Eternamente giovane. La foto di Sergio Corazzini sembra trarre in inganno: raffigura un ragazzo, non un uomo. Ha il volto sbarbato, gli occhi grandi e acquosi, le labbra carnose e piene, il colletto inamidato. Troppo giovane per essere poeta. Eppure è proprio lui, il poeta fanciullo della letteratura italiana.
Corazzini, considerato il padre fondatore della poesia crepuscolare, morì a soli ventun anni il 17 giugno 1907.
Oggi il suo volto appare incorniciato in un loculo del cimitero del Verano di Roma, in perfetta antitesi con quel nome “Verano”, che in spagnolo significa “estate”, è incasellato in una lunga fila di lapidi in un antro buio e oscuro. Ha l’espressione altera, lo sguardo fermo e fisso; pare quello di un fantasma. Un angelo caduto: la foto sembra avallare l’inganno e rafforzare l’enigma, quel volto giovane pare quello di un cherubino eppure, a guardar bene, celauna parvenza ombrosa, qualcosa d’inquieto.
Era lui il piccolo fanciullo che piange, come si definisce nel suo capolavoro Desolazione del povero poeta sentimentale, che proclama l’impossibilità di essere definito “poeta”. Con quella lirica Corazzini marcava la distanza dalla poesia del vate D’Annunzio e dall’idillio di Pascoli, ne inaugurava una nuova che avrebbe avuto un altro nome. Nasceva il movimento crepuscolare.
Scopriamo la vita e le opere di colui che è considerato il padre della poesia crepuscolare italiana.
Sergio Corazzini: la vita
Una vita da enfant prodige, e non potrebbe essere altrimenti vista la sua breve durata. In soli vent’anni Sergio Corazzini riuscì a lasciare un’impronta indelebile: non c’è antologia della letteratura italiana che non menzioni il suo nome. A soli sedici anni Corazzini già collaborava per le principali riviste letterarie dell’epoca: Il Rugantino, Il Marforio, Il Capitan Fracassa. Frequentava i circoli letterari, gli intellettuali dell’epoca pendevano dalle sue labbra al Caffè Sartoris dove si discuteva di letteratura, di poesia, delle nuove correnti letterarie. Tutti avevano stima per quel ragazzo dalla voce bianca, quasi fosforica, che aveva già il destino segnato. La tubercolosi, in casa Corazzini, era un male di famiglia: se ne ammalò anche la madre, Carolina Calamani.
Il giovane e promettente poeta dovette interrompere gli studi e lasciare il collegio, che frequentava insieme al fratello Gualtiero, a causa dei problemi finanziari del padre. Enrico Corazzini, un uomo leggero e libertino, decise di dimettersi dal suo lavoro di impiegato presso il Registro della Dataria Pontificia; la famiglia ne subì le conseguenze. Enrico avrebbe aperto una tabaccheria in via Corso Umberto, ma le sue speculazioni in borsa non avrebbero mai garantito alla famiglia il benessere necessario per vivere. Sergio fu segnato dal passaggio da una condizione economica agiata a una situazione di quasi povertà. Giovanissimo iniziò a lavorare presso una compagnia di assicurazioni, “La Prussiana” in via del Corso, per sostenere i fratelli e la madre, malata di tisi. Nel tempo libero continuava a leggere e a dedicarsi alle sue amate poesie. Gli amici raccontano che usciva dall’ufficio con un foglietto ripiegato con cura: erano i versi che aveva scritto durante il giorno e che si apprestava a leggere la sera nel ritrovo di qualche cenacolo letterario e nel suo posto preferito, il Caffè Sartoris, accanto alla tabaccheria del padre.
I primi componimenti poetici di Corazzini furono pubblicati su giornali e riviste, erano scritti in dialetto romanesco. Sergio Corazzini scrive: e le sue parole sono attraversate dal sentimento della perdita della felicità. Parlava spesso della morte, della caducità della vita, lui che aveva visto ammalarsi la madre Carolina, il fratello Gualtiero. È giovanissimo ed è già ammalato di una malattia mortale. Nel 1905 è già consapevole di non avere scampo e ha soltanto diciannove anni. Scriveva in una lettera a un amico che sentiva come se ci fosse un vampiro che gli succhiava via il sangue dalle vene, goccia a goccia.
Il suo quarto volume di poesie, Piccolo libro inutile, sarebbe apparso l’anno seguente, il 1906. Il libro si apriva con la sua poesia oggi considerata più famosa: Desolazione di un povero poeta sentimentale.
Perché tu mi dici: poeta? / Io non sono un poeta. / lo non sono che un piccolo fanciullo che piange.
