La prigioniera
- Autore: Debra Jo Immergut
- Genere: Gialli, Noir, Thriller
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Corbaccio
- Anno di pubblicazione: 2018
Lavora qualche volta all’interno di un carcere Debra Jo Immergut e questo deve averla aiutata nella stesura del suo primo romanzo, dopo tanti racconti. Il titolo è “La prigioniera”, una volta tanto traduzione testuale dell’americano “The captive”. È in libreria da settembre 2018, per i tipi Corbaccio, 300 pagine 17,90 euro.
Giornalista, Debra Jo è stata firma di testate prestigiose, tra New York e Boston. Insegna scrittura creativa per diversi enti, comprese biblioteche, basi militari e appunto case di reclusione.
È un thriller psicologico, ad andamento lento e a due voci, quella di uno psicoterapeuta e della sua assistita. Due caratteri, tanti problemi, due vite che si incrociano, un modo originale di raccontare una storia, un intreccio interessante.
Lento moto, ma non disturba, perché azioni e situazioni si fanno strada nel racconto che prende forma dalle due versioni, a capitoli alterni, che rimbalzano dal presente al passato e puntano verso un traguardo coincidente. Interessanti le dinamiche psicologiche dell’uno. Necessariamente claustrofobico il punto di vista dell’altra, che ha modo di descrivere la quotidianità di una comunità ristretta di detenute.
Frank, 32 anni, psicologo, è sorpreso di ricedere l’unica protagonista dei suoi sogni adolescenziali. Sono passati 15 anni, ma quella che siede sulla poltrona davanti a lui non è cambiata, sembra la ragazzina che gli faceva battere il cuore nei corridoi del liceo e che ricorda di aver sbirciato seminuda e con gli occhi gonfi per le lacrime, nello spogliatoio del campo d’atletica, dove si era allenata. La stessa andatura, gli stessi capelli a coda, lo stesso volto amabile.
È evidente che non deve averlo riconosciuto, conserva l’atteggiamento indifferente di chi ha tanto tempo disposizione, ma è al tempo stesso sofferente per la difficoltà di dormire che accusa. L’uniforme arancio indossata da M. è quella carceraria. L’incontro si svolge nel centro di psicoterapia di un istituto femminile di pena nello Stato di New York.
Trascurare i rapporti di conoscenza pregressi rende Frank colpevole di una grave violazione della deontologia professionale. La sua obiettività potrebbe risultare compromessa, ma averla ritrovata esercita un’attrazione irresistibile. Le prescrive un sonnifero e le propone di avviare una terapia in carcere. Lei accetta gli incontri, con un velo di malinconia. Miranda vuole morire. Se n’è convinta dopo 22 mesi di detenzione e nella prigione di Milford Basin il modo migliore per farlo è un’overdose di pillole. Basta la prescrizione del centro terapeutico, che può essere concessa per curare la depressione o una condizione di particolare aggressività e lo strizzacervelli si è mostrato disposto a firmare la ricetta, con quell’aria vagamente familiare e il comportamento tanto gentile. Poi manderà giù i farmaci tutti insieme e il gioco sarà fatto. Desidera morire perché non sopporta di dover affrontare la quantità “oscena” di anni che le restano da scontare: più di 250mila di sbadigli e di ore vuote, aspettando la vecchiaia senza speranza.
Tutti saranno curiosi di conoscere il reato tanto grave di cui Miranda si è resa colpevole. Viene da una buona famiglia, il papà era stato al Congresso per una legislatura da Senatore. Ma la vita non è tutta rosa e i santi stanno solo in paradiso: la storia complicata di Miranda prende corpo poco a poco, particolare su particolare, incontro su incontro. Mattone su mattone cresce anche la presenza di Frank, che a sua volta nasconde qualcosa che lo ha allontanato da un prestigioso studio newyorchese e costretto a relegarsi nell’asfittica realtà dell’Istituto Penitenziario di Milford Basin.
Ha proposto ad M. di sottoporsi a sedute, psicoterapiche, per rimettere in ordine qualche problema, ma sa bene che né la direzione né i contribuenti consentirebbero di sforare il budget limitato per la psicoterapia autorizzando un trattamento a lungo termine. Per questo, finisce per autoconvincersi dell’esistenza di una giusta causa: l’urgenza di agire. La detenuta soffre una “crisi in atto”, non serve una laurea per accorgersi che lo stato emotivo della ragazza è atroce.
Se c’è una situazione di emergenza c’è bisogno che qualcuno intervenga e lui ha il vantaggio di aver frequentato le stesse aule scolastiche, sicchè chi potrebbe condurre meglio un trattamento terapeutico tanto urgente e delicato?
Ci sarebbe poco da contestargli. La deontologia se ne faccia una ragione: lo psicoterapeuta giusto per quella psicoterapia non può che essere l’ex compagno di scuola, capace di tirare fuori dagli impicci una povera psiche malandata da chissà quale grossa punizione, per chissà qualche pasticcio in cui si è cacciata la bellissima M. dal volto d’angelo, ex campionessa di atletica e suo amore mai confessato.
Gran lavorio mentale, da una parte e dall’altra. Ma c’è azione, c’è una trama e ci sono una serie di vicende che si sviluppano in flashback, ma anche no.
Negli Usa il romanzo ha fatto boom. Ci sono tutti i presupposti perché il successo si ripeta anche da noi.
La prigioniera
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