In un precedente articolo sono state analizzate le note pseudo-napoleoniche a Machiavelli, un falso storico di successo, ma non privo di forzature che hanno rapidamente permesso ai critici di scoprire la realtà.
Tuttavia per conoscere veramente la versione di Napoleone sui fatti relativi alla caduta della Serenissima è possibile fare riferimento a un documento autentico. Durante l’esilio a Sant’Elena, Bonaparte dedicò molto impegno nel comporre delle memorie basate sui suoi ricordi e il confronto con giornali, riviste e testi già editi; il risultato furono dei resoconti che l’ex generale dettò personalmente ai suoi stretti collaboratori e che revisionò con cura per lasciare tramite di essi un testamento militare e politico.
Tra queste opere, nel 2012 la casa editrice Donzelli ha pubblicato una traduzione in lingua italiana delle Memorie della Campagna d’Italia, con un’introduzione di Ernesto Ferrero.
Le memorie di Napoleone Bonaparte
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Tra queste pagine Napoleone – come Cesare – si esprime in terza persona e cerca di presentare le sue azioni con un tono imparziale, mostrando in realtà, a seconda delle circostanze, la versione che gli è più congeniale.
Focalizzandoci sulla fine della Serenissima Repubblica, dobbiamo partire dal breve quadro descrittivo che lo stratega diede dello Stato Veneto:
“La repubblica di Venezia aveva ad ovest la Lombardia austriaca, a nord le Alpi cadorine, che la separavano dal Tirolo e dalla Carinzia, a est la Carinzia, la Carniola, l’Istria e la Dalmazia. La sua popolazione era di tre milioni di abitanti. Poteva mettere sotto le armi 25000 uomini. La sua flotta dominava l’Adriatico. Aveva tredici reggimenti di schiavoni, che erano buoni soldati. Il bergamasco, il bresciano, il cremasco, il polesine, il veronese, il vicentino, il padovano, il bassanese, il trevigiano, il cadorino, il feltrino, il bellunese, il Friuli erano i suoi Stati sulla riva destra dell’Isonzo; l’Istria e la Dalmazia, quelli sulle coste dell’Adriatico. […] La Toscana e la repubblica di Venezia erano le sole potenze dell’Italia che fossero in pace con la Francia.”
Vengono inoltre poste due domande che servono solo a confondere le acque:
“Portarsi nella regione di Venezia, non sarebbe obbligare questa repubblica, che può disporre di 50000 uomini, a parteggiare per il nemico?”;
“Si teme che Venezia si dichiari contro la Francia? Il miglior modo d’impedirlo è portare in pochi giorni la guerra all’interno dei suoi Stati; essa non è affatto preparata a un simile evento; non ha avuto il tempo di procedere all’arruolamento e di prendere risoluzioni; bisogna impedire al Senato di deliberare. Se l’esercito resta sulla riva destra del Ticino, gli austriaci costringeranno questa repubblica a far causa comune con loro, oppure essa stessa si getterà nelle loro braccia, influenzata dallo spirito di partito”.
Sono due pensieri contraddittori, che celano la situazione fattuale: Venezia aveva scelto la via della neutralità disarmata, ma l’Austria desiderava da secoli impossessarsi dei territori veneti. Napoleone voleva concludere una pace con gli Asburgo e tornare in Francia come vincitore, per sua ambizione personale; aveva pieni poteri e quindi disponeva dell’autorità che gli permise di cedere Venezia all’Austria, senza che il direttorio potesse rigettare un simile accordo.
La corte di Vienna insistette inderogabilmente affinché con la pace di Campoformio gli venisse ceduta Venezia e almeno parte dei suoi dominii, al fine di estendere il suo controllo sul Mare Adriatico.
La Francia, dal canto suo, in quel frangente storico, aveva un interesse relativo per Venezia e riteneva più vantaggioso ottenere il Belgio e i territori tedeschi sulla riva sinistra del Reno.
Nel paragrafo delle memorie intitolato “Negoziati con l’imperatore di Germania”, il corso sembra inserire una giustificazione all’eliminazione del governo aristocratico veneto:
Se mai i francesi avessero riattraversato le Alpi senza conservarvi un ausiliario potente, le aristocrazie di Genova, di Venezia e il re di Sardegna si sarebbero strette attorno all’Austria con legami indissolubili, spinte dalla necessità di garantire la propria esistenza interna contro le idee democratiche e popolari. Venezia, che da un secolo non aveva alcuna influenza nell’equilibrio europeo, illuminata ormai dall’esperienza e dal pericolo che aveva appena corso, avrebbe avuto energie, tesori ed eserciti sufficienti per rafforzare l’imperatore e comprimere le idee di libertà e d’indipendenza della terraferma.
