Non ci sono pesci rossi nelle pozzanghere
- Autore: Marco Truzzi
- Categoria: Narrativa Italiana
- Anno di pubblicazione: 2011
“La morale di questa storia, invece, è che noi e i gagi non siamo capaci di sopportarci a vicenda. Probabilmente non arriveremo mai a convivere in modo tranquillo.” (Pag. 7)
Damian è un ragazzino vivace e intelligente di sette anni.
A quell’età i bambini italiani sono tutti a scuola, Damian invece a scuola non ha mai messo piede. Sarà necessario l’arrivo improvviso, a casa sua, dei carabinieri, a decretare l’ordine perentorio: il bambino da lunedì deve andare a scuola con tutti gli altri.
Damian è uno zingaro e vive con la sua famiglia in un accampamento a Correggio.
Gli zingari sono circa quindicimilioni di persone, di cui circa ottantamila risiedono in Italia.
Lo zingaro designa se stesso come Rom, almeno in Europa, oppure come Manus.
Sono d’origine indiana (manus deriva direttamente dal sanscrito) e vuol dire “uomo” e più esattamente “uomo libero”. Per lo zingaro ogni persona non appartenente alla sua razza è un gagio. La parola zingaro è certamente la migliore per indicare le varie comunità, perché non si presta a confusione e abbraccia tutti gli appellativi dei gruppi.
François De Vaux De Foletier in Mille anni di storia degli zingari (Jaca Book, 1977), conferma una discendenza indiana degli zingari, perchè
“La lingua zingara o romani è una lingua della famiglia detta indoeuropea. Per il vocabolario e la grammatica si collega al sanscrito (come l’italiano al latino). Facendo parte di un gruppo di lingue indiane, è strettamente imparentata con lingue vive quali il hindi, il mahrati, il guzurati, il kashmiri.” (Pag. 34).
Partiti dall’India, per arrivare in Europa, sono stati sicuramente costretti a un viaggio lunghissimo, probabilmente seguendo le vie del lavoro, come succede adesso agli extracomunitari.
Con l’apparizione dei carabinieri, la scuola elementare di Correggio ha un alunno in più.
Inizia così il romanzo di formazione di un bambino zingaro.
Damian si dimostrerà un ragazzo intelligente. Riuscirà a emergere sia a scuola sia con una ragazza gagia, di cui s’innamora, convivendo per un breve periodo.
Ma il tragitto di questi momenti della vita giovanile è impervio di difficoltà, i problemi da affrontare sono molti, fino a una conclusione disarmante.
Nella noia della cultura italiana, avvicinarmi a un libro su quest’argomento mi ha spaventato.
Una materia del genere, nel main stream del pensiero conformista degli scrittori italiani, è come un estintore nelle mani di Er Pelliccia.
L’esitazione con cui mi accosto al libro Non ci sono pesci rossi nelle pozzanghere, (Instar Libri, 2011) si dilegua all’istante grazie alle capacità linguistiche dello scrittore Marco Truzzi.
Alla sua opera prima è decisamente bravo, non si nasconde dietro perbenismi e luoghi comuni, usando un linguaggio intelligente, brioso e ironico.
La scrittura in prima persona gli consente di abbandonare ogni forma di moralismo, escludendo anche la lagna “del mondo brutto e cattivo”.
Gli zingari del campo diventano parte primaria del mondo. Un loro piccolo mondo, un esempio speciale di comunità, di fratellanza, di società con regole da rispettare e una propria, efficiente, giustizia.
Questo piccolo ambiente è uno spaccato di vita, problematico, a volte troppo chiuso nella loro distinzione sociale. E’ il nonno di Damian, Roman, a recitare il refrain dell’infelicità dei gagi rispetto all’orgogliosa e gioiosa vita degli zingari:
“Loro hanno il potere, ma non sanno nulla della felicità della vita. Ecco chi potrebbe davvero essere una persona importante, come dici te: uno che riesce a spiegare ai gagi la felicità.” (Pag. 77)
Nonno Roman rappresenta la saggezza dell’albero genealogico; le sue mani contengono l’esoterico segreto della famiglia. E’ la sua morale a modellare il giovane Damian, lui conosce la vita perché ha vissuto per il mondo, apprendendo con intelligenza le differenze e le unioni della gente.
