Moriva in un campo di concentramento Milena Jesenská, colei che fu musa di Franz Kafka, la destinataria delle famose Lettere a Milena (1952).
Oggi è ricordata soprattutto come la “Milena di Kafka”, eppure merita di essere riscattata da questa visione riduttiva: fu un’ottima giornalista, una traduttrice, una scrittrice, una fine intellettuale che avrebbe potuto scrivere grandi opere letterarie se non fosse morta, a soli quarantotto anni, a Ravensbrück. La sua memoria fu consegnata a un altro libro, intitolato proprio Milena (1977), scritto dall’amica Margarete Buber-Neumann, la comunista tedesca che con lei aveva condiviso l’esperienza del lager nel campo di concentramento femminile, ma, al contrario di lei, non vi aveva trovato la morte. Chi era davvero Milena Jesenská?
La sua essenza non è contenuta nella confessione kafkiana delle Lettere a Milena, un carteggio a una voce sola che rappresenta più una diagnosi psichica del Kafka autore che un ritratto della donna. Nelle famose Lettere leggiamo Kafka, ma Milena costantemente ci sfugge, poiché le lettere di lei sono andate perdute. Nel carteggio è lui che si riflette in lei, Franz Kafka sfrutta la figura di Milena per parlare di sé stesso, dei suoi tormenti, dell’irriducibilità della sua solitudine. Eppure fu lui, il grande scrittore boemo, a trasferire l’essenza di Milena nella letteratura mediante una metafora:
“Voglio che tu sia per me il coltello, e anch’io lo sarò per te, prometto.”
Milena era il coltello capace di inserirsi nelle pieghe più nascoste e irraggiungibili della mente di Kafka. Questo è l’amore, afferma lo scrittore:
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“Che tu sei per me il coltello col quale frugo dentro me stesso.”
Nelle lettere Milena si muove nei labirinti della mente di Kafka, ma nella realtà lei era una donna straordinariamente libera e indipendente. La filosofa Laura Boella, nel suo libro edito da Mimesis, la definisce una delle Imperdonabili: insieme a Etty Hillesum, Cristina Campo, Marina Cvetaeva e Ingeborg Bachmann, Milena fu una donna che scelse la scrittura come mezzo d’espressione supremo, come strumento per interpretare il proprio tempestoso tempo. Non l’amica di Kafka, ma un’Imperdonabile, ecco come dovremmo dovremmo ricordare, con nome e cognome, Milena Jesenská.
Chi era Milena Jesenská
Nacque a Praga nell’agosto del 1896. Non possiamo definire Milena Jesenská propriamente come “scrittrice”: nella sua vita si ingegnò in vari modi e fu molte donne insieme. Nella prima parte della sua esistenza fu una studentessa ligia al dovere, si diplomò presso il primo liceo classico femminile europeo: leggeva molto, soprattutto Dostoevskij, Wilde, Byron, era curiosa e voleva conoscere tutto. Ammirava la sua insegnante, Albína Honzáková, una delle prime donne ceche a essere laureate in filosofia: anche lei sognava un avvenire diverso in cui le donne non fossero più relegate al ruolo esclusivo di “madri e mogli”, soffocate nel ristretto ambito familiare. Faceva parte di organizzazioni studentesche ed era considerata “anticonformista” per il suo modo di vestire e le sue abitudini. Circolavano molte voci sul suo conto a causa dei suoi comportamenti; ma probabile che nemmeno una di quelle voci fosse vera. Terminato il liceo avrebbe voluto iscriversi a Filosofia e letteratura, ma fu costretta a scegliere Medicina per seguire le orme del padre, l’illustre chirurgo dentale praghese Jan Jesensky.
Poi venne il tempo della ribellione: lasciò gli studi universitari al primo semestre. Ancora giovanissima si ribellò alla volontà del padre, per sposare l’intellettuale ebreo Ernst Pollak, che aveva conosciuto nei circoli letterari di Praga. Il padre di Milena, antisemita e nazionalista, era contrario al matrimonio e per un periodo la fece rinchiudere in una clinica psichiatrica. Milena era giovane, aveva ventiquattro anni, ma aveva già vissuto molte vite quando arrivò a Vienna con il marito: nella solitudine della nuova città cercò di reinventarsi, facendo di tutto per guadagnarsi l’indipendenza, dall’insegnante privata alla portaborse. Iniziò a scrivere articoli di moda, arredamento e cucina per racimolare denaro. Più tardi sarebbe approdata al quotidiano Tribuna, dove spiccava per le sue acute analisi sociologiche, e avrebbe iniziato a lavorare alle prime traduzioni dal tedesco, dal francese e dall’inglese.
Fu proprio grazie alla sua attività di traduttrice che conobbe Franz Kafka. Era il 1919, lei rimase colpita dalla lettura di un suo racconto, Il fuochista, e mesi più tardi gli scrisse per proporgli una traduzione dal tedesco al ceco. Fu l’inizio di una corrispondenza appassionata, ma presto Milena dovette prendere le distanze, poiché, come scrisse, lei “aveva i piedi saldamente ancorati per terra” e non poteva abbandonarsi a un uomo - un uomo solo e malato, tra l’altro, che si sentiva “colpevole di tutto” - mettendo a repentaglio il resto, il suo lavoro, il suo matrimonio, il suo futuro.
