Quei giorni a Bucarest
- Autore: Stefan B. Rusu
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Playground
- Anno di pubblicazione: 2010
“Già, ed è per questo che la Romania è un paese senza speranza. Troppa gente ha tempo da perdere. Maschi, soprattutto.”(Pag. 10)
Alla fine degli anni ottanta, la Romania esce da decenni di comunismo. Nicolae Ceaușescu – il condottiero per quasi trenta anni – è stato fucilato nel 1989.
Liberato dal loro dittatore, la Romania si scopre piena di tante ferite ancora sanguinanti. Partì l’impegno per ricostruire un tessuto sociale evanescente, dei rapporti umani precedentemente basati sulla diffidenza e sulle delazione, concludere la fase delle vendette e rappresaglie.
Questa coraggiosa Romania ci è descritta da Stefan B. Rusu in Quei giorni a Bucarest (Playground, 2010). Il pretesto è una storia d’amore, contrastata, difficile, quasi impossibile.
Nicu lavora per un giornale universitario, convive con un ragazzo italiano, manager di una delle tante nostre ditte con produzione in Romania.
Nicu incontra Gabriel, ragazzo bellissimo, figlio di un professore universitario ebreo.
Fra loro scatta immediatamente il desiderio, ma il loro rapporto è problematico e contrastato sia da parte dell’italiano sia da parte della famiglia di Gabriel (la ripudia sociale è ovvia in un paese dove il conformismo ha portato alla disgrazia diverse generazioni).
Intorno ad essi ci sono i fili di tante vicende delicate e tenui: il teatro, il bacio, la storia del film “Dichiarazione d’amore”, popolare fra i giovani rumeni per il suo romanticismo.
Nel libro, c’è soprattutto la consapevolezza di vanificare ogni sforzo di ricostruzione: la sensazione di solitudine e di emarginazione all’interno del proprio paese è spietata, tutti vogliano scappare, Nicu spinge per andare in Italia.
Questo dramma dell’emigrazione è una piaga sociale, di cui in Italia osserviamo – con dannoso pietismo – solo la parte finale.
La Romania si sta spogliando delle persone migliori, di quelle disposte a lavorare. Molti villaggi sono oramai abitati solo da donne e bambini, depauperando e vanificando ogni desiderio di riconquista economica.
“Tu vuoi comprarti Nicu, come vi state comprando il nostro Paese.” (Pag. 91)
Il regista ribelle Ken Loach, in un film del 2007 presentato alla Mostra del cinema di Venezia It’s a free world, denunciò con passione la schiavitù e la tratta degli emigrati rumeni, ma in pochi compresero l’accusa contro il famigerato meccanismo dell’emigrazione.
Si catturano schiavi rumeni per lavorare in occidente. Il loro paese è affamato per la fuga della parte più produttiva della popolazione.
Il delirio avviene pure nel paese occidentale, perché i flussi alimentano una contesa fra lavoratori indigeni e stranieri, incrementando l’offerta di manodopera per tenere a livelli di indigenza i salari.
La storia d’amore di Nicu e Gabriel è la metafora di una Romania in costruzione, saccheggiata dalla cupidigia, e riprende con caparbietà il tema di Loach: quello dell’emigrazione forzata.
In Romania, per la coppia, gli ostacoli sono tanti, la ostilità della famiglia diventa violenta, però prevale l’impossibile.
La loro vittoria potrebbe essere un simbolo, un segno per il loro maltrattato paese, ma non è così.
L’happy ending è solo di facciata, in realtà la tristezza si impone: l’impossibile amore può manifestarsi solo fuori dalla Romania, ancora troppo distante la maturità di comprensione dei rumeni.
Il ricongiungimento dei due giovani avviene dopo il trasferimento a Parigi. L’unica soluzione la fuga, altrimenti sarebbero stati sconfitti.
Per i rumeni c’è possibilità solo all’estero?
Quante generazioni si devono disperdere nel mondo?
Il romanzo ha un andamento semplice, lineare e il linguaggio è proporzionale alla storia. Non ci sono punte massime, ma una tranquillità linguistica pure nei momenti più parossistici.
Alzare il tono e la voce non appartiene allo scrittore e ci consente una lettura calma e riflessiva.
Quei giorni a Bucarest. Nuova edizione
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