Il recente caso di Alice Munro ha aperto il dibattito su letteratura e morale.
La figlia della scrittrice canadese Premio Nobel, Andrea Robin Skinner, alcune settimane fa ha dichiarato pubblicamente al Toronto Star di aver subito nell’infanzia gli abusi del patrigno, Gerald Fremlin, marito di Munro; mentre la madre sapeva (fu messa al corrente da una lettera della figlia) e avrebbe mantenuto il segreto per anni, portandoselo nella tomba, senza muovere un dito in difesa della figlia Andrea, anzi allontanandosene e, dopo una breve separazione, continuando a restare accanto all’uomo perché, come dichiarò in seguito, “lo amava troppo”.
Un comportamento che l’opinione pubblica, dopo aver pianto a lungo la scomparsa della scrittrice, morta lo scorso maggio, non ha esitato a condannare: la dinamica social in questo frangente ha ben dimostrato la sua funzione di ghigliottina.
Pochi giorni prima incensava Alice Munro lamentando la sua assenza nel mondo, dopo - appresa la notizia dello scandalo - la condannava con sentenze inappellabili. Persino le foto proposte per identificare Munro erano cambiate: per commemorarla apparivano immagini in cui sorrideva radiosa immersa in una luce quasi paradisiaca, mentre ora, rivelata l’ambiguità della persona, si prediligevano foto in chiaroscuro dove i suoi occhi azzurrini baluginavano con diabolica mestizia.
Inorriditi i lettori di Munro dichiaravano che mai si sarebbero aspettati un comportamento simile da lei; aggiungevano sgomenti che nei suoi libri c’era una morale diversa, che l’empatia dimostrata dalla Munro scrittrice non coincideva affatto con la Munro persona. Che fine aveva fatto il femminismo di Munro? Come poteva rivelarsi una donna così meschina, asservita a un uomo violento?
Tutti prendevano le distanze, come se l’avessero conosciuta personalmente e ignorassero la sua doppiezza.
Attenzione, proprio qui sta la differenza: da lettori cadiamo facilmente nel tranello, alimentato dall’immaginario simbolico e da una certa sospensione dell’incredulità che la letteratura favorisce, di confondere l’opera con l’autore.
Siccome conosciamo - o amiamo - l’opera ci illudiamo di conoscere anche l’autore; quando la realtà ci dice tutt’altro, ovvero che non si può conoscere nessuno veramente a fondo; neppure le persone che ci stanno accanto, ogni giorno, aderiscono perfettamente all’opinione o alla considerazione che noi abbiamo di loro, figuriamoci un estraneo. Gli scrittori che amiamo non sono i nostri migliori amici, anche se a volte, leggendo le loro parole, ci illudiamo di afferrare qualcosa di nostro, una sensazione condivisa, un pensiero comune o una continuità di intenti; ma, come teorizzava in maniera adamantina un certo Marcel Proust:
“Ogni lettore, quando legge, legge sé stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in sé stesso”.
La letteratura, del resto, ci dice proprio questo: che ogni essere umano è un abisso, che nei silenzi si nascondono le storie più interessanti, proprio perché insospettabili.
Il caso Munro: il confine della letteratura
Ma se questa tesi (“l’autore non è l’opera”) può essere dimostrata senza particolari ostacoli e inghippi, diventa invece più difficile ragionare sull’altro argomento: alcuni lettori ora si rifiutano di leggere e promulgare l’opera di Munro, tirando in ballo l’annosa e criptica faccenda su letteratura e moralità, del resto così in voga nell’era della cancel culture.
È stato osservato, infatti, che in una sua opera la scrittrice faceva riferimento a degli abusi subiti da una bambina - a questo punto, alla luce dei fatti resi noti, il racconto appare di chiaro riferimento autobiografico. Guarda caso il titolo profetico della raccolta era Segreti svelati: proprio quello di cui oggi, dopo la morte di Alice Munro, ci troviamo a discutere consapevoli che le nostre prese di posizione in fondo non porteranno da nessuna parte, poiché in questa faccenda rimane una vittima, la figlia - e una donna, la scrittrice, che è ormai stata sepolta assieme alla sua colpa inconfessabile e silente.
