Il confine tra poesia e follia, a volte, può essere sottile. Ce lo insegna Alda Merini, la poetessa dei Navigli, che ha fatto di quel confine la linfa della propria voce poetica liberando sulla pagina il suo canto interiore.
L’esperienza manicomiale è stata fondamentale per il sentire di Merini: dietro le mura in cui era reclusa la poetessa ha trovato in sé stessa, nella propria interiorità, le ali per volare, riuscendo a scorgere a vedere oltre la “siepe” dell’Infinito di cui parlava Leopardi, a praticare quell’arte astratta, immaginifica che ha nome di poesia: “io nel pensier mi fingo, ove per poco il cor non si spaura.”
In un recente intervento lo psicanalista e saggista Massimo Recalcati ha osservato che la poesia, proprio come la psicanalisi, spinge la persona a fare i conti con il proprio buio interiore e che i folli, proprio come i poeti ci insegnano a imparare a fare qualcosa del “nostro buio”. Alda Merini, la poetessa che veniva definita con malevola ironia come “la pazza della porta accanto”, ha tradotto in poesia l’urlo della sua anima, dando una lezione a tutti noi su come trasformare il dolore in arte.
Nei versi di Merini ritroviamo struggimento, desiderio, rivalsa, ma, soprattutto, autenticità. Fabrizio De André osservava che “essere sé stessi è una caratteristica propria dei bambini, dei matti e dei solitari”. Anche dei poeti, aggiungeremmo noi.
Secondo la psicanalisi la follia (in termini clinici “disagio mentale”) si trova sulla stessa lunghezza d’onda della sanità mentale, a dividerle è semplicemente lo scarto, il trauma, che fa insorgere la patologia. Si tratta di una definizione che lascia sempre un poco sgomenti, perché nessuno è disposto ad accettare che il confine tra normalità e follia - o meglio tra sanità mentale e patologia - possa essere così labile e facile da valicare. L’esuberanza creativa, la sensibilità spiccata ha a che fare con la follia? Forse sì, a ben vedere tutti i migliori artisti erano (e tuttora sono) un po’ folli, capaci di vedere oltre lo spiraglio del reale; per cui l’arte diventa un rifugio, una forma di cura - o di salvezza - una sorta di risarcimento alle offese della vita. Alda Merini ha fatto del binomio tra poesia e follia la cifra stessa della propria poetica, divenendo il simbolo universale del genio che sconfina nella pazzia.
In occasione della Giornata mondiale della salute mentale scopriamo la poesia di Merini Pensiero, io non ho più, tratta dalla raccolta La Terra Santa (Scheiwiller, 1984). Ricordiamo che per Alda Merini la Terra Santa era una metafora del manicomio: un luogo oscuro di solitudine e isolamento, ma al contempo uno spazio interiore di conoscenza e introspezione, il luogo intangibile e intimo in cui nasce la poesia.
“Pensiero, io non non più” di Alda Merini: testo
Pensiero, io non ho più parole.
Ma cosa sei tu in sostanza?
qualcosa che lacrima a volte,
e a volte dà luce.
Pensiero, dove hai le radici?
Nella mia anima folle
o nel mio grembo distrutto?
Sei cosi ardito vorace,
consumi ogni distanza;
dimmi che io mi ritorca
come ha già fatto Orfeo
guardando la sua Euridice,
e cosi possa perderti
nell’antro della follia.
“Pensiero, io non non più” di Alda Merini: analisi e commento
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Il manicomio veniva descritto spesso da Alda Merini come un Inferno, questa metafora ritorna anche in Pensiero, io non ho più nel riferimento all’Euridice che, come narrato nel mito ovidiano, precipita negli Inferi dopo che Orfeo si volta a guardarla, tradendo il precetto di Ade; qui la poetessa invece tramuta il Regno dell’Oltretomba nell’“antro della follia”, entrambi sono contraddistinti dalla stessa oscurità, dalla stessa perdizione, come un punto di non ritorno.
