Le poesie che mi sono figlie
- Autore: Duccio Castelli
- Categoria: Poesia
- Anno di pubblicazione: 2008
Belle queste poesie di Duccio Castelli, prive di intellettualismi e di psicologismi;
Le poesie che mi sono figlie (West-Ward edizioni, 2008) raccontano tutta una vita e si lasciano leggere tutte d’un fiato. Sono solo apparentemente lineari, ma posso intuire il travaglio che c’è dietro. Un occhio un minimo attento scorge subito il lavoro e il talento che ci vuole per scrivere così. Il vero travaglio è la "emigranza" del poeta, non i soliti crucci esistenziali. Siamo tutti legati a dei luoghi e il dolore può nascere anche dal doversene svincolare.
Leggendo queste 500 liriche ci si rende conto dei motivi per cui grandi nomi come Quasimodo, Italo Calvino, Paolo Conte ne sono rimasti favorevolmente colpiti. Ma ciò che colpisce di più, che salta subito all’occhio sono la genuinità e lo stupore nei confronti del mondo del poeta e musicista Duccio Castelli (1945), che ha lavorato, vissuto e amato in varie parti del mondo; attualmente vive a Santiago del Cile.
Queste liriche così comunicative, efficaci, ben scritte mi fanno scaturire diversi pensieri a riguardo. Penso che l’errore più comune nella vita sia quello di ritenere il domani come l’ieri e l’oggi. Invece il poeta non si abbandona a questo stato di cose. Ognuno è un cantiere aperto. Molti uomini sono persi nella loro routine. Difficilmente qualcosa o qualcuno cambiano il corso o lo stile della loro vita. Talvolta è troppo tardi per cambiare: il croupier ha già detto "rien ne va plus". Queste poesie mi fanno pensare a tutto questo. Sono poche le cose che contano nella vita: questo l’hanno già scritto in molti, ma Castelli ce lo ricorda in modo molto fresco, schietto, sincero, con il cuore in mano e con uno stile sempre letterario.
Ma leggendole mi viene anche da pensare che in questo mondo probabilmente i giochi ormai sono fatti. C’è anche chi muore di fame o di guerra, però il resto dell’umanità è inerme di fronte a queste disgrazie. I pochi che governano la Terra se ne infischiano. Si sentono invincibili. Nel mondo occidentale si è molto attaccati alla vita e i medici anche nei casi disperati non lasciano mai niente di intentato. Poi quando non c’è più niente da fare dicono ai familiari che allo stato attuale delle conoscenze.... e qualche parola per esprimere cordoglio. Molti aspettano un colpo di fulmine; altri un colpo di scena; poi rimangono bloccati dal colpo della strega ovengono vinti da un colpo apoplettico. In queste poesie c’è buona parte di questo mondo e il dramma, la gioia, la scommessa, la sfida di essere nel mondo. Il poeta comunque vuole comunicarci che in tutta la vita siamo sempre tutti alla ricerca e in attesa. Cerchiamo tra i segni. Aspettiamo un simbolo. Più simboli fanno un’opera. Ascoltiamo un latrato, un fischio, un fruscio di vento. Cos’è la poesia? L’anello che non tiene montaliano? La gnommero gaddiano? La docile fibra dell’universo ungarettiana? Scoprirsi in disarmonia? Scoprirsi ossimori? Fissare un punto indefinito nell’infinito?
Ritengo che questi siano i presupposti della poesia. Scusate le mie divagazioni. Ritorniamo alla questione principale. Castelli fa bene a esprimere la vita senza fare bilanci esistenziali, senza pensare se abbiamo più dato o avuto. Tutti vorremmo ritornare indietro nel tempo quando eravamo giovani e ci sentivamo padroni di noi stessi. A volte guardo i giovani. Alcuni pensano di essere al centro del mondo. In queste poesie a un tratto subentra la maturità e non resta che rimpiangere gli amici perduti. Nessuno sa il suo destino. È questo l’assurdo e la bellezza dell’essere umani, qui ben espresso. Anche io come l’autore avrei voluto vivere mille vite o almeno entrare nelle vite di più persone. Ma un certo punto della vita ci si accontenta: non si vuole camminare altre strade, non si vuole altri paesaggi.
In queste poesie è sotteso il pensiero della morte pur cercando di trascenderlo. La vita, mi sono detto leggendole, è un continuo rimandare la morte, per quanto possibile. Forse di noi resteranno solo pochi ricordi nelle menti dei nostri cari e dei nostri amici (scompariremo definitivamente forse con la dipartita di chi ci ha conosciuto). In questi componimenti si sente la gratitudine di essere esistito da parte del poeta e vengono descritti magistralmente certi istanti felici che gli hanno illuminato l’esistenza. Il senso di questa nostra precarietà umana Castelli lo sa rendere egregiamente nei suoi versi. Così come in questo libro ci sono tutto lo spettacolo del mondo e il fluire inarrestabile della vita, ben sintetizzati in immagini poetiche. Un giorno i nostri crani diventeranno teschi. Ogni volta che mi tocco la testa penso alla mia morte. Probabilmente i versi di Castelli resteranno.
Essere poeti è difendersi a oltranza dalla morte forse. È bello ascoltare le voci del mondo, è molto piacevole addentrarsi nel mondo di Castelli e lasciarsi trascinare, fare questo viaggio mentale. Poco importa se un giorno per noi il mondo tacerà per sempre. Ha comunque perfettamente ragione Castelli: "Dio ha messo la firma ma noi siamo analfabeti". Non poteva trovare formula esistenziale e poetica migliore. Eppure nonostante ciò è proprio a Dio che dobbiamo rendere conto.
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Stimato Morelli, un critico giovane e libero, dunque mi ha fatto molto bene la sua "critica" (anche perchè positiva!...). Farebbe bene a chiunque.
Ma io ne ho sentito davvero la sincerità, visto poi che non ci conosciamo neppure. La ringrazio e spero di conoscerla presto, mi dia una voce.
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Sinceramente,
Duccio Castelli
P.S. Vedrà che anche lei resterà.
Gentile Duccio,
la ringrazio per l’attenzione. Per essere veramente libero di esprimermi ho come regola di non conoscere nessuno personalmente degli autori. Preferisco leggere i loro libri che conoscere le persone. Patrizia Valduga scriveva che se ci si conosce non ci si legge e viceversa. Ci vuole la giusta distanza. Per il resto sono solo un recensore e non un critico. Buona serata. Un cordiale saluto.