La letteratura può essere una forma di preghiera, lo dimostra Giuseppe Ungaretti attraverso questa poesia La Pietà che sembra dare al dolore una forma materica per poi tramutarlo in una sostanza spirituale.
Si tratta di un lungo componimento, suddiviso in quattro sezioni, un vero e proprio poemetto di 74 versi.
La preghiera di Ungaretti inizia piano, quasi in un sussurro che lo conduce a dichiarare “Sono un uomo ferito”, poi si eleva sino a trasformarsi nell’urlo dell’uomo bestemmiatore: la “bestemmia” diventa quindi l’unico mezzo che l’uomo ha a disposizione per mettersi in contatto con Dio.
Dando voce al proprio primigenio dolore umano Giuseppe Ungaretti in realtà dà un volto a un dolore antico, al sentimento di fragilità dell’uomo che si sente sconfitto nell’antitesi tra vita e morte che vede il dominio della seconda e la Speranza ridotta a “un mucchio d’ombra” come se provenisse non dal cielo ma dall’Ade, il Regno dei morti.
La poesia La Pietà è tratta dalla raccolta Il sentimento del tempo (1933) ed è contenuta nella sezione degli Inni. Viene definita dalla critica come la sintesi drammatica di una crisi esistenziale, ma in fondo è molto di più.
Nell’immagine della Pietà di Michelangelo, la celebre scultura custodita nei Musei Vaticani, è racchiuso il volto profondo della sofferenza che si fa effige universale, come riconosce Ungaretti che dà proprio questo titolo alla sua poesia che è una voce singola e, al contempo, un coro di voci.
“La Pietà” di Giuseppe Ungaretti: testo
Sono un uomo ferito.
E me ne vorrei andare
E finalmente giungere,
Pietà, dove si ascolta
L’uomo che è solo con sé.Non ho che superbia e bontà.
E mi sento esiliato in mezzo agli uomini.
Ma per essi sto in pena.
Non sarei degno di tornare in me?Ho popolato di nomi il silenzio.
Ho fatto a pezzi cuore e mente
Per cadere in servitù di parole?Regno sopra fantasmi.
O foglie secche,
anima portata qua e là…No, odio il vento e la sua voce
Di bestia immemorabile.Dio, coloro che t’implorano
Non ti conoscono più che di nome?M’hai discacciato dalla vita.
Mi discaccerai dalla morte?
Forse l’uomo è anche indegno di sperare.
Anche la fonte del rimorso è secca?
Il peccato che importa,
se alla purezza non conduce più.La carne si ricorda appena
Che una volta fu forte.È folle e usata, l’anima.
Dio guarda la nostra debolezza.
Vorremmo una certezza.Di noi nemmeno più ridi?
E compiangici dunque, crudeltà.
Non ne posso più di stare murato
Nel desiderio senza amore.Una traccia mostraci di giustizia.
La tua legge qual è?
Fulmina le mie povere emozioni,
liberami dall’inquietudine.Sono stanco di urlare senza voce.
2.
Malinconiosa carne
dove una volta pullulò la gioia,
occhi socchiusi del risveglio stanco,
tu vedi, anima troppo matura,
quel che sarò, caduto nella terra?È nei vivi la strada dei defunti,
siamo noi la fiumana d’ombre,
sono esse il grano che ci scoppia in sogno,
loro è la lontananza che ci resta,
e loro è l’ombra che dà peso ai nomi,la speranza d’un mucchio d’ombra
e null’altro è la nostra sorte?E tu non saresti che un sogno, Dio?
Almeno un sogno, temerari,
vogliamo ti somigli.È parto della demenza più chiara.
Non trema in nuvole di rami
Come passeri di mattina
Al filo delle palpebre.In noi sta e langue, piaga misteriosa.
3.
La luce che ci punge
È un filo sempre più sottile.
Più non abbagli tu, se non uccidi?Dammi questa gioia suprema.
4.
L’uomo, monotono universo,
crede allargarsi i beni
e dalle sue mani febbrili
non escono senza fine che limiti.Attaccato sul vuoto
Al suo filo di ragno,
non teme e non seduce
se non il proprio grido.Ripara il logorio alzando tombe,
e per pensarti, Eterno,
non ha che le bestemmie.