Ma Merini si paragona ad Orfeo, il cantore che risale dagli Inferi suonando la sua lira e piangendo colei che ha perduto forse per eccesso d’amore. Sono state date diverse interpretazioni del mito narrato da Ovidio nelle Metamorfosi: perché Orfeo si volta? Sono state date molteplici risposte a questa domanda, spesso in contraddizione tra loro, la più accreditata è quella della della fallibilità umana: Orfeo non ode più i passi della sua Euridice e allora, ecco, si volta per accertarsi che lei lo segua ancora tradendo il patto stipulato con Ade. Da quel gesto, apparentemente incomprensibile, ha origine la poesia che certo non può combattere la morte, ma ha il potere di sconfiggere l’oblio. Orfeo viene considerato l’inventore della poesia e il garante del canto dell’immortalità, Alda Merini in questa lirica si paragona a lui, al personaggio mitologico che ammansisce la natura e gli animali con il suono della sua lira, ma non riesce a salvare l’amata perduta. Anche lei ha visto Euridice e con strazio l’ha perduta precipitando in un baratro. Da quella stessa imperscrutabile oscurità, esplorata anche da Orfeo, ha origine la voce poetica che salva e consola.
Interrogando il suo pensiero Merini si chiede: “dove hai radici?” La risposta è nel dolore: “nella mia anima folle o nel mio grembo distrutto”, dunque nel delirio e nel vuoto, nel desiderio e nella sua struggente assenza. La poetessa afferma di non avere parole per dirlo, per esprimerlo il suo pensiero, ma è proprio quando le parole sembrano, di fatto, mancare ecco che tutto si illumina con una chiarezza strabiliante, indicibile, esplorando abissi di senso. Merini non riesce a definire il pensiero se non attraverso il paragone con la follia, sancendo così un binomio unico e indivisibile. Dove c’è “pensiero”, intenso nella sua massima espressione, c’è anche il suo rovescio: la follia. Merini cercando di afferrare la sostanza del pensiero ne afferra la contraddizione: a volte fa lacrimare, a volte dà luce, è dunque qualcosa che oscilla, non sta in equilibrio, si contraddice.
Alda Merini era davvero pazza? Su questo quesito in moltissimi studiosi e critici si sono interrogati e arrovellati, senza pervenire a una risposta certa. Per lei le porte del manicomio si aprirono innumerevoli volte, ma la sua mente non si lasciò mai spegnere in quei luoghi oscuri di isolamento e delirio. La prima volta fu fatta internare da un marito, in seguito a un brutale litigio: doveva essere una sorte comune a molte donne in quell’epoca, fatte passare come “matte” solo perché ribelli, perché non sottomesse. I manicomi erano pieni di donne così, donne sposate fatte passare per schizofreniche o per pazze. Chissà forse Merini soffriva di un disturbo bipolare o di una malattia che poteva essere curata e tenuta sotto controllo con farmaci; quel che è certo è che nelle sue poesie riesce a cogliere l’inattingibile. Lei nell’inferno non si era smarrita, come Euridice, dagli Inferi era ritornata come Orfeo suonando la sua lira con dita sottili e incantate.
In un’altra lirica contenuta nella Terra Santa, Merini dava una singolare definizione di manicomio:
Manicomio è parola assai più grande
delle oscure voragini del sogno
Nei versi successivi affermava che le “più belle poesie” si scrivono genuflessi sulle pietre, con le ginocchia piagate, dunque dopo aver sperimentato il dolore, aver guardato con occhi nudi nell’abisso più nero che ferisce come un sole accecante.
In questa poesia, Pensiero, io non ho più, Alda Merini dà voce alla definizione poetica di Massimo Recalcati: fare poesia significa fare qualcosa con il proprio buio e lei, la poetessa dei Navigli, quel buio l’ha tradotto in luce chiarissima. La poesia è situata in quel punto irraggiungibile dell’interiorità che, come diceva il poeta dei poeti Giacomo Leopardi, è situato dove per poco “il cor non si spaura”. Se si giunge, tremanti e arresi, in quel luogo della mente - posto all’estremo limite tra realtà e irrealtà - si arriva, forse, nel mezzo di una verità.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Pensiero, io non ho più” di Alda Merini: sul binomio tra poesia e follia
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