Nasceva a Boston il 27 ottobre 1932 Sylvia Plath, una delle maggiori poetesse statunitensi, tuttora considerata un punto di riferimento, non solo letterario. A partire dagli Novanta la sua intera opera è stata studiata in una prospettiva critica e femminista. Oggi è considerata una delle anticipatrici del femminismo moderno e della liberazione sessuale; una definizione retorica e a posteriori che tuttavia non le rende affatto giustizia. La sua è una poesia confessionale che ha saputo narrare il dolore e la frustrazione che i farmaci cercavano invano di anestetizzare: la vera liberazione di Sylvia Plath è stata questa, questo canto del dolore e dell’esistenza in tutte le sue sfaccettature, persino in quelle più visionarie dell’immaginazione.
È stata lei, del resto, a insegnarci ad ascoltare l’antica vanteria del battito del nostro cuore, quella voce che infaticabilmente ripete “Io sono, io sono, io sono”.
L’esistenza di Sylvia Plath è definita drammaticamente dalla sua brevità. La poetessa morì a soli trentun anni inscenando il proprio suicidio in una maniera teatrale, “Morire è un’arte, come ogni altra cosa, e io lo faccio in modo eccezionale”, scriveva in una delle sue poesie più celebri Lady Lazarus. Oggi la vita di Plath è tragicamente oscurata dal presagio della sua fine, che si avverte come un rintocco funebre in ogni suo scritto. Cristallizzata nell’ideale romantico della morte come atto di liberazione, che l’ha trasfigurata in un’icona, forse a discapito della sua vita. Che ne è stato dell’antica vanteria del cuore che ripete “io sono, io sono, io sono”?
Nelle numerose foto che la ritraggono Sylvia è eternamente giovane, sorridente, vestita di bianco e con il rossetto rosso, divina come un’attrice del cinema e allo stesso tempo malinconica, riflessiva, triste, come si addice a una poetessa.
La sua esistenza non può essere ridotta alla scenografia della sua morte, per questo motivo, nell’anniversario della sua nascita, decidiamo di ripercorrere ogni tappa della sua tumultuosa - ma innegabilmente affascinante - vita che fu sempre tormentata dal raggiungimento della “perfezione” e dal superamento dei propri limiti.
Sylvia Plath: la vita
Sylvia Plath nacque in un sobborgo di Boston, in Massachusets, nell’ottobre del 1932. Era figlia di un professore universitario di Harvard, Otto Plath, e di una sua studentessa, Aurelia Schober, entrambi di origini tedesche.
La stessa Plath scrisse di “sentire in modo molto forte le radici tedesche” e avrebbe cercato di imparare e perfezionare la conoscenza della lingua tedesca per tutta la vita, senza mai riuscirci davvero.
La piccola Sylvia era una scolara modello e rivelò un talento precoce per la scrittura; scrisse la sua prima poesia a soli otto anni.
Nel 1940 Otto Plath morì in seguito alle complicazioni dovute a un diabete diagnosticato troppo tardi; la sua scomparsa fu per Sylvia Plath una perdita irreparabile che segnò la sua infanzia e anche il resto della sua vita. Con quel padre autoritario la poetessa aveva sempre avuto un rapporto conflittuale e difficile che sarebbe stato immortalato nei versi della poesia Daddy, in cui lo definiva senza indugi come un “tiranno patriarcale” e un “bastardo nazista”, ciò nonostante Plath affermò di aver percepito la sua scomparsa precoce come un “tradimento” da bambina. Avrebbe sempre ricercato la figura del padre, come un’autorità perduta, trasfigurandola in ogni uomo della sua vita. Era questo l’errore - e lei lo sapeva bene.
La scena: una ragazza alla ricerca del padre morto – di un’autorità esterna che invece deve nascere da dentro.
In seguito alla morte di Otto la famiglia Plath versò in una situazione economica difficile e fu costretta a trasferirsi; Aurelia Schober e la piccola Sylvia lasciarono la bella casa sulla spiaggia e si recarono a Wellesley. La madre di Sylvia trovò un impiego come docente di studi avanzati di segreteria presso l’Università di Boston.
