Mi piacciono le scelte radicali
La morte consapevole che si autoimpose Socrate
E la scomparsa misteriosa e unica di Majorana
La vita cinica ed interessante di Landolfi
Opposto, ma vicino a un monaco birmano
O la misantropia celeste in Benedetti Michelangeli
(Mesopotamia)
È una questione di sguardi sottili, di verità assolute declinate per sfumature, di fuggevoli prospettive Nevskij, come dichiarava lo stesso Franco Battiato:
“il mio maestro mi insegnò/ com’è difficile trovare/ l’alba dentro l’imbrunire”.
Sulla scorta di inquadrature ulteriori, in parziale contro-tendenza alla sua locazione nell’esclusivo ambito esoterico, di Battiato andrebbe parimenti rilevato il radicalismo. Un radicalismo ontologico (che, bene inteso, non ne elide lo slancio sapienziale) rintracciabile tanto nella cosiddetta “fase sperimentale”, quanto nell’iconoclastia pop della “svolta commerciale” (da L’era del cinghiale bianco a Mondi lontanissimi, per capirci). Prima della lunga collaborazione con Sgalambro e l’insistito concentrarsi su temi trascendenti (opzione radicale anche questa), c’era una volta il Battiato provocatore sui generis e già disalienato, discostato tanto dai diktat movimentisti degli anni Settanta, quanto dagli abbagli individualisti del decennio successivo.
Un sovvertitore a suo modo, capace di letture antropologiche, prima ancora che politiche, a guardare bene tra le più affilate del cantautorato dell’epoca: efficaci in quanto non precettistiche, antinomiche sia alla virulenza della ballata tazebao, sia alla didascalia della canzone comune.
Franco Battiato è stato dunque (cant)autore etico e civile: lo è stato dai tempi di Fetus e Pollution (1972) e in declinazioni talmente lucide da far sì che il successivo apporto di Sgalambro ai testi (dal 1995 in poi) risulti, delle volte, persino relativo. Per dirla in modo ulteriore: l’impronta denunciante, mistico-sufi, siculo-anglofona, saggio-citazionista di Franco Battiato nasce come compiuta in sé. L’ermetismo lessicale-musicale dei suoi primi dischi si (im)pone come passe-partout per la contestazione dello status quo: le “squallide figure che attraversano il paese” e la distrazione di massa operata dal potere al fine dell’auto-mantenimento (“ma il re del mondo/ ci tiene prigioniero il cuore”). Ciò che intendo dire è che l’intento morale-sociale di Franco Battiato si estrinseca ab origine: è già nel cantautore diogeniano del secondo e terzo periodo della sua carriera (il primo è consistito in 45 giri senza pretesa), fra i più radicali - pur senza il paravento ideologico-partitico - della scena cantautorale: Diogene cercava l’uomo vestito di una botte, il Battiato di allora, delle mise provocatorie e degli atteggiamenti di rottura.
Sparpagliato per album, video e memorabilia assortita, esiste insomma un Battiato uno e bino: il mistico e il radicale. Il cantautore che tra tastiere fluidissime e non-sense di superficie rappresenta - ieri come oggi - un must generazionale (“cer-co un cen-tro di gra- vi-tà per-ma-nen-te”, “sul ponte sventola bandiera bianca”, cuccuruccucùuu palomaaa). Un punto di riferimento imprescindibile, declinato in eco di memorie collettive e personali: Discoring, bandiere bianche, sandali e codini, arcipelaghi vicini e siderali, prospettive Nevskij, flussi di coscienza, libere associazioni. Al netto dei ricorrenti approdi metafisici, l’impronta apocalittico-sociale di Battiato è da assumersi come preveggente. Le diverse e perverse coniugazioni di un “mondo moribondo” (Clamori) trovano in lui un deciso monito e il pubblico ludibrio.
