Il girasole impazzito di luce, nessuno come Eugenio Montale è riuscito a donare una più perfetta descrizione di questo fiore che sembra trattenere in sé, nella sua rotonda corolla, lo splendore e la lucentezza del sole.
La celebre poesia di Montale, Portami il girasole, si collega direttamente all’etimologia del nome della pianta, Helianthus annuus, una combinazione delle parole greche “helios” (sole) e “anthos” (fiore), dunque “il fiore del sole” che la leggenda lega al mito di Clizia, la ninfa che si innamorò perdutamente di Apollo, il dio che traina il carro del sole scortando ogni mattina l’astro ardente al centro della volta celeste. Clizia era anche il significativo senhal della donna amata da Montale, Irma Brandeis, cui questa poesia dal valore fortemente allegorico sembra destinata. C’è chi sospetta che in realtà la lirica non abbia un vero dedicatario, ma che il poeta stia parlando a sé stesso, esortandosi a sperimentare una felicità possibile ignorando il proprio “male di vivere”. Montale, stando alla datazione, non aveva ancora incontrato Irma Brandeis quando scrisse questo componimento; eppure il girasole sembra in un certo senso prefigurare l’avvento della donna, una sorta di presagio.
Come vedremo nell’analisi il simbolo del girasole è una costante nella poesia montaliana, dai primi componimenti sino all’apoteosi raggiunta ne La Bufera e altro (1956) in cui il fiore diventa tutt’uno con la figura di Clizia.
In ogni caso questa poesia, contenuta in Ossi di seppia, sprigiona un autentico concentrato di energia in un crescendo che esplode nel finale e nella visione luminosa del fiore che riflette la luce, la vivacità, la vita quale “essenza”.
Scopriamone testo, analisi e chi era la Clizia di Montale.
“Portami il girasole” di Eugenio Montale: testo
Portami il girasole ch’io lo trapianti
nel mio terreno bruciato dal salino,
e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti
del cielo l’ansietà del suo volto giallino.Tendono alla chiarità le cose oscure,
si esauriscono i corpi in un fluire
di tinte: queste in musiche. Svanire
è dunque la ventura delle venture.Portami tu la pianta che conduce
dove sorgono bionde trasparenze
e vapora la vita quale essenza;
portami il girasole impazzito di luce.
“Portami il girasole” di Eugenio Montale: analisi e commento
Una poesia dall’orchestrazione perfetta, non solo Montale ci fa “vedere” il girasole, ma ci fa sentire la sua energia, la sua vitalità, ci immerge nel significato profondo di questo fiore. Nella prima strofa ci offre una descrizione fisica del girasole, dal “volto giallino”, che si riflette nello specchio azzurro del cielo; ma in questa parte è anche palese la voce del poeta, l’ansia che è soltanto sua e certo non appartiene al sole, e quel “terreno bruciato dal salino” che allude a una condizione esistenziale, a una sorta di aridità interiore. Montale cerca di sfuggire al proprio male di vivere e trasforma il fiore del sole nel correlativo oggettivo della felicità stessa.
Nella seconda strofa prende il sopravvento il Montale metafisico, l’indagatore dei contrasti, colui che cerca il varco (il varco è qui?), il “punto rotto della rete” e la “catena che non tiene”; per rendere efficace la sua ricerca, l’autore si serve del campo semantico della luce, “chiarità” e “oscurità” sono i termini dominanti intrecciati in un ben riuscito chiasmo, nella sottigliezza delle sfumature si giostra il confine misterioso tra morte e vita. Il girasole di Montale non è poi molto diverso dai gialli alberi dei limoni, descritti come le “trombe d’oro della solarità”. Con un identico procedimento utilizzato anche nella sua dichiarazione di poetica (I limoni, Ndr), l’autore pone nel finale la climax e dunque l’epifania della sua visione.
“Svanire è dunque la ventura delle venture”
Così osserva Montale nella frase più cupa ed enigmatica del componimento: intende dirci, con un’epigrafe quasi catulliana, che solo la morte ci rivelerà il senso della vita, schiarendo le ombre e rivelando la luce. In sottofondo sembra echeggiare una musica, i colori - che con la loro vividezza costituiscono la trama stessa della lirica - si annullano in suoni, con un’efficace sinestesia il poeta riproduce il movimento spirituale dell’essere. La luminosità accecante, lo splendore, appare dunque come il fine ultimo: è questo ciò che insegna al poeta il fiore che insegue il sole. Il girasole ci svela l’essenza della vita, che è luce e non è buio.