Il nonno racconta due parti della storia – distaccandosi dal filo principale di conduzione del nipote – perché loro due, rappresentano il nodo di unione di un esclusivo legame. Il nonno ci parla della famiglia, essenziale fulcro della vita del campo, senza la quale, senza il rispetto della tradizione e degli anziani tutto sarebbe inutile. La famiglia nella consuetudine degli zingari mai si separa. Nei periodi di guerra le donne e i bambini si accampavano nelle vicinanze della caserma, dove alloggiavano i mariti-soldati.
La morale del nonno sarà vincente, anche sé avverte un riverbero di cambiamento nel futuro.
L’ironia di Marco Truzzi è accattivante, seducente.
Gli zingari stanno bruciando, come di abitudine, il caravan di un morto ma per impreviste e imponderabili comportamenti, l’incendio divamperà in tutto il campo, eccetto il caravan del defunto.
Ma Truzzi non ci concede tregua e utilizza un linguaggio moderno per confrontarsi con la realtà. Non vuole nascondere, ma neppure demonizzare.
Notare l’ironia della frase:
“… i furti (che ci sono sempre quando arriviamo noi, perché c’è sempre chi si diverte ad andare a ciorel).” (Pag. 167)
Il gioco retorico è evidente, l’ossimoro spietato: furti è pendant con diverte.
Oppure:
“… Il padrone di casa in quel momento lì, quando ci sono andato con mio padre… non era nella sua casa.” (Pag. 29)
Qui è la casualità a prevalere; il padrone di casa era ‘’accidentalmente’’ assente nel momento in cui loro entravano. Può succedere.
Questa è la bravura di questo giovane scrittore. Con il suo stile non scivola mai nel patetico, nel piagnisteo, nell’autoreferenzialità, come sarebbe stata menata dai cultori del sociale da salotto.
Aggiungiamo dei lunghi paragrafi; tutto il soffio vitale della storia deve avvenire di corsa, non c’è tempo per pensare, bisogna essere al passo del tempo.
Il dialogo fra gagi e zingari diventa un piano di lavoro.
Il confronto è sempre acceso: il vestito rosso del primo giorno di scuola di Damian non può lasciare indifferenti nessuno.
Nel momento di condivisione sentimentale con la gagia Elisa, sarà lei ad accompagnarlo alla riflessione:
«… secondo me vi sbagliate a dividere tutto in gagi e non gagi. » (Pag. 131)
A lasciarmi perplesso è un finale pesante.
L’arrivo dello “spirito” di Tondelli rappresenta uno di quegli elementi alla moda che lo scrittore, fino a quel momento, aveva argutamente evitato.
Così come il piagnucoloso scontro fra Damian e Enrico. Quelle lacrime di entrambi i ragazzi rompono momentaneamente la magia di tutto il racconto. Era meglio se lo ammazzava.
Ci aggiungo il disastroso incontro-scontro di un parente di Damian con Mussolini. Tutto l’episodio della seconda guerra mondiale vorrebbe confermare una partecipazione degli zingari alla resistenza. Ma non serve; la resistenza fu una guerra civile anticlassista e popolare per antonomasia.
Damian reagisce, ma è tutto un mondo a cambiare.
L’ambiente dei gitani, a volte problematico, ma unito, sta forse smarrendo alcuni valori. A svanire non è solo il fascino romantico, descritto da Miguel de Cervantes nella La gitanilla, ma tutto un ambiente sottoposto a un profondo scontro sociale.
Nella catena dell’accettazione sociale gli zingari sono passati di livello.
Damian entrando in un campo a Milano è aggredito da persone, non zingari, di cui pure lui a paura. Allora si accorge di un cambiamento spaventoso. Altri si sono aggiunti nei sobborghi sovraccarichi di emarginati. Ma quando sono arrivati?
