Le nuove armi della Grande Guerra
- Autore: Claudio Razeto
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2018
Claudio Razeto, “Le nuove armi della Grande Guerra”, Edizioni del Capricorno, ottobre 2018, 168 pagine 13 euro. L’ultima guerra di massa, la prima di materiali: l’enorme conflitto mondiale divampato tra l’agosto 1914 e il novembre 1918 è rimasto un monito inascoltato. L’uomo ha continuato a perfezionare strumenti per uccidere sempre più nemici e sempre più rapidamente. E cento anni fa c’era già riuscito perfettamente: 9 milioni ed oltre di soldati uccisi tra tutti gli eserciti impegnati e più di 20 milioni di feriti e mutilati.
Nel centenario del dramma che per la prima volta coinvolse il mondo intero, l’esperto di archivi storico fotografici Claudio Razeto ha realizzato per le edizioni torinesi un libro di testimonianze e di immagini (centinaia di foto in bianco e nero, anche più d’una per pagina), adatto a tutti, tanto più a chi si accosta per la prima volta a quella vicenda epocale.
L’attenzione è rivolta in particolare alle armi nuove, create, sperimentate e prodotte industrialmente in grandi quantità, una volta accertata la loro efficacia. E quindi diffuse capillarmente sui campi di battaglia.
Sappiamo che in quella nuova guerra il problema era il netto vantaggio della difensiva sull’offensiva. Si era manifestato evidente fin dalle prime settimane, quando i russi erano andati in battaglia spiegando sul campo masse compatte di cavalleria e i francesi si erano spinti nelle Ardenne sfoggiando i tradizionali sgargianti pantaloni rossi. Contro eserciti ancora abbigliati come nell’Ottocento, si era materializzata sui campi di battaglia del fronte occidentale (anglo-francesi contro tedeschi) e del fronte orientale (russi contro austro-tedeschi) la sinergia spaventosamente efficace di tre baluardi difensivi in stretta combinazione: trincea, filo spinato e la regina della Grande Guerra, la mitragliatrice.
Postazioni scavate nella terra, precedute da siepi intricate di rotoli di filo di ferro chiodato, frenavano l’attaccante per favorire l’azione falciante delle armi automatiche progettate per sparare pallottole in rapida successione. Centinaia di colpi al minuto contro avversari in difficoltà. Quelle sputafuoco, insieme agli aerei ed ai sommergibili erano armi nate appena pochi anni prima, ma che in quel conflitto misero presto in mostra la loro efficacia letale. Si trattava di strumenti che realizzavano sogni bellici accarezzati da sempre: sparare più rapidamente, colpire il nemico dall’alto e minacciarlo dall’acqua senza essere visti.
Erano armi assolutamente nuove, inedite e tuttavia è curioso considerare che altre, adottate in grande scala cento anni fa, sviluppavano tecniche in uso nel passato. Il maresciallo d’Italia Gaetano Giardino, l’eroe della difesa del Monte Grappa, ha commentato lucidamente in un suo saggio che nella guerra moderna la tecnologia militare è spinta a fare la sintesi di tutti i mezzi di offesa adottati dall’umanità nel corso dei secoli.
Per superare lo stallo della guerra di posizione, la storia dell’ingegneria militare venne saccheggiata. Dagli assedi a rocche e castelli derivò l’idea di scavare tunnel sotto le posizioni nemiche, imbottirli di esplosivi e farli brillare, aprendo crateri fumanti desertificati di difensori, annichiliti dallo scoppio.
Sempre dal remoto passato venne tratto il progetto di usare olio bollente e fuoco, nella forma delle miscele combustibili proiettate dai getti arroventati dei lanciafiamme, utili tanto nell’offesa che nella difesa. Un’arma spaventosa per chi si trovava a subirne gli effetti crudeli, ma anche molto pericolosa per l’operatore stesso. Costretto ad agire allo scoperto ed esposto alla reazione avversaria, rischiava di bruciare vivo se un proiettile avesse colpito i serbatoi che reggeva sulle spalle. Nel caso fosse caduto prigioniero, sapeva di non poter sperare nella clemenza dei nemici: i flammieri venivano liquidati sul posto quando non linciati rabbiosamente, visto l’orrore provocato dalla morte che arrecavano.
I lanciafiamme derivavano da una tecnologia sperimentata da chimici tedeschi, come avvenne del resto per i gas, fatta rapidamente propria e ulteriormente raffinata dagli altri paesi in guerra.
Erano d’origine medievale le mazze ferrate che gli austro-ungarici usarono sul San Michele per finire nostri soldati intossicati dalle nubi di fosgene. Gli stessi carri armati, schierati per la prima volta dagli inglesi e usati in massa nell’offensiva di Cambrais, erano dopotutto l’evoluzione dei carri da guerra antichi, ora costruiti in metallo, protetti da placche d’acciaio, mossi da “cavalli” vapore e armati con cannoncini e mitragliatrici.
Oltre ai capitoli dedicati ad armamenti, navi, dirigibili, generali e battaglie, spiccano le curiosità proposte in quello riservato alle uniformi, “vestiti per uccidere”. Il combattente-tipo di tutti gli eserciti di un secolo fa indossava giubba e pantaloni della tinta più indistinguibile rispetto al territorio circostante e proteggeva la testa con un elmetto di metallo. Si fa fatica a pensare che uomini di quegli stessi eserciti erano entrati in quella guerra con divisa sgargianti, coperte da ammennicoli inutili nel conflitto moderno, che rendeva i bottoni dorati, le cordelline ballonzolanti e le pettorine lucide dei bersagli perfetti per i fucili a ripetizione e soprattutto per le micidiali mitragliatrici.
Le nuove armi della grande guerra
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