Quello che come lettori ci vergogniamo di ammettere, invece, è che i racconti di Munro già ci parlavano di questi silenzi colpevoli, di sensi di colpa striscianti, di madri deplorevoli e figlie non abbastanza amate, di catastrofi familiari che si consumavano nell’arco di poche pagine, appena nello spazio di uno sguardo o di un gesto, senza che l’atmosfera fosse scossa da nessun terremoto.
La letteratura traduce su carta l’incanto e la disperazione delle nostre vite: la Premio Nobel Alice Munro aveva reso tangibili i suoi drammi interiori trasferendoli nelle vicende - spesso non a lieto fine - dei suoi personaggi. Venuti a conoscenza di questo, come lettori, ci sentiamo quasi complici di un delitto: ma ci sbagliamo se crediamo che la soluzione, ciò che resta da fare per scagionarci da questo senso di colpa inoppugnabile, da questa complicità avvilente, sia smettere di leggere Munro.
Leggere Munro nell’epoca della cancel culture
Qual è il confine tra letteratura e moralità? Certo, non tutti gli autori sono Alessandro Manzoni che mentre scrive si lascia guidare la mano dalla “Divina Provvidenza” e si premura di mettere nero su bianco il “sugo della storia”; anzi, la letteratura presenta una lunga tradizione di romanzi scandalosi o, per giunta, immorali, raccontati persino dal punto di vista, non proprio irreprensibile, del criminale della storia: pensiamo alla concezione del male narrata da Dostoevskij nei Fratelli Karamazov (il male è dentro di noi), allo scandalo della pedofilia accennato in Lolita di Nabokov o al più recente American Psycho di Bret Easton Ellis che vede protagonista un assassino.
La letteratura non sempre ha un intento moraleggiante, anzi, spesso si addentra nei territori oscuri e inesplorati dell’immorale, del nonsenso, della follia o addirittura del patologico. L’Inferno, a partire dalla Divina Commedia di Dante, è molto più interessante (per non dire addirittura seducente) del Paradiso.
Leggere Alice Munro è immorale?
Quindi non dobbiamo giudicare l’immoralità di Alice Munro come un tradimento nei confronti della sua opera o dei suoi lettori. Se c’è una cosa che la letteratura ci insegna, con la sua proverbiale sospensione dell’incredulità, è che tutto è lecito proprio perché può essere raccontato. La letteratura ha messo nero su bianco l’abisso del cuore umano, permettendo - a noi lettori - di scrutarvi all’interno come in un’accurata operazione di vivisezione. Non sempre i pensieri del personaggio corrispondono a quelli dell’autore, così come non sempre la vita dello scrittore aderisce alla morale dell’opera: ma la funzione della letteratura è anche quella di farci entrare nel buio a occhi aperti, non solo di raccontarci belle favole a lieto fine.
Le storie più riuscite sono quelle che raccontano, senza peraltro spiegarla, l’incomprensibilità della vita. Questo è ciò che ha fatto anche la Premio Nobel Alice Munro come scrittrice di talento, componendo attraverso l’ambiguità sottile tra “detto” e “non detto” le trame delle sue storie, sempre in bilico tra quotidiano e possibile, presentandoci personaggi fallibili, meschini, ma reali.
Cosa ci aspettiamo dalla letteratura?
Il punto della discussione che per giorni, divampata come un incendio, ha tenuto banco sui social network non era se Alice Munro fosse colpevole o innocente; ma se valesse ancora la pena di leggere Alice Munro dopo questa rivelazione.
Allora, forse, la vera domanda dovremmo porcela proprio noi, come lettori, immersi in una data epoca e in un determinato contesto storico. Il “politicamente corretto” dominante ha portato all’aberrazione della cancel culture, capace di denigrare veri e propri classici della letteratura alla luce di letture pedanti e quanto mai lontane dal contesto in cui questi libri sono stati scritti: allora Shakespeare e Conrad diventano razzisti, Hemingway misogino, Roald Dahl antisemita. Ora il caso Munro sta dando luogo al processo inverso: condanniamo la scrittrice, quindi l’opera. Riteniamo immorale l’atto compiuto dall’autrice, quindi depenniamo o aboliamo la sua opera. Va da sé che si tratta di un ragionamento assurdo, di un altro dei nostri paradossi culturali.
