La madre è una poesia di Giosuè Carducci ispirata alla scultura marmorea dell’artista fiorentino Adriano Cecioni.
L’opera di Cencioni raffigurava uno spensierato momento tra madre e figlio che colpisce profondamente il poeta spingendolo a tessere un’ode della maternità, della dedizione e del lavoro onesto.
Un profondo legame univa il poeta all’artista, testimoniato da un fitto carteggio intercorso tra il dicembre del 1867 e il marzo del 1903. Adriano Cecioni in alcune lettere confidava all’amico Carducci di star lavorando a un gruppo scultoreo che lo poneva in seria difficoltà poiché cercava di trasporre in marmo una scultura inizialmente realizzata in gesso: il poeta, futuro premio Nobel, fu così testimone della lunga gestazione dell’opera, cui avrebbe dedicato la sua intesa lirica La madre contenuta nella raccolta delle Odi Barbare (1887).
Nei suoi versi il Poeta della Storia ritrae una giovane madre al lavoro nei campi, solerte e operosa, che solo a sera, terminata la dura fatica quotidiana, riesce ad abbracciare e nutrire il suo bambino. Nel quadretto bucolico dipinto da Carducci non manca un riferimento alla sua terra natia, la Toscana, che qui illumina la giovane madre con i colori fiammeggianti del tramonto.
Forse nello scrivere la lirica Carducci fu ispirato dal ricordo di sua madre, Ildegonda Celli, cui era stato profondamente legato e che in varie poesie descrive mentre vezzeggia o tiene per mano il figlioletto Dante, il fratello minore del poeta, morto suicida nel 1857.
Nel 1879 la scultura marmorea di Adriano Cecioni era compiuta, sarebbe stata esposta alla Galleria d’arte moderna di Firenze nel 1887; anche l’ode di Carducci, a essa ispirata, era stata ultimata e recava il titolo La madre.
La lirica carducciana sarebbe stata pubblicata per la prima volta sulla rivista Fanfulla della Domenica il 25 aprile 1880.
Scopriamone testo, parafrasi e analisi.
“La madre” di Giosuè Carducci: testo e parafrasi
Lei certo l’alba che affretta rosea
al campo ancora grigio gli agricoli
mirava scalza co ’l piè ratto
passar tra i roridi odor’ del fieno.
Lei ammirava, già scalza, l’alba rosea avanzare tra i rugiadosi odori del fieno, mentre avanzava con passo veloce lungo il campo ancora grigio.
Curva su i biondi solchi i larghi omeri
udivan gli olmi bianchi di polvere
lei stornellante su ’l meriggio
sfidar le rauche cicale a i poggi.
Gli altri lavoratori udivano il suo canto femminile che si levava alto nel pomeriggio a sfidare il coro rauco delle cicale sulle colline, mentre stava curva a lavorare sui biondi covoni di fieno.
E quando alzava da l’opra il turgido
petto e la bruna faccia ed i riccioli
fulvi, i tuoi vespri, o Toscana,
coloraro ignei le balde forme.
E quando la sera alzava finalmente il suo ringonfio petto e il volto bruno incorniciato di riccioli color rame dal faticoso lavoro, ecco che i tuoi tramonti, o Toscana, coloravano di rosso fuoco le sue generose forme.
Or forte madre palleggia il pargolo
forte; da i nudi seni già sazio
palleggialo alto, e ciancia dolce
con lui che a’ lucidi occhi materni
Ora la forte madre stringe il suo bambino, ci gioca dopo che lo ha saziato allattandolo al seno. Lo fa volare in alto e parla con lui dolcemente, mentre lui fissa lo sguardo nei lucidi occhi della madre che lo comprendono.
intende gli occhi fissi ed il piccolo
corpo tremante d’inquïetudine
e le cercanti dita: ride
la madre e slanciasi tutta amore.
Solo la madre capisce cosa vuole quel piccolo corpo tremante di inquietudine e le piccole dita che la cercano. Ride la madre e per il suo bambino è tutta uno slancio di solo amore.
A lei d’intorno ride il domestico
lavor, le biade tremule accennano
dal colle verde, il büe mugghia,
su l’aia il florido gallo canta.
Fa eco al suo riso il lavoro domestico, i frumenti stanno spuntando sul colle verde pronti per essere colti, il bue muggisce e il bel gallo tronfio canta nell’aia.