In qualche modo, tuttavia, fu sempre fedele a Kafka: continuò a tradurre le sue opere e a custodire i diari che lui stesso gli aveva affidato.
Recensione del libro
Lettere a Milena
di Franz Kafka
Nel 1927 ormai era una giornalista di successo. Scriveva per le più note riviste ceche, Národní listy (Pagine nazionali), Pestrý týden (La settimana illustrata) e Lidové noviny (Giornale popolare), iniziando a diventare una firma nota: si sentiva quella voce che era soltanto sua. Divorziò dal marito, del quale non poteva più tollerare i tradimenti, e fece ritorno a Praga.
Milena Jesenská: una donna “imperdonabilmente” libera
A Praga, Milena conobbe l’architetto ceco Jaromír Krejcar, dal quale ebbe la figlia Jana. Iniziò per lei un periodo difficile, in quanto si ritrovò imprigionata nella condizione di “moglie e madre” che, da studentessa libera, aveva sempre sfidato. Iniziò ad avere problemi di salute seri: una gamba le resterà paralizzata, rendendo la sua andatura claudicante. Nonostante tutto lei voleva disperatamente scrivere e continuare il suo lavoro di giornalista. La malattia e i dolori articolari però l’avevano resa dipendente dalla morfina. La sua carriera vacillava: pagamenti in ritardo e licenziamenti continui le resero sempre più difficile lavorare. Si avvicinò al comunismo, iniziò a partecipare a convegni e assemblee politiche, a scrivere per giornali militanti, svincolandosi sempre più dalle pareti domestiche, e presto anche il suo secondo matrimonio finì.
Milena tuttavia decise di abbandonare il comunismo quando si rese conto delle derive dello Stalinismo in Russia e divenne una delle critiche più feroci di quel sistema. Ospitava in casa propria e accudiva gli ex prigionieri dei campi di lavoro in Russia; intuiva una pericolosa vicinanza tra l’ideologia stalinista e il nazismo. Aiutava numerosi profughi provenienti dalla Russia e dalla Germania, si impegnò in prima persona organizzando una rete di salvataggio per ebrei, ex detenuti, rifugiati. Questo suo impegno le valse l’appellativo de L’angelo degli ebrei. Intanto scriveva articoli sulla prestigiosa rivista liberal democratica ceca Přítomnost (Presente), documentando l’avanzata dei nazisti. Nei suoi pezzi guardava in faccia implacabilmente ciò che accadeva, documentava le condizioni - sempre più misere - dei cittadini praghesi e dei profughi, le “vittime in vita”, ai quali veniva negato ogni diritto. Nei suoi articoli raccontava una disperazione muta:
Anche questo è inconfondibilmente ceco: non si sentono lamenti, né si avvertono paura o disperazione o lo scatenarsi di sentimenti violenti. Soltanto dolore.
A metà degli anni Trenta era una delle firme di punta del giornale clandestino V Boj (In lotta, Ndr).
Quando i tedeschi invasero il suo Paese, comprese che per lei era la fine; ma decise fermamente di restare, di non andarsene da Praga.
Fu arrestata; dapprima incarcerata e poi deportata, nell’ottobre del 1940, nel campo di concentramento femminile di Ravensbrück. Vi sarebbe rimasta prigioniera per quattro anni, fino alla morte, avvenuta il 17 maggio del 1944.
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Degli ultimi anni della sua vita ci dà testimonianza l’amica Margarete Buber Neumann, che condivise con lei la prigionia. Nel libro Milena, pubblicato in Italia da Adelphi nel 1999 con il titolo Milena. L’amica di Kafka, Neumann dice che la sua luce non smise mai di brillare, nemmeno all’interno del campo di concentramento dove continuava a dare supporto alle altre donne, formando un’altra rete di salvataggio. Nel libro si narra che una volta attraversò tutto il campo di nascosto, rischiando la vita, solo per portare il caffè a un’amica.
Nel campo di concentramento di Ravensbrück era tornata d’improvviso la ragazza ribelle e anticonformista che era stata da adolescente:
Non marciava mai esattamente in fila per cinque, il suo atteggiamento durante l’appello non era mai conforme alle disposizioni. Non si affrettava mai a eseguire un ordine, non adulava i superiori.
Il suo nome è ora inciso sul muro di Yad Yashem tra i “Giusti tra i popoli”, coloro che rischiarono la vita per aiutare gli ebrei perseguitati.
Eccola la vera Milena, svincolata dall’ombra di Kafka. Margarete Buber-Neumann ci racconta che, anche da prigioniera, Milena Jesenská rimase una donna libera.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: La vera storia di Milena Jesenská, la donna amata da Kafka
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