“La pietà” di Giuseppe Ungaretti: analisi e commento
La poesia è datata 1928, fu scritta da Giuseppe Ungaretti dopo la sua conversione religiosa, probabilmente in un momento di crisi spirituale. Presenta una struttura singolare: Ungaretti sceglie di dividerla in brevi strofe quasi epigrafiche ampliando a dismisura lo spazio tra i versi, lasciando quindi grandi spazi bianchi come se volesse raffigurare, anche su carta, la distanza incolmabile, ineludibile, tra l’uomo e Dio. In questa lirica gli spazi parlano più forte delle parole, diventano espressione esplicita di un silenzio, di un disagio, di una mancanza.
Da questi versi stringati, lapidari, si eleva un urlo lacerante che intende esprimere un vuoto abissale. Torna l’immagine, cara a Ungaretti, delle foglie come metafora del destino umano, già espressa in Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie e nelle celeberrima Fratelli. La foglia si fa emblema della fragilità umana anche qui, viene addirittura a esprimere una condizione esistenziale:
O foglie secche, anima portata qua e là.
Sottotraccia scorre l’interrogativo supremo: l’arte può elevarci al di sopra della nostra misera condizione umana?
Nella rappresentazione de La Pietà di Michelangelo , Ungaretti scorge l’immagine di Cristo che si è fatto uomo e ha patito, con orrore, il destino dei mortali, ovvero la morte. L’autore scriveva che “il Barocco provoca il sentimento del vuoto” e che “l’estetica del Barocco romano era stata mossa dall’orrore del vuoto” ovvero “dall’idea insopportabile di un corpo privo d’anima”.
Una frase, in particolare, nella dissertazione artistica ungarettiana appare fondamentale per l’analisi di questa poesia La Pietà:
Il vuoto nell’ispirazione poetica appare con Michelangelo e poi con il Barocco, che Michelangelo inventa.
“Vuoto” dunque è la parola centrale, la vera chiave di analisi dell’intera poesia anche se nella lirica è nominato una volta “attaccato sul vuoto”, dice il poeta in un’espressione che appare un ossimoro, una contraddizione in termini. Ma il vuoto è espresso soprattutto attraverso l’uso grafico degli spazi bianchi. Il silenzio parla, il vuoto parla attraverso la voragine-orrore della mancanza, questo sembra dirci Ungaretti che proprio da lì fa scaturire il suo urlo che si fa rappresentazione della crisi dell’uomo del Novecento che ha perso ogni solida certezza e, dopo la Grande Guerra, scopre di camminare su un terreno friabile e precario.
Attaccato sul vuoto
Al suo filo di ragno,
non teme e non seduce
se non il proprio grido.
La voce che in questa poesia si appella a Dio attraverso il grido, sostiene Franco Fortini, ricorda quella di Giobbe: il solo personaggio che nella Bibbia ha il coraggio di chiedere a Dio la ragione della sofferenza umana.
“Con Dio desidero contendere” si legge ne Il libro di Giobbe - e lo stesso fa Giuseppe Ungaretti in questa poesia: avvia una contesa con Dio nel tentativo di comprendere ciò che non può essere compreso, ovvero le ragioni del dolore, del male, della sofferenza che aggredisce l’essere umano come un morso.
Giobbe è un portavoce del grido unanime dell’umanità che non si appella alla divinità chiedendo conforto sottoforma di preghiera, ma pretende una spiegazione, chiamando Dio a giudizio come un imputato allo scranno del tribunale.
Nell’ultima strofa de La Pietà troviamo la rappresentazione più chiara, perfetta, dell’uomo del Novecento, figlio unigenito dell’età delle contraddizioni e dei conflitti.
Per Ungaretti la “parola viva” sgorgava dal silenzio e questa poesia sembra scritta attraverso il silenzio raccolto in una voragine, più profonda della gola, che quindi si tramuta in un grido muto, come scriveva l’autore nella celebre Commiato:
In questo mio silenzio/una parola è scavata nella mia vita/come un abisso
Sull’antitesi tra voce e silenzio si gioca l’intero componimento. “Silenzio” è la parola scolpita in questa poesia, La Pietà, in cui gli spazi si fanno carichi di significato, di pathos e di pietas, in cui il poeta dice:
Sono stanco urlare senza voce.
In realtà non è la voce che manca, ma colui che la ascolta. L’urlo, di conseguenza, si perde nel silenzio, come fumo. Ungaretti teorizza sfidante: “E tu non saresti che un sogno Dio?” e così si appella a un cielo che è vuoto. Ma rimane la statua eterna di Michelangelo, nella sua “divina indifferenza”, a farsi rappresentazione di una speranza umana ineludibile.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “La pietà” di Giuseppe Ungaretti: una poesia dialogo con Dio
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