“Perché tu mi dici poeta?” L’interrogativo di Corazzini segnava una nuova stagione della poesia italiana, di cui si riverberava l’eco nei versi di Gozzano e Palazzeschi.
Piccolo libro inutile era il manifesto della poetica corazziniana: versi oscuri, angosciosi, in cui la poesia sembra diventare preghiera. Il piccolo fanciullo che piange non vuole essere detto poeta. Corazzini in quel periodo era ricoverato presso il sanatorio di Nettuno e scriveva lettere desolate agli amici, tra cui figurava anche Aldo Palazzeschi. Ingannava il tempo traducendo la Semiramide di Joséphin Sar Péladan, lavoro che non sarebbe mai riuscito a ultimare nonostante l’uscita fosse stata annunciata su La vita letteraria. Componeva sempre poesie, alla fine di quell’anno sarebbe uscito il Libro per la sera della domenica.Sognava di fuggire dal sanatorio: riusciva a spingersi sino alla stazione, da dove guardava passare i treni, sognando, ma non poteva andare oltre. Poi, finalmente, nel mese di maggio del 1907 tornò a Roma. Il rientro nella città amata aveva le sembianze di una cura, ma non lo era:
Sono tornato a Roma e l’aria nativa sembra mi faccia bene.
La malattia non gli concede scampo: gli amici lo trovano sempre più deperito. Non riesce più a partecipare alle serate di lettura delle poesie. Gli amici si recano a trovarlo nella casa di via dei Sediari; ma sono visite desolate, in cui regna il silenzio. Sergio Corazzini morirà il 17 giugno 1907 dopo l’ennesima crisi, a soccorerlo la madre Carolina, detta “Lina”, ma era ormai troppo tardi. Tutto il futuro di Corazzini era contenuto nelle sue poesie, scritte in versi liberi, si distaccavano dagli schemi classici e trionfali del dannunzianesimo, inauguravano una stagione nuova e una sintassi moderna. L’anno dopo la morte di Sergio Corazzini i suoi versi cominciarono ad avere risonanza nazionale. Ed era solo l’inizio di qualcosa di molto più grande.
Sergio Corazzini: le opere
La prima raccolta poetica di Corazzini fu edita dalla Tipografia cooperativa operaia romana di via S. Marcello, nel 1904, e aveva titolo Dolcezze. Erano componimenti ancora acerbi, che risentivano dell’influenza dannunziana. Cinquanta pagine in tutto, vendute al prezzo di lire una. Le poesie di Corazzini in questa fase sembrano essere ancora un esercizio di stile, ma se ne rintraccia l’originalità: i critici li definirono “versi che non sono versi”, il giovane poeta stava esplorando nuove frontiere, coniando una nuova personalissima voce.
Nel 1905 seguono L’amaro calice e Le aureole, in cui emergono versi di una nuova forza simbolica, quasi surreale. Il linguaggio di Corazzini si sta fissando, i temi si ripetono: sogno e morte sono i più ricorrenti.
Infine, nel 1906, è il turno di Piccolo libro inutile, considerato il capolavoro poetico di Sergio Corazzini, che sancisce la sua maturità letteraria. La consapevolezza della caducità della vita raggiunge l’apoteosi in questi versi. Seguono, nello stesso anno, Elegia e Il libro della sera della domenica.
Tutte le altre poesie di Corazzini saranno pubblicate postume.
Poesia crepuscolare: cos’è?
Sergio Corazzini è considerato tra i padri fondatori della poesia crepuscolare italiana. Fu il primo a dare voce a un nuovo modo di fare poesia, lontano dall’estetismo dannunziano e dall’idillio naturale del Pascoli. Con Corazzini i silenzi prendono corpo negli spazi dei versi, emerge una tristezza malinconica che diventa più viva e palpitante attraverso l’espediente dell’uso del verso libero. Una poesia più vicina alla prosa, lontana dagli eccessi e dal lirismo virtuoso, una poesia che cantava le piccole cose quotidiane ed era pervasa da una luce umbratile, grave, venata di malinconia.
Per queste caratteristiche la produzione poetica di Corazzini divenne l’emblema della poesia crepuscolare: la sua lirica Desolazione del povero poeta sentimentale ne è considerata il manifesto. Al nome di Corazzini tuttavia non può non essere affiancato quello di Guido Gozzano, uno dei maggiori poeti crepuscolari italiani, tra l’altro accomunato a Sergio Corazzini dal medesimo triste destino.
Il termine crepuscolarismo fu utilizzato per la prima volta in un articolo su La Stampa da Giuseppe Antonio Borgese nel 1910, tre anni dopo la morte di Corazzini. Quando il “poeta fanciullo” morì, quello che aveva creato ancora non aveva nome.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Sergio Corazzini: il poeta fanciullo della letteratura italiana
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