Intanto Sylvia cresceva in bellezza e saggezza; era una studentessa modello, una mente brillante, che collezionava ottimi voti in tutte le materie. Da adolescente vinse numerosi premi per i suoi risultati scolastici e pubblicò racconti e poesie su diverse riviste nazionali. Ebbe accesso al prestigioso Smith College grazie a una borsa di studio e nello stesso anno vinse il concorso di narrativa indetto dalla rivista Mademoiselle ottenendo lo stage estivo presso la sede newyorkese della rivista che le permise di soggiornare presso il Barbizon Hotel.
La pubblicazione de “La campana di vetro”
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Proprio in quegli anni - all’apparenza così luminosi - Plath iniziò a soffrire dei sintomi di una grave depressione che l’avrebbe condotta alla morte. Al termine dello stage presso la rivista Mademoiselle, nell’agosto del 1953, Sylvia tentò il suicidio ingerendo dei sonniferi e fu ricoverata in un ospedale psichiatrico dove la sottoposero all’elettroshock. Il ricordo di quell’anno tumultuoso fu trasfigurato in narrativa, divenendo la trama del suo unico romanzo La campana di vetro (Bell Jar, in originale, Ndr), la cui protagonista - la diciannovenne Esther Greenwood - è una brillante studentessa che ottiene una borsa di studio a New York e poi, in seguito a un crollo, inizia un difficile percorso di recupero psichiatrico. Il libro è autobiografico e Esther Greenwood è l’alter ego di Sylvia.
L’incontro con Ted Hughes
Terminato il difficile percorso di recupero e riabilitazione presso il McLean Hospital, Plath tornò allo Smith College e riuscì a concludere gli studi con il massimo dei voti. Si iscrisse quindi all’Università di Cambridge, in Inghilterra, cui poté accedere grazie a una borsa di studio. Proprio a Cambridge Plath, nel febbraio 1956, incontrò colui che sarebbe stato il grande amore (e dolore) della sua vita: il poeta inglese Ted Hughes. La loro storia d’amore è divenuta una delle più celebri - e tragiche - della storia della letteratura. Sylvia aveva incontrato Ted per la prima volta leggendo le sue poesie, pubblicate su varie riviste, e ne era rimasta molto colpita; si incontrarono a un party organizzato per celebrare la nascita di una nuova rivista e scoprirono subito di avere molti interessi in comune. Fu un amore folle, si sposarono nel mese di giugno dello stesso anno. Il matrimonio con Hughes durò sette anni e i due si sarebbero influenzati a lungo, traendo ispirazione l’uno dall’altra per la composizione delle loro opere più famose: fu un’unione di carne e di spirito, molto tormentata sul piano intellettuale.
In quegli anni la coppia visse prevalentemente negli Stati Uniti dove Plath, dopo la laurea, insegnò per un periodo allo Smith College. Dopo un anno di lavoro come insegnante tuttavia la poetessa decise di optare per un impiego part-time come segretaria, in modo da avere più tempo per dedicarsi alla scrittura. Frequentò anche un seminario di scrittura creativa (creative writing) a Boston tenuto da Robert Lowell, il fondatore della poesia confessionale; insieme a Plath su quei banchi c’era anche la poetessa Anne Sexton, che con lei aveva molto in comune, ma la notevole somiglianza tra le due anziché diventare amicizia si tramutò in un’accesa rivalità.
Nell’aprile del Sessanta la coppia Plath-Hughes fece ritorno in Inghilterra, a Londra, dove Sylvia diede alla luce la loro primogenita, Frieda Rebecca.
Sylvia Plath in quel periodo raggiunse una discreta fama, iniziò a scrivere il suo primo libro La campana di vetro e diede alle stampe la raccolta di poesie Colossus che ottenne recensioni positive da parte di pubblico e critica.
Se sul piano professionale la vita di Sylvia andava a gonfie vele, lo stesso non si poteva certo dire del piano sentimentale. Da tempo la poetessa aveva scoperto che il marito la tradiva ripetutamente, anche con delle studentesse del college, e ne era rimasta distrutta. Nel 1961 Plath ebbe un aborto spontaneo che, come riporta il referto del medico, era dovuto alle percosse subite dal marito. Ted Hughes era un uomo violento e la loro relazione era tutt’altro che idilliaca, continuamente soggetta ai picchi umorali di entrambi e funestata dagli accessi di rabbia di lui.
