Se questo è un uomo
- Autore: Primo Levi
- Categoria: Narrativa Italiana
Reduce da Auschwitz, testimone e vittima dei fatti avvenuti in uno dei lager nazisti durante la seconda guerra mondiale, Primo Levi racconta gli anni di prigionia in Se questo è un uomo .
Il racconto si apre con il momento della cattura avvenuta il 13 dicembre del 1943, poi la deportazione ad Auschwitz nel febbraio del ‘44, è descritto il viaggio e la permanenza presso il campo di concentramento. I prigionieri vengono separati, gli uomini non vedranno più le loro donne e i bambini. Gli uomini sani divisi da quelli malati. Primo Levi racconta come trascorre il giorno di un Haftling, un detenuto spogliato di ogni cosa, per il quale la sveglia suona troppo presto la mattina, quando già la notte non è stata riposante, dopo gli obblighi mattutini viene assegnato il lavoro perlopiù di trasporto di carichi pesanti.
Il lavoro è duro non soltanto per le operazioni da svolgere ma piuttosto per le condizioni in cui si è posti: camminare sui piedi dolenti; stremare un corpo indebolito e afflitto dalle piaghe; patire il freddo, uno dei nemici più grandi nel campo di concentramento, ove camicia, giacca e brache di tela poco riparano dal gelo della neve. Qui si prova la sete, «la fame cronica sconosciuta agli uomini liberi», la fame disperata, che spinge a rubare rischiando le percosse, e a scambiare ogni possibile oggetto per una mezza razione di pane.
“…tutto è niente quaggiù, se non la fame dentro, e il freddo e la pioggia intorno”.
Tutto nel lager è passibile di scambio, tutto ha un valore per chi non possiede nulla. È per questo che si gira per il campo con appesa alla cintura la propria scodella di lamiera, uno dei pochi oggetti che si possiede. Il lager è un quadrato di circa seicento metri di lato circondato da due reticolati di filo spinato il più interno dei quali è percorso da corrente ad alta tensione.
L’autore ci racconta dei personaggi che incontra, della campana che non suona all’alba e quindi non è la sveglia ma la “selekcja”, la selezione tra chi potrà sopravvivere e chi invece dovrà andare al gas e davvero comprendi cosa significa “morire per un sì o per un no”.
A questi uomini viene tolto tutto, non solo la casa, la donna, i figli, le abitudini, anche gli abiti, le scarpe, i capelli, ogni oggetto proprio, ma anche il nome: Primo Levi ad Auschwitz è il numero 174517.
Storie che fanno rabbrividire: percorrere quel fango con i piedi doloranti, sentire freddo fino al tormento nelle ossa. Io ad Auschwitz non ci sono stata, ma ho vissuto le sue parole mentre le ho lette e pensate. Ho ricordato mio nonno, i suoi racconti di prigioniero durante la seconda guerra mondiale, quando mi diceva che andava in cerca delle bucce di patate per appianare la fame. Quella era la guerra, l’inferno per gli ebrei. Pochi furono trovati vivi dai russi, in quel campo il 27 gennaio del 1945.
Queste pagine, quello che lì è accaduto, non si può dimenticare. Finisco il libro e vado a rileggere una frase. Non è una poesia è il suo monito all’umanità intera, quando in Dio ormai non poteva più credere, e dirà “c’è Auschwitz, quindi non può esserci Dio” e la sua speranza rimane solo la memoria degli uomini:
«Meditate che questo è stato: vi comando queste parole. Scolpitele nel vostro cuore, stando a casa andando per via, coricandovi, alzandovi; ripetetele ai vostri figli.»
Diffondere quindi ciò che li accadde:
«la mala novella di quanto, ad Auschwitz, è bastato animo all’uomo di fare dell’uomo».
Il ritorno a casa da Auschwitz sarà raccontato dallo scrittore nel libro intitolato La tregua.
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Sembra chiaro e logico come la psicologia, in particolare lo psichedramma psichedelico dell autore, sia intervenuta per espandere gli orizzonti della conoscenza dovuta dal fatto che la cultura, e in essa la religione e lo stile di vita, possa illustrare il dolore, non solo delle azioni belliche, ma anche della vita dell uomo contemporaneo che racchiude in se le scoperte ed esperienze di milioni di anni di esistenza.