Per capire il termine pleonastico, cosa significa e quando si usa, dobbiamo rivolgerci al vocabolario della lingua italiana e indagare l’etimologia di questo aggettivo e del nome da cui deriva, entrambi di origine greca.
Anche la letteratura e la retorica possono fornirci un valido aiuto per capire cosa significa pelonastico e quando si usa: il termine, infatti, appartiene all’italiano colto, e il pleonasmo è anche una figura retorica utilizzata spesso per creare un particolare effetto nei testi poetici e in prosa.
Dal punto di vista grammaticale pleonastico [ple-o-nà-sti-co] è un aggettivo che deriva dal greco pleonastikós, a sua volta derivato da pleonasmós (πλεονασμóς), da cui l’italiano pleonasmo, che significa propriamente eccesso, sovrabbondanza.
Pleonastico: cosa significa
Per intendere l’aggettivo pleonastico possiamo ricorrere ad alcuni dei suoi più comuni sinonimi, quali: ridondante, inutile, superfluo, non necessario, eccedente e, per estensione, anche ovvio, scontato. Possono essere considerati, invece, suoi contrari, aggettivi quali: essenziale, indispensabile, necessario o utile.
Per quanto riguarda la storia della lingua occorre ricordare che il sostantivo pleonasmo e l’aggettivo pleonastico sono attestati nell’italiano scritto già dalla prima metà del Cinquecento. Si tratta di parole colte che, attraverso il latino tardo pleonasmu(m), recuperano il greco antico pleonasmós, un sostantivo che indica eccesso e sovrabbondanza, a sua volta derivato dal verbo pleonázo sovrabbondare. Nell’italiano scritto l’aggettivo pleonastico inizia a comparire a partire dalla seconda metà dell’Ottocento.
Il contesto in cui si utilizza più frequentemente il termine pleonastico è quello grammaticale e linguistico: quando si parla di pleonasmo e, quindi, di termini pleonastici, si allude a parole che nel contesto grammaticale o concettuale sono sovrabbondanti anche se non necessariamente erronee. Spesso presenti nel linguaggio colloquiale e famigliare, i termini pleonastici, seppur non strettamente necessari alla comprensione dell’enunciato non costituiscono, generalmente, una violazione palese delle regole grammaticali. Facciamo qualche esempio tratto dal linguaggio corrente, per chiarire:
- entrare dentro = in questa espressione l’avverbio dentro è pleonastico;
- uscire fuori = in questa espressione l’avverbio fuori è pleonastico;
- a me mi piacerebbe tanto un gelato = a me (o, alternativamente, mi) è plenastico, dal momento che nella frase considerata il complemento di termine viene espresso per due volte, in due modi differenti;
Consideriamo, poi, quest’altro, celebre esempio, tratto da un verso del “Canzoniere” di Francesco Petrarca:
“di me medesmo meco mi vergogno”
Pleonastico: quando si usa?
Se riflettiamo su ciascuno degli esempi precedenti è facile comprendere come una delle funzioni di un costrutto pleonastico o di un pleonasmo è il potenziamento espressivo di una frase. In questa accezione troviamo casi di pleonasmo in scambi accesi di battute orali ma anche in romanzi che utilizzano come proprio registro espressivo l’italiano colloquiale, dialettale o, comunque vicino al parlato.
Nell’italiano corrente l’aggettivo pleonastico viene usato da parlanti con una cultura medio-alta per definire espressioni, atti e comportamenti di cui si può fare a meno, azioni che, quindi, si ritengono inutili superflue, non necessarie. Consideriamo i seguenti esempi:
- le tue argomentazioni sono pleonastiche;
- a questo punto, il tuo contributo sarebbe pleonastico;
- la tua è una puntualizzazione pleonastica;
- Questa parte dell’elaborato è pleonastica, meglio eliminarla;
La figura retorica del pleonasmo
Il pleonasmo è anche una specifica figura grammaticale o retorica, utilizzabile per enfatizzare un enunciato. Particolarmente amata da Alessandro Manzoni e Cesare Pavese, il pleonasmo consente di dare alla frase maggiore intensità, forza, chiarezza, efficacia o eleganza.
Propria di un registro alto o aulico, la fugura retorica del pleonasmo, come già intuibile da quanto detto sopra, si realizza attraverso l’aggiunta di ulteriori elementi grammaticali o esplicativi, di per sé non necessari, a espressioni già compiute dal punto di vista informativo e sintattico. Ciò permette di ottenere un effetto di ridondanza ma anche maggiore intensità comunicativa e, quindi, una frase più efficace, più forte.
Consideriamo i seguenti esempi tratti dal linguaggio comune
“non mi importa” → “non me ne importa nulla di questa storia!”
“Vorrei un po’ di coccole” → “Un po’ di coccole penso di meritarmele anch’io!”.
E i seguenti altri esempi tratti dalla storia della letteratura:
“Si voltò poi a don Abbondio, e gli disse: «Signor curato, se mai desiderasse di portar lassù qualche libro, per passare il tempo, da pover’uomo posso servirla (…) ma però»” (Alessandro Manzoni, “Promessi sposi”, XXIX)
“Io il mare l’ho sempre immaginato come un cielo sereno visto dietro dell’acqua” (Cesare Pavese, “Feria d’agosto”)
Tra gli elementi grammaticali che contribuiscono maggiormente a determinare un pleonasmo segnaliamo: avverbi (vedi sopra: dentro, fuori, ecc.), pronomi personali impliciti o espliciti (vedi sopra: a me, mi, ecc.), particelle pronominali (vedi sopra: ne), vocativi (vedi sopra: Signor curato), periodi ipotetici e locuzioni che richiamano l’immaginazione (vedi sopra: se mai desiderasse, l’ho sempre immaginato, ecc.).
Occorre, infine, ricordare, che il pleonasmo si utilizza spesso anche nelle recitazioni umoristiche, dove l’autore del testo teatrale, pensando alla resa scenica del testo, sente spesso il bisogno di sottolineare un particolare sentimento o stato d’animo, o anche una situazione o una singola affermazione.
Nel linguaggio formale scritto, in comunicazioni di carattere lavorativo come i testi delle mail, le comunicazioni interne a un’azienda o i messaggi inviati a un cliente è consigliabile, invece, evitare i pleonasmi e tentare di realizzare una comunicazione essenziale che, a discapito dell’eleganza, riesca però ad essere soprattutto chiara ed efficiente.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Pleonastico: cosa significa e quando si usa?
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