Un anno dopo comunque Sylvia avrebbe dato alla luce il loro secondo bambino, Nicholas. Forse quella nascita avrebbe dovuto riparare l’irreparabile, ma non bastò. I continui tradimenti di Ted sfociarono in una relazione seria con un’altra donna, Assia Wevill, e la coppia Plath-Hughes si incrinò per poi scoppiare definitivamente con la separazione, avvenuta quella stessa estate.
Sylvia Plath si ritrovò quindi sola, con due bambini piccoli da crescere. La sua depressione, che da sempre covava sotto le ceneri, si acuì terribilmente.
La morte di Sylvia Plath
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Quel periodo difficile portò a Sylvia un’esplosione inattesa di creatività. Nel 1962 compose le sue poesie più belle, contenute nella celebre raccolta Ariel, e recitò il suo poema intitolato Tre donne - in cui parlava anche della difficile esperienza dell’aborto - in diretta alla BBC. Scriveva “Vivo per il mio lavoro, senza il quale non sono niente. La mia scrittura. Nient’altro importa”. L’anno successivo, il 1963, Plath diede alle stampe il suo primo romanzo, La campana di vetro, pubblicato sotto lo pseudonimo di Victoria Lucas. Il libro sarebbe apparso firmato con il suo nome soltanto in un’edizione postuma, nel 1967.
Ma venne l’inverno e Sylvia, completamente sola in un grande appartamento di Londra con due bambini piccoli, ebbe un altro crollo psicologico. Aveva affittato quella casa, l’appartamento al numero 23 di Fitzroy Road, credendola di buon auspicio perché era appartenuta al poeta irlandese William Butler Yeats, premio Nobel per la Letteratura. Nei suoi Diari Plath aveva annotato con entusiasmo la notizia, credendo che quella nuova casa avrebbe riacceso e dato nuova linfa alla sua creatività, eppure non fu sufficiente a salvarla.
L’inverno di Londra quell’anno era freddissimo, uno dei più gelidi nella storia recente della capitale inglese: le strade erano ricoperte da lastre di ghiaccio, la neve continuava a cadere avvolgendo il mondo in un silenzio ovattato. Sylvia era stanca, lei e i bambini erano reduci da una brutta influenza e le uniche visite che ricevevano erano quelle di Ted, pieno di premure nei confronti dei figli, verso cui Plath sviluppò un odio feroce.
L’11 febbraio 1963 è la data di non ritorno. Quella mattina Plath preparò del latte e del pane imburrato per i figli, li depose accuratamente su un vassoio nella loro cameretta, dopodiché si curò di chiudere per bene la porta. Lei andò in cucina e chiuse dietro di sé la porta con del nastro isolante e degli stracci, quindi girò la manopola del gas, aprì il forno e vi depose delicatamente la testa come su un cuscino, pronta ad addormentarsi per sempre.
Sarebbe stata ritrovata ore dopo da un’infermiera, inviata dal suo medico curante, e da un operaio che aveva aiutato quest’ultima a sfondare la porta chiusa che non si apriva.
Nel 1965 la sua raccolta più celebre Ariel sarebbe stata pubblicata per la casa editrice inglese Faber & Faber, in un’edizione curata dal marito Ted Hughes.
Dopo la morte di Plath, Hughes divenne il detentore dell’eredità letteraria della poetessa.
Negli anni successivi fu sempre Ted Hughes a pubblicare le opere di Plath in Attraversando l’acqua (1971) e Winter Trees (1972), oltre a una raccolta di racconti, estratti dei suoi diari e saggi intitolata Johnny Panic e la bibbia dei sogni (1977).
Nel 1982 Sylvia Plath ottenne il Premio Pulitzer postumo per la raccolta Collected Poems, fu la prima autrice a ricevere questo riconoscimento dopo la morte. Ora è unanimemente riconosciuta come una delle maggiori poetesse del XX secolo; non poté mai godere della sua fama in vita, eppure la presentiva, sapeva di essere una grande poetessa, “Sono una scrittrice geniale, me lo sento”, come annotava talvolta in uno slancio di amor proprio nei Diari, che tenne fedelmente per tutta la vita, e sarebbero stati pubblicati postumi nel 1997.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: La tumultuosa vita di Sylvia Plath
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