Cosa voleva dire l’ex imperatore? Intendeva far credere ai posteri che era stato costretto ad eliminare il governo dei patrizi veneziani perché, se esso fosse sopravvissuto alla Campagna d’Italia e si fosse rafforzato, avrebbe sconfitto la diffusione delle idee democratiche e fornito un notevole appoggio all’Austria? Voleva far credere che la cessione di quegli stessi territori a uno straniero destinato a non essere sopportato dalla popolazione locale, e già depredati di molte ricchezze, avrebbe avvantaggiato la Francia?
Sono parole che servono solo a nascondere il patto che già esisteva con gli Asburgo.
Davanti alle macchinazioni di Napoleone, il governo veneto – in cui erano infiltrati parecchi collaborazionisti, pronti a trarre vantaggio dal mutamento politico – non prese alcuna posizione netta verso i francesi, facilitando il compimento del piano dell’invasore: “La signoria di Venezia” recitano le memorie:
“Si sottrasse a qualsiasi proposta di alleanza, e lasciò trapelare una tale cattiva volontà che fu necessario mettersi in guardia; questo non solo privò l’armata del contingente veneziano, ma costrinse a lasciare 10000 uomini in riserva sull’Adige per assicurare le spalle e sorvegliare il malanimo dell’oligarchia veneziana”.
Ciò che Napoleone – insieme a tutta la storiografia francofila – vuole occultare è il fatto che i malanimi e i malumori diffusi nella Terraferma veneta non erano tanto quelli degli “oligarchi”, bensì del popolo, che infine insorse in diverse province senza alcun appoggio da parte del governo della morente Serenissima:
“A Venezia si sfoggiava una coccarda insurrezionale [ossia una coccarda con gli antichi colori storici del popolo veneto: il giallo e l’azzurro], e il ministro inglese la portava trionfante; il leone di San Marco sventolava sulla sua gondola. Quel ministro godeva di grande influenza”.
Ma anche le insorgenze furono un elemento utile a Napoleone, che le provocò esasperando la popolazione con i furti e le ruberie dei suoi soldati, al fine di mettere il governo veneto alle strette e costringerlo ad autoestinguersi.
Il destino di Venezia nelle Memorie di Napoleone
Ai “Preliminari della pace di Leoben”, in cui il destino di Venezia era già palese, Bonaparte non dedica che poche frasi.
Nelle pagine successive viene esaltata la scontentezza della nobiltà di Terraferma, esclusa dalla vita politica di alto livello, e tale malcontento viene associato a quello della plebe “composta da tre milioni di individui, sparsi attorno a Venezia, in zone ricche e in fertilissime pianure”, contraddicendo la realtà fattuale che vide i francesi aggrediti ferocemente dai popolani in diverse città e tramite moti completamente svincolati da ogni pressione da parte del timoroso patriziato.
Il nobile veneziano Francesco Battaglia, in questo contesto, fu il più utile collaboratore di Napoleone; egli cedette a ogni richiesta francese e preparò il terreno per fornire la condizione necessaria per il compimento del traffico di Campoformio: la fine del governo legittimo.
L’Austria, ponendosi a livello internazionale come il maggior difensore della legittimità, non avrebbe mai accettato di avere Venezia senza il suicidio del suo governo. Occorreva che il governo veneto legittimo si annientasse da se medesimo, rendendo impossibile anche solo il pensiero di una restaurazione dopo la sconfitta della Francia rivoluzionaria.
Solo due episodi di resistenza popolare sfuggirono alle previsioni di Napoleone: la rivolta delle Pasque Veronesi, scoppiata il 17 aprile 1797, che portò alla morte di centinaia di soldati d’oltralpe, e l’affondamento del brigantino Libérateur de l’Italie da parte delle batterie del Lido, comandate dall’ufficiale veneto Domenico Pizzamano (1748-1817). Se la Repubblica Veneta avesse tenuto sin da principio una politica di neutralità armata, essa avrebbe potuto opporre una fiera resistenza ai francesi, e se infine fosse stata sconfitta, in seguito sarebbe stata restaurata, riconosciuta come stato vincitore e premiata. Ma tanto i popolani veronesi, bergamaschi e bresciani, quanto il Pizzamano, furono abbandonati dal governo veneto, che rimase immobile. Così, nessuna insorgenza o fatto d’armi imprevisto riuscì realmente a turbare i piani di Napoleone, a cui in un certo senso si possono riadattare senza problemi alcune celebri parole di Mussolini:
“Ho bisogno soltanto di qualche centinaio [il Duce disse “alcune migliaia”] di morti per potermi sedere da ex-belligerante al tavolo delle trattative”.
Bonaparte poté giovarsi della morte del “giovane e interessante Lugier, luogotenente di vascello” che guidava Le Libértateur de l’Italie per minacciare il governo aristocratico veneto e costringerlo a cedere ogni potere a una municipalità democratica provvisoria (di cui l’Austria si sarebbe annessa il territorio senza alcun problema).