Credo che dal 1982 della canzone, le degradazioni dei consessi sociali planetari si siano peraltro accresciute in modo esponenziale; cascami del nulla ideologico che ci caratterizza. E del resto, già una decina di anni prima, il commento di Battiato ad Anafase - traccia inaugurale del lato B dell’avanguardista Fetus -, e a Pollution che ne rimarca la scia, è indicatore non solo della fissa sperimentale, del montaggio libero associativo di cui si caratterizza la sua scrittura, ma anche degli intenti “sociali” di cui è intriso sottotraccia il suo specifico.
“Aria sulla quarta corda di Bach qui gira a una velocità inferiore (…) quasi al rallentatore. Ci ho messo sopra le voci degli astronauti dell’Apollo 11 e di Nixon che dalla Terra li contatta (…) Nel secondo album (Pollution, ndr) un valzer di Strauss è usato ancora con la stessa tecnica di sovrapposizioni verticali. Sopra il valzer ci sono voci e risate di donne che restituiscono un’atmosfera di festa, e sopra recito un mio testo (…) A questo punto potresti domandarmi dove sta la parte del compositore dal momento che utilizzo interamente materiale non mio. La composizione è proprio la scelta del materiale, la consequenzialità, i ritmi, le pause: è un altro tipo di composizione”.
A rimarcare il concetto, si ascolta più avanti, nello stesso disco, un amalgama sonoro che annovera canti tibetani, Chopin (“suonato veramente male”), un recitativo (“da commedia all’italiana”), gente che parla e non dice niente (“l’impossibilità di comunicare, si sente un suono e basta”), canzone napoletana, marcia trionfale dell’Aida, pubblico vociante, discorso della regina Elena a Roma il giorno della consegna degli ori. In modo musicalmente più scorrevole possono spiegarsi allo stesso modo (cioè come impronta tipica battiatesca) le successive sovrapposizioni poetiche di Frammenti (Leopardi, Mercantini, Carducci, Pascoli, e lui stesso), “il mare nel cassetto”, “le mille bolle blu”, “l’ira funesta dei profughi afgani”, “le gesta erotiche di squaw pelle di luna”, e l’insistito citazionismo di altri brani a seguire.
L’alieno buono che ai Festival di Re Nudo (e simili) si dà da fare alla tastiera del suo VCS3 è insomma il progenitore capellone del rispettabile cantautore dei nostri giorni. Il suo esoterismo non ne ha mai fatto un asceta distaccato dal mondo. Un eversore sui generis, piuttosto. Antimarxista, gurdjieffiano, libero pensatore e liberoassociazionista, dunque ulteriormente fuori dal coro.
Inediti i focus trascendentali attraverso cui inquadra le discrasie di un’umanità in regresso: inetta, afasica, pacchiana, di superficie (“E non è colpa mia/ se esistono i carnefici/ se esiste l’imbecillità”, “L’uomo è l’animale più domestico e più stupido che c’è”). Un’umanità inconsapevole che Battiato costringerà peraltro a intonare le strofe che più ne celebrano la stolidità (“c’è chi si mette degli occhiali da sole/ per avere più carisma e sintomatico mistero (…) ho sentito degli spari in una via del centro/ quante stupide galline che si azzuffano per niente”, e così via).
Franco Battiato aveva un sorriso da buono e tuttavia la sua denuncia non faceva sconti (Povera patria), presupponendo la rilettura assiologica dei capisaldi sui quali poggia, spesso a sproposito, il genere umano. Vale per la “ginnastica chiamata amore”, vale per i nevrotici “malesseri speciali” e le oppiacee “storie di sottofondo, Dallas e I ricchi piangono”. Quella del sapiens- sapiens è una progenie in via di estinzione, se non già estinta da un po’. Franco Battiato la fine l’ha intuita (cantata, stigmatizzata) per tempo. Sottotraccia spirava già nel Vento caldo dell’estate interpretato da Alice:
“E il vento caldo dell'estate/ mi sta portando via la fine/ La fine, la fine”.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Mi piacciono le scelte radicali. Un ricordo dell’altro Franco Battiato
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