Natura a i forti che per lei spregiano
le care a i vulghi larve di gloria
cosí di sante visïoni
conforta l’anime, o Adrïano:
La scultura di Adriano Cecioni (cui la poesia è dedicata, Ndr) conforta l’animo con una santa visione in spregio a coloro che, credendosi forti, disprezzano la natura rincorrendo vane promesse di gloria.
onde tu al marmo, severo artefice,
consegni un’alta speme de i secoli.
Quando il lavoro sarà lieto?
quando securo sarà l’amore?
Mentre tu (Adriano), artista dall’alto valore morale, consegni al marmo una speranza eterna nei secoli: quando il lavoro sarà finalmente felice? Quando l’amore sarà sicuro?
quando una forte plebe di liberi
dirà guardando ne ’l sole: — Illumina
non ozi e guerre a i tiranni,
ma la giustizia pia del lavoro —?
Quando finalmente un popolo di uomini liberi dirà guardando il sole: “Illumina non l’ozio dei ricchi e le guerre compiute dai tiranni, ma la giustizia umile e onesta del lavoro?”
“La madre” di Giosuè Carducci: analisi e commento
Carducci apre la sua ode tratteggiando un quadro bucolico: la madre corre tra i campi a piedi scalzi sin dalle prime ore dell’alba, quando il cielo inizia a tingersi di un pallido rosa e l’aria è pregna degli odori del fieno inumidito dalla rugiada.
Le prime tre strofe racchiudono quadretti bucolici di campagna: viene descritto il mattino, il meriggio e il vespro del lavoro contadino tramite le azioni della donna; nelle ultime tre strofe invece è presente il riferimento al difficile lavoro dell’artista, Adriano Cecioni, che tenta di dare vita al marmo imprimendovi non solo un’immagine viva ma una riflessione morale.
I versi finali della poesia di Carducci sembrano sfidare a livello espressivo la bravura dello scultore: il poeta cerca di scolpire la propria opera attraverso le parole.
L’intento moralizzante che mosse Cecioni nella realizzazione del proprio gruppo scultureo era quello di “inspirare nell’osservatore quel sentimento di naturale rispetto che suscita una madre”. Lo stesso fece Giosuè Carducci nella sua ode: dopo aver narrato la faticosa giornata della donna che solo a sera riesce a ricongiungersi e giocare con il figlioletto, il poeta si sofferma sull’eternità della scultura marmorea che racchiude l’immagine e innalza la sua riflessione a un intento moralizzatore: “quando ill lavoro sarà lieto? quando sarà sicuro l’amore?”. Nel finale Carducci trasferisce il canto dal particolare all’universale augurandosi l’avvento di una società meno ingiusta, più libera e umana.
Il principio morale di quella società equa e felice, questo Giosuè Carducci lo sapeva bene, pulsava nel cuore traboccante d’amore delle madri.
Chi era la madre di Giosuè Carducci?
La madre di Carducci era Ildegonda Celli, figlia di un orefice fiorentino. La donna aveva sposato nel 1834 Michele Carducci, medico e liberale carbonaro, dal quale aveva avuto tre figli: Giosuè, nato nel 1835, Dante, nato nel 1836 e Valfredo, nato nel 1841.
Il poeta fu sempre legato alla madre, cui lo univa un affetto profondo. Alla morte della donna, avvenuta nel 1870, scrisse un’accorata lettera al fratello Valfredo in cui testimoniava tutto il suo dolore:
Ella riposa, e non sente più nulla. Pace! Pace! Ma non è finita, non finisce, non finirà mai, la memoria e il desiderio nostro di lei. Io, che tutti i giorni quasi e spesso nei sogni penso e riveggo il nostro fratello morto, io ricorderò sempre lei, la rivedrò sempre; la ricorderò, la rivedrò, anche, spero, all’ultimo punto della mia vita.
“Non finirà mai, la memoria e il desiderio nostro di lei”, scriveva il Poeta della storia, e dieci ani dopo, nell’ode La madre (1880), avrebbe dato forma alla memoria trasformando Idelgonda in un’immagine sempiterna di dedizione e amore materno, le avrebbe dedicato una scultura fatta non di marmo, ma di parole più durature delle pietre.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “La madre” di Giosuè Carducci: una poesia sull’amore materno ispirata a un’opera d’arte
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