Vincenzo Dandolo (1758-1819) – a detta di Napoleone – “onestissimo, avvocato fra i più prestigiosi” che fu alla guida della municipalità veneziana, fu tanto “onesto” ed entusiasta che si lasciò gabbare da chi aveva già venduto Venezia agli Asburgo.
Dell’ultimo Doge, Lodovico Manin (1726-1802), morto di morte naturale anni dopo il 1797, Napoleone al tempo della stesura delle memorie non ricordava nemmeno il destino, di cui fornì una versione non veritiera:
“Il doge Manin cadde colpito a morte mentre prestava giuramento all’Austria nelle mani di Morosini, diventato commissario dell’imperatore”.
Mentre al collaborazionista Battaglia, che tanto operò in favore dei francesi, le memorie di Bonaparte – come ricompensa – cercano di migliorare la nomea:
“Battaglia rimpianse sinceramente la perdita della propria patria; biasimando da molto tempo la linea seguita dal Senato, aveva fin troppo previsto quella catastrofe. Morì, qualche tempo dopo, rimpianto dalla gente perbene. Se lo si fosse ascoltato, Venezia sarebbe stata salva”.
Magari ci fossero stati forniti dalle memorie il luogo, le circostanze e la data esatta della morte di Battaglia, ad oggi sconosciute! Comunque, ciò che conta è che l’ultima frase citata – come si sarà inteso meditando sul presente articolo – è una bugia conclamata: Venezia era già stata venduta, bisognava solo risolvere alcune criticità.
Basta andare ancora avanti con la lettura per intravedere anche nelle parole del corso qualche spiraglio di verità. L’acquisizione di Venezia da parte dell’Austria le avrebbe attirato odi interni ed esterni (come in effetti fu), risultando doppiamente vantaggiosa ai francesi per avere una pace nell’immediato e indebolire gli Asburgo nel prossimo futuro:
“La repubblica di Venezia era in tutto aristocratica; era di sommo interesse per i gabinetti di Saint-James e di San Pietroburgo; la casa d’Austria, entrandone in possesso, avrebbe portato al culmine il loro malcontento e la loro gelosia. Il Senato di Venezia si era comportato assai male verso la Francia, e invece molto bene verso l’Austria. Che opinione avrebbero avuto i popoli della moralità del gabinetto di Vienna, quando lo avessero visto appropriarsi degli Stati del suo alleato, il più antico Stato dell’Europa moderna, quello che nutriva i princìpi più opposti alla democrazia e alle idee francesi, e tutto ciò senza motivo e solo a causa della sua convenienza! Che lezione per la Baviera e per le potenze di second’ordine!”
A questo punto, la questione dello scambio col Belgio è finalmente posta in maniera limpida:
“L’Austria sarebbe stata contenta, poiché, se avesse ceduto il Belgio e la Lombardia, avrebbe ricevuto qualcosa di equivalente, se non in termini di entrate e di popolazione, almeno dal punto di vista delle convenienze geografiche e commerciali; Venezia era contigua alla Stiria, alla Carinzia e all’Ungheria.”; “La corte di Vienna, stanca della sanguinosa lotta che sosteneva da diversi anni, non attribuiva nessuna importanza al Belgio, che non le era possibile difendere; era contenta, dopo tanti disastri, di ottenere delle indennità per le perdite subite, e di contrarre con la Repubblica francese dei legami che le avrebbero garantito vantaggi nella sistemazione delle questioni con la Germania”.
Ma Bonaparte sapeva anche che la dominazione straniera negli ex-Dominii Veneti si sarebbe rivelata una spinta per future ribellioni della popolazione locale:
“I diversi partiti che dividevano Venezia sarebbero scomparsi: aristocratici e democratici si sarebbero uniti contro lo scettro di una nazione straniera. Non c’era più da temere che un popolo dai costumi così dolci potesse mai affezionarsi a un governo tedesco, né che una grande città commerciale, potenza marittima da secoli, si legasse sinceramente a una monarchia estranea al mare e priva di colonie; e se mai fosse giunto il momento di creare una nazione italiana, quella cessione non sarebbe stata affatto un ostacolo: gli anni che i veneziani avrebbero passato sotto il giogo della casa d’Austria li avrebbero portati ad accogliere con entusiasmo un governo nazionale, quale che fosse, un po’ più o un po’ meno aristocratico, che la capitale fosse stata stabilita a Venezia oppure no”.
Dopo Campoformio, le province venete videro l’alternarsi di austriaci e francesi, ma infine, con la nascita del Lombardoveneto si avverarono le previsioni dell’ex-imperatore dei francesi: nei decenni a venire, la maggior parte dei veneti non rimase fedele agli austriaci e iniziò il processo risorgimentale, in cui anche i veneziani ebbero un ruolo importante. Dopo la rivoluzione del 1848, la ferita che separò i veneti dall’Austria fu insanabile e nel 1866 gli Asburgo persero la Venezia.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: La fine della Serenissima nelle memorie di Napoleone Bonaparte
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