Sono una Santa senza Dio. Così si definiva Alda Merini, la poetessa dei Navigli, scomparsa a novembre proprio nel giorno di Ognissanti, in una ricorrenza che si fa presagio.
La prima poesia manoscritta di Merini che ci è pervenuta si intitola proprio Santi e poeti e appare come un manifesto esemplare della sua poetica. La poetessa la scrisse a soli diciassette anni, il 2 dicembre 1948, quando ancora tutto era possibile, ma la vita l’aveva già toccata: l’anno precedente Alda era stata internata per un mese nell’ospedale psichiatrico di Villa Turno, a causa di quelle che lei stessa definiva “le prime ombre della mia mente”.
Nel 1950 avrebbe pubblicato la sua prima raccolta di poesie, grazie al sostegno di Giacinto Spagnoletti: si intitolava Il Gobbo come la poesia scritta il 22 dicembre 1948, esattamente venti giorni dopo Santi e poeti. Per qualche ignota ragione da quella raccolta la prima poesia di Merini fu esclusa, forse fu dimenticata. Venne ritrovata molti anni dopo, riscoperta per caso insieme ad altri due inediti posteriori donati dalla poetessa all’amica Marisa Tumicelli Carlini. La poesia fu quindi pubblicata postuma nel 2015 in un volume edito da Scripta Editore dal titolo Santi e poeti. Tre poesie inedite, corredato da testi critici a cura di Luca Bragaja, Marco Campedelli, Roberto Fattore.
In questi versi giovanili Merini accostava l’ispirazione del poeta alla vocazione del santo; si trattava, in entrambi i casi, di esperienze che trascendevano la volontà del singolo ed erano accostabili a una dimensione alta, superiore, quasi mistica. Alla poesia, come alla santità, la poetessa accostava una funzione superiore: doveva essere un “atto di conciliazione”.
“Santi e poeti” di Alda Merini: testo
Bisogna essere santi
per essere anche poeti:
dal grembo caldo d’ogni nostro gesto,
d’ogni nostra parola che sia sobria,
procederà la lirica perfetta
in modo necessario ed istintivo.Noi ci perdiamo, a volte, ed affanniamo
per i vicoli ciechi del cervello,
sbriciolati in miriadi di esseri
senza vita durevole e completa;
noi ci perdiamo, a volte, nel peccato
della disconoscenza di noi stessi.Ma con un gesto calmo della mano,
con un guardar “volutamente” buono,
noi ci possiamo sempre ricondurre
sulla strada maestra che lasciammo,
e nulla è più fecondo e più stupendo
di questo tempo di conciliazione.
“Santi e poeti” di Alda Merini: analisi e commento
Alla poesia Alda Merini associava una funzione quasi mistica. Nei versi della lirica, come una moderna Sibilla, sembra invocare la Parola perché ponga ordine al caos dell’esistenza. In questo senso non ci sono differenze evidenti tra “parola” e “preghiera”, tra la mediazione del santo con l’aldilà e quella del poeta con la propria mente. Il vero peccato, teorizza la Merini-Sibilla, è la “disconoscenza di noi stessi”: nosci te ipsum, dunque, attraverso la scrittura, quel “gesto calmo della mano” che riconduce sulla strada maestra, la retta via, si poteva riparare l’irreparabile, ricondurre il frammento all’unità.
L’esperienza manicomiale aveva dato modo a Merini di conoscere il buio, “l’urlo che sta nel fondo di noi”; ma la parola le aveva dato la forza di riemergere integra e intatta da quell’abisso. Era stata salvifica come una vocazione; nei lunghi giorni di ricovero lei non aveva incontrato Dio, ma era entrata in contatto con il suo essere e aveva scoperto l’energia ispiratrice che era in lei, qualcosa che la legava a un senso superiore di bene, di lealtà e di giustizia. tra Ed è ciò che Alda Merini confessa in questa prima poesia, scritta appena diciassettenne, quando era appena riemersa dall’oscurità grazie alla fioritura dell’arte. Ciò che teorizza nei suoi versi di “conciliazione” è una sorta di dualismo platonico, una scissione tra il mondo sensibile, della materia, e il mondo delle idee che costituisce la vera realtà. Merini aveva scoperto che l’ispirazione letteraria pone in contatto con un non meglio specificato “altrove”, permette di toccare l’intangibile, sperimentare un’altra vita. C’è qualcosa oltre la dimensione concreta, la superficie visibile dell’esistenza, una presenza fissa che sfida “quello che si vede”: e questo è un segreto noto ai santi e ai poeti, anche ai folli, come avrebbe teorizzato in un’altra poesia, Pensiero io non ho più.
Intanto la poesia l’aveva salvata per la prima volta - e lo avrebbe fatto ancora; perché ormai Alda Merini aveva scoperto come ricondursi a sé stessa dopo ogni smarrimento, compiendo quel gesto di conciliazione che per una “Santa senza Dio”, come lei, era la scrittura. La mano che stringe la penna e piano scivola sul foglio, quello era l’unico modo per venire a contatto con “l’intimità dei misteri del mondo”.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Santi e poeti”: la prima poesia scritta da Alda Merini
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