Rimane, tuttavia, da indagare il mistero di quel “tu” che nel finale si fa eloquente e viene a designare una sorta di invocazione, un imperativo: “portami tu”. Chi è il vero dedicatario della poesia? Alcuni critici vi individuano Montale stesso, affermando che si tratta di un’autoesortazione del poeta alla felicità, una sorta di invocazione o di preghiera. Non ci sfugge tuttavia che il girasole di Montale ha le sembianze di donna, una specie di donna angelicata sul modello dello Stilnovo, una musa salvifica che prefigura un luminoso paradiso celeste, non poi molto distante dall’Empireo dantesco. Tutto ciò ci riconduce a colei che fu la nuova Beatrice di Montale, ovvero Irma Brandeis celata dall’enigmatico nom de plume Clizia, la ninfa che nella metamorfosi ovidiana viene trasformata in un girasole per non distogliere mai lo sguardo dal suo amato. Tuttavia si potrebbe obiettare che l’incontro del poeta con Irma Brandeis fu successivo alla composizione della poesia: la raccolta Ossi di seppia fu pubblicata da Piero Gobetti nel 1925, mentre Montale conobbe Irma nel 1933. Può una poesia anticipare un incontro avvenuto nella vita vera? Forse, alla fine, il poeta aveva trovato il suo girasole.
Montale e il mito di Clizia, il girasole di Ovidio
Clizia è nota per essere la dedicataria delle Occasioni di Montale, dietro quel nome di matrice ovidiana si celava Irma Brandeis, la giovane studiosa di Dante che il poeta conobbe a Firenze nel luglio del 1933. All’epoca Montale era direttore del prestigioso Gabinetto Viesseux e lei, innamorata della sua poesia, voleva assolutamente conoscerlo. Andò a bussare senza indugi e fu proprio lui ad aprirle la porta. Irma Brandeis era di origine ebraica e si era trasferita a New York per sfuggire alle persecuzioni razziali, si trovava momentaneamente in Italia per ragioni di studio. Da quell’incontro nacque un carteggio amoroso durato ben sei anni, oltre 156 le lettere scambiate tra il 1933 e il 1939, e una relazione tormentata resa ancor più difficile dalla distanza. Infine Montale aveva incontrato il suo girasole. Diede a Irma il senhal di Clizia, la ninfa narrata nel IV libro delle Metamorfosi di Ovidio, colei che - impazzita d’amore per il dio Apollo - iniziò a deperire rifiutando di nutrirsi finché il Dio impietosito dalla costanza della sua fedeltà amorosa la trasformò in un fiore, il girasole, cosicché potesse seguire per sempre con lo sguardo il suo viaggio a bordo del carro del sole. Il nome Clizia deriva dal greco e letteralmente significa “colei che si inclina”, riflettendo il movimento del girasole che con la sua corolla segue la luce del sole proprio come uno sguardo che serba amore.
Le poesie che Montale dedicò a Irma Brandeis erano intessute di influenze dantesche, come si evince dalla dedica alla Primavera Hitleriana in cui fa riferimento a “Quella ch’a veder lo sol si gira”. Sempre in quella poesia, contenuta ne La bufera e altro (1956), si cela l’addio di Montale alla sua musa salvifica, la novella Beatrice della sua poesia, ovvero Irma “dagli occhi azzurri”:
Guarda ancora in alto, Clizia, è la tua sorte, tu che il non mutato amor mutata serbi, fino a che il cieco sole che in te porti si abbàcini nell’Altro e si distrugga in Lui, per tutti.
Clizia, ovvero Irma Brandeis, viene invitata a riprodurre il movimento del girasole guardando in alto: lei, del resto, porta in sé un “cieco sole”. La metamorfosi montaliana è compiuta e sembra, in un certo senso, chiudere il ciclo di quella ovidiana narrata nel IV libro delle Metamorfosi: la sorte di Clizia è annullarsi nell’amore di Dio salvando il mondo intero dal presagio oscuro della guerra imminente. In quel il “non mutato amor mutata serbi” troviamo un riferimento dantesco, probabilmente un omaggio alla Brandeis studiosa di Dante, che ci permette di identificare Clizia con Beatrice e il suo trionfo nel Paradiso nella pienezza dell’amore divino. Nessuna parola è lasciata al caso e l’immagine di Clizia sembra essere il trionfo del “girasole impazzito di luce” che Montale aveva narrato in Ossi di seppia: infine quel fiore dunque gli era stato portato, insieme a una fugace felicità, non duratura.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Portami il girasole”: la poesia di Eugenio Montale che è presagio di Clizia
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