Lo stesso era accaduto con un altro premio Nobel, Günter Grass, l’autore de Il tamburo di latta, cui addirittura si propose di revocare il prestigioso premio dopo che quest’ultimo aveva rivelato di aver militato nelle SS in gioventù e l’affermazione scandalo: “Sono stato un giovane nazista”. All’opinione pubblica non importava per nulla la presa di coscienza successiva di Günter Grass, né tantomeno il contesto storico in cui l’autore tedesco in gioventù era inserito - e da cui fu indubbiamente influenzato - voleva condannarlo in nome della Storia senza comprendere che, in fondo, in tutti i suoi libri scorreva tra le righe una profonda disamina del regime hitleriano. L’opera di Grass era, di certo, una conseguenza del passato nazista di Grass, ma ne rappresentava anche il necessario completamento e capovolgimento: lo scrittore divenne il maggiore censore morale della politica tedesca. Eppure la ghigliottina dell’opinione pubblica era scattata: si condannava la colpa dell’autore senza riflettere sul fatto che tutta la sua opera era stata, in fondo, un tentativo di espiazione di quella colpa. Lo stesso si potrebbe dire nel caso di Alice Munro. La fallibilità umana è una certezza; talvolta la letteratura riesce a riscattarla o a spiegarla, talvolta no. Il talento artistico non consente alcun tipo di sublimazione da una miseria di fondo che ci riguarda tutti, proprio perché mortali, peccatori, imperfetti. Ci aspettiamo che nell’arte risieda la morale di cui la vita è priva; ma non sempre è così, anche se a volte accade che l’opera d’arte riesca a sanare o a colmare i vuoti di senso dell’esistenza.
Quello che dovremmo veramente chiederci è: cosa ci aspettiamo dalla letteratura? Cosa pretendiamo dai libri?
Credo che nessuno di noi voglia leggere storielle pre-impostate con una limpida morale; da quel punto di vista ci basta Manzoni e, forse, ora consideriamo quel lieto fine persino un po’ superato, ottocentesco, benché perfettamente calibrato, aderente a un ideale supremo di giustizia. La letteratura dovrebbe analizzare a fondo il concetto di morale, anche a costo di apparire immorale.
Dai libri non dovremmo aspettarci una giustizia posticcia, artefatta, che non si avvera neppure nel migliore dei mondi possibili; ma la possibilità di uscire dalla nostra comfort zone, di scardinare il nostro conformismo e le nostre posizioni, di dirci anche quello che abbiamo sotto gli occhi ma non siamo disposti veramente ad ammettere come la menzogna, l’invidia, il tradimento.
Alla letteratura dobbiamo chiedere la capacità di farci pensare e di andare oltre le catalogazioni meschine, il bianco e il nero, le definizioni “copia e incolla” oggi così gettonate come insegnamenti di vita “usa-e-getta”.
A fronte di tutto ciò la condanna di Alice Munro non riguarda davvero la letteratura; chi ha pensato fosse così forse non ha mai davvero letto i suoi libri.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Letteratura e moralità: qual è il confine? Il caso Munro nell’epoca della cancel culture
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Un ottimo commento. Se dovessimo giudicare i libri in base alla moralità o meno dei loro autori (chi poi potrebbe in tutta serenità emanare sentenze?) non dovremmo più leggere, il che sarebbe pura follia.
Gaio Valerio Catullo, in uno dei suoi Carmi ha pienamente risposto a tutta questa questione: una cosa è l’artista e un’altra cosa è l’opera sua... e le due cose non vanno mai frammischiate. L’opera va giudicata di per sé, secondo quanto l’artista vi esprime, senza considerare il valore morale dell’artista nella sua vita quotidiana. E l’artista va giudicato, come persona, anche da un punto di vista morale, per come nel suo quotidiano si comporta. Sono mondi diversi, che è sbagliato mescolare. Richard Wagner fu una persona alquanto discutibile e un compositore di eccezionale talento. L’artista umanamente squallido non compromette la sua opera così come l’artista in odore di santità non rende l’opera sua migliore. Vale sempre il principio, per ogni artista: "considerate sempre quanto da me creato, mai me."