Extracomunitari, sbandati, drogati, spacciatori stanno crescendo nelle periferie, occupando anche spazi appartenuti a loro.
“C’è gente nuova nel campo …” (Pag. 209) è il commento di Damian. Affermazione preoccupante, perché altri potrebbero essere arrivati formando l’ultimo anello della vita sociale.
Elemento di distinzione è la presenza della droga, mai apparsa prima nei loro campi, mai diffusa, compresa come una distruzione umana.
Con questi cambiamenti pericolosi, con un mondo omologante quale futuro si può prospettare per Damian e per gli zingari?
Pure il ragazzo – dopo una lunga appartenenza al mondo dei gagi, fuori dal campo – afferma l’impossibilità di confrontarsi pacificamente.
Da aggirare – e Marco Truzzi lo fa con passione – è l’annullamento di una cultura, una passiva rassegnazione con la quale l’eliminazione sarebbe una certezza-.
Non deve succedere e forse non succederà se la genealogia è propagandata e conservata da generazione a generazione.
“… non siamo gente senza memoria. Siamo gente senza terra … Siamo zingari.” (Pag. 225)
Un problema è quello del lavoro, abilmente svolti nel tempo dagli zingari, di cui François De Vaux De Foletier ci parla: suonatori, fabbri, ballerini, ma furono anche degli abili soldati. Ora trovare uno spazio sociale implica praticare dei mestieri in grado di conservarsi nel tempo.
Bisogna mantenere, pure, quell’abilità di camuffamento nella società. Una dote innegabile. Nella religione questa destrezza appare nella sua totalità. Gli zingari si adattano: cristiani nei paesi cristiani, musulmani nei paesi musulmani. Se sono arrivati dall’India, è indiscutibile che la loro religione, i loro Dei sono rimasti nel paese d’origine.
Il problema della religione è affrontato dal padre nel momento della scelta di partecipare all’ora di religione per il figlio. Deve firmare o no l’esonero? Perché dovrebbe farlo?
Cancellare una cultura, un mondo, è un momento negativo per tutti. Per salvarsi e mantenersi vivi, lo sforzo spetta a ciascuno di noi, senza distinzioni.
Sono gli zingari costretti a lottare per mantenere il loro spazio, la loro diversità come elemento culturale e sociale. Quella comunità forte e aperta deve essere un esempio e la sua cancellazione non creerà un mondo migliore.
Bisogna evitare l’elemento pedagogico, quell’insano desiderio di adeguarsi al pensiero principale e alla sua pratica. Il pericolo dell’ipocrisia e l’appiattimento della scuola, da cui Damian era tenuto – giustamente – escluso, è un pericolo permanente.
Il suo tutore privato era il nonno, la sua scomparsa potrebbe annientare secoli di cultura, la sua purezza filosofica detterà i passi successivi della vita:
«Tu sei e rimarrai uno di noi. Non è quel diploma che cambierà le cose…» (Pag. 124)
Quella cultura nomade, quel desiderio o necessità di muoversi continuamente è ricordato dal nonno Roman con nostalgia. Il suo ammonimento è un altro segnale di attenzione massima:
«… è che noi dobbiamo spostarci, abbiamo bisogno di spostarci, non ne possiamo fare a meno, e non abbiamo nulla perché quando ti sposti meno roba hai meglio è. Ma se ti sposti non hai padroni e non avere padroni è la cosa più vicina a quella che i gagi chiamano libertà e che loro non hanno perché non si spostano.» (Pag. 72)
Certo il nonno afferma, ancora una volta, l’incomunicabilità fra i due mondi. Ma predica, anche, un assioma compreso da tutti. Se non fosse vero come potremmo giustificare il sogno di tanta letteratura, di tanto cinema on the road?
La libertà dello spostarsi, del viaggiare e pure del fuggire, è un principio, una verità imprescindibile cui i gagi hanno ignobilmente rinunciato scambiando benessere, agiatezza, comodità con la libertà.
Non ci sono pesci rossi nelle pozzanghere
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