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Negli ultimi anni, una nuova moda di origine anglosassone sembra aver preso piede nel mondo del lavoro: il quiet quitting, ossia (letteralmente) “smettere tranquillamente”, tradotto da alcuni come “licenziarsi silenziosamente”.
In realtà, però, questa pratica non riguarda l’atto di dare le dimissioni, ma semplicemente il classico lassismo, la poca voglia di fare. Sembra che tale atteggiamento sia più diffuso e accettato soprattutto tra i giovani della cosiddetta Generazione Z, che - almeno agli occhi di qualche giornalista - non paiono disposti a compiere sacrifici in termini di energia e tempo libero in cambio di una paga inadeguata. Il concetto è semplice: fare il minimo indispensabile, attenendosi rigorosamente alle proprie mansioni senza dedicagli un singolo minuto o uno sforzo in più di quanto richiesto dal contratto.
“Quiet quitting”: cos’è e cause
Questo comportamento, che alcuni definiscono come una “ripicca generazionale”, parrebbe il frutto di un diffuso sentimento di insoddisfazione. Molti giovani lavoratori ritengono di non essere adeguatamente retribuiti per le fatiche richieste e, di conseguenza, rifiutano di impegnarsi oltre il dovuto. Il messaggio è chiaro:
Se non vengo pagato abbastanza, non ho motivo di fare più del necessario.
I difensori di questa posizione argomentano che alla base della nuova tendenza c’è un mutamento culturale, il desiderio di mettere in discussione la “retorica del lavoro” che ha caratterizzato le generazioni precedenti. Secondo tale lettura, i giovani d’oggi sarebbero più attenti al benessere mentale, alla qualità della vita e a un migliore equilibrio tra lavoro e sfera privata.
Tuttavia, questa nuova filosofia esistenziale viene spesso interpretata dai datori di lavoro come mancanza di ambizione o disinteresse, contribuendo a un crescente divario tra le aspettative aziendali e quelle personali dei dipendenti.
Pare che anche gli sviluppi post-covid dell’economia abbiano giocato un ruolo importante in questa dinamica; la crisi sanitaria ha condotto diversi individui a riconsiderare le proprie priorità, mettendo in primo piano il valore del tempo libero e della serenità personale rispetto alla crescita professionale a ogni costo e alla produttività.
Innegabilmente, in Italia l’aumento del costo della vita e la stagnazione dei salari hanno contribuito a rafforzare la percezione di uno squilibrio tra il contributo lavorativo e la ricompensa economica.
“Sapapian”: cosa significa in veneto
A fronte dell’ingresso di una nuova espressione nel linguaggio comune, l’italiano è ancora impreparato e attualmente non ha trovato una traduzione efficace per soppiantare l’ennesimo forestierismo. Ciononostante, in veneto vi è un vocabolo che potrebbe rappresentare una traduzione ideale del concetto pocanzi descritto, ovvero la parola “sapapian”.
Sapapian è un lemma dispregiativo diffuso in molti vernacoli veneti, da Venezia alla Terraferma; si tratta di una parola composta, nata dall’unione dei vocaboli sapa (zappa) e pian (piano).
Con ogni probabilità, l’espressione è stata originariamente coniata in campagna, per indicare quei braccianti che, essendo pagati a ore, non si impegnavano nel lavoro e, per estensione, è passata poi a designare tutti coloro che sono sempre lenti nello svolgimento di una mansione e, così facendo, finiscono anche per danneggiare gli altri. È un retaggio del vecchio Veneto dei contadini abituati a rispondere prontamente "Comandi!" appena i padroni li interpellavano.
Comunque sia, forse questa volta il veneto è un passo avanti rispetto all’italiano, che comunque potrebbe facilmente adottare come neologismo gergale “zappapiano”.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Sapapian”, il termine veneto per indicare il “quiet quitting”: significato e usi
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