Ore perse. Vivere a sedici anni
- Autore: Caterina Saviane
- Genere: Storie vere
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Feltrinelli
Caterina Saviane, figlia del famoso scrittore giornalista, ha dato alla stampa a soli 16 anni un diario personale intitolato Ore perse. Vivere a sedici anni (Feltrinelli, 1978). In esso, con sagace ironia finanche sarcastica, presenta i patemi adolescenziali di una ragazza che si capisce possedere un alto livello culturale e filosofico che, assieme a un’acuta e intelligente capacità analitica, le produce una profonda e solitaria sofferenza interiore che non riesce a condividere né coi coetanei, né coi genitori.
"Guardo la strada immobile che libera tremuli miraggi nell’aria. Il caldo schifoso ci invischia nella sua bava da lumaca, mi sento appiccicosa e tutto mi indispone verso il prossimo. Questi volti sono i miei contemporanei, questi volti annebbiati vivono lo stesso anno che vivo io. Anno disgraziato. La luce si scalda sull’asfalto e con questo cielo bianco mi sembra di dover morire come un gabbiano senza meta e senza ali."
"Mentre camminiamo lungo l’imbarazzo della vita, con gli occhi ci domandiamo un milione di cose che forse capiamo meglio, anzi troppo, senza parlare affatto. Sogniamo insieme la nostra autonomia, pronunciamo con riguardo e quasi con terrore la parola libertà; poi ci appoggiamo l’uno sulla spalla dell’altra e piangiamo sulle nostre illusioni, sulla nostra impotenza ad esprimere un pensiero senza mistificarlo con la voce."
Del padre scrittore giornalista (“testa grigia da giornalista sbalestrato”) dice che è “un prodotto della stampa”, “anche lui galeotto della macchina da scrivere” come Caterina, che ci propone un diario dei suoi 16 anni che corrispondono anagraficamente all’adolescenza, come adolescenziali sono i tempi affrontati: l’amore, l’affetto, i rapporti, le relazioni, l’identità, l’autonomia, l’indipendenza, la coerenza politica, la consapevolezza sociale e la coerenza.
Nel suo vivere peregrino senza terra tra Roma, Marciana (Isola d’Elba), Numea e Parigi sembra alla ricerca del proprio posto nel mondo, senza riuscire a trovarlo dentro di sé. La sua socialità, più che socievolezza, appare essere un disperato bisogno di nutrirsi di altro per non soffocare nei propri pensieri.
La scrittura è una scelta catartica che, tuttavia, non sembra riuscire ad appagare tale attesa. Per lei (“stanca crisalide appannata”, “malata immaginaria della vita”), la macchina da scrivere (“la mia macchinetta dal battito cardiaco stonato”) è “indifferente a tutte le cose che le domando da tanto tempo”, infatti
“Tutto ciò che penso, è la poesia mortale che sento dentro. Non capisco se scrivere sia una droga, una tortura, od una eterna confusione”.
Caterina esprime un profondo senso di estraneazione confusivo e liberatorio nel contempo.
"I pensieri continuano a rimbalzare fra il cielo e il mio cervello, si rincorrono esausti in pazzi ghirigori e non so più se sono miei o degli altri. A volte ho la sensazione che mi stiano abbandonando per sfaldarsi altrove. Magari mi abbandonassero per un minuto solo. Li sento annaspare e annegare tra la strada e il cielo, senza la possibilità di salvarne neppure uno."
L’impressione è di una nostalgia evoluta dall’infanzia, che si è fatta nel tempo sempre più famelica e consapevole, quindi più dolorosa.
"Dentro l’inchiostro di quelle parole da bambina c’era già un’accusa, un’accusa precisa e importante allora, avere qualcosa da mangiare alle quattro. E ancora adesso mi è rimasto il complesso della nutella e delle patatine fritte, che mio pace non mi faceva mai mangiare perché diceva che sono fatte con il petrolio. Ora non chiedo la merenda, ma qualcosa di meno preciso, qualcosa di più difficile: affetto, unione, famiglia? Comunque è finito anche il tempo di questo. Ora devo costruire la mia vita che sembra una nutella e cercare di convivere nella maniera meno peggiore."
Una nostalgia che non trova soddisfazione nella situazione famigliare segnata dalla separazione coniugale e del frazionamento famigliare con Caterina che vive col padre e la sorella maggiore che abita con la madre. Certo, si incontrano regolarmente, ma non c’è comunicazione, solo una vicinanza senza condivisione; non c’è nemmeno più tempo né occasione per cambiare le cose per Caterina, i cui umori oscillano tra la voglia di vivere, di cambiare il mondo, e la rinuncia a una vita di cui non sembra sapere molto cosa farsene (“Dedico sempre alcune serate al mese per le tristezze, i suicidi, i sangui e le morti”; “Io avrò pure qualcuno da amare. Altrimenti perché sarei venuta al mondo?”).
Questo libro, più che un’opera narrativa, propone una testimonianza profonda e intelligente con acume e lucidità talmente tagliente da sgomentare. Provoca col suo male di vivere e fa riflettere. Fa riflettere sul fatto che la maturità mentale, anche intellettuale, può svilupparsi più rapidamente di quella biologica, di quella del corpo, e che ciò causa sofferenza, come una crisalide già divenuta farfalla in un bozzolo non ancora maturo per renderle la vita, togliendole così l’occasione e la conferma della sua maturità, quasi disconfermando la sua identità.
Ore perse. Vivere a sedici anni, edito nel 1978 nella collana Franchinarratori di Feltrinelli, ha incontrato un grande successo di pubblico e di critica: è stato stampato in cinque edizioni in un anno e tradotto all’estero di diverse lingue, per poi scomparire, come un temporale primaverile.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Ore perse. Vivere a sedici anni
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