare quali decisioni prenderanno le mogli o le figlie, e quando il padre di Maryam prende posizione contro di lei, pur facendolo per evitare che il disonore ricada sulla famiglia, si sente che si sono spezzati legami più antichi e più nobili di quelli che può dettare una religione o un governo, come se si fosse sovvertito un ordine naturale primordiale, quello dell’amore di un genitore per i figli.

Ricordavo le sue lacrime davanti al telegiornale delle nove: corpi sbilenchi che dondolavano, morti appesi ad altissime gru a Mashhad. Uno era il suo fratellastro Shariar, erano andati a prenderlo a casa. (...) "Quello non è il mio Iran" diceva.