The program
- Autore: David Walsh
- Genere: Storie vere
- Casa editrice: Sperling & Kupfer
- Anno di pubblicazione: 2015
The program: il libro dal quale è stato tratto il film omonimo di Frears
A pensar male si fa peccato, ma spesso si azzecca, diceva Giulio Andreotti. Al giornalista irlandese David Walsh qualcosa non era mai andato giù dei boom improvvisi di buoni atleti e piccoli campioni, diventati di colpo monumenti dello sport mondiale. Uno per tutti, in particolare, il ciclista americano Lance Armstrong, il cui successo si deve ad un cinico progetto illecito di potenziamento esponenziale delle capacità agonistiche: “The program”, titolo del libro di David Walsh (di recente proposto in Italia da Sperling & Kupfer, 420 pagine, 18,90 euro), dal quale è stato tratto il film omonimo di Stephen Frears, con Ben Foster e Dustin Hoffman.
Prima del 1999, Armstrong aveva disputato quattro Tour de France, dimostrandosi un corridore valido, ma mai tanto da far pensare che un giorno sarebbe stato capace di vincerne sette di seguito. Infatti, per farlo ha dovuto dare vita alla più impenetrabile campagna scientifica di doping applicato allo sport.
Walsh ha cominciato a sospettare dal primo Tour vinto da Lance, ma la conferma dei dubbi è arrivata solo nel 2012, con la conseguente revoca di tutti i successi e, quel che è peggio, con la pesante ammissione da parte di Armstrong.
Osservando il mondo del ciclismo, aveva pensato che non si potesse vincere senza assumere sostanze dopanti, quindi, sia lui che i compagni di squadra dovevano farlo e il team statunitense mise in piedi un articolato programma illegale, basato sull’uso di farmaci per migliorare le prestazioni fisiche.
Per campioncini e gregari non c’era scelta: solo entrando nel programma si poteva far parte di una formazione famosa, vincente e generosa con i suoi ciclisti.
Il doping era diffuso nel mondo del ciclismo internazionale anni ’80-’90, mai però pianificato scientificamente come nel caso di Armstrong: Epo e poi autoemotrasfusione, più un larghissimo uso di sostanze per coprire le tracce e risultare immacolati ai controlli antidoping.
Fin dal Tour del 1999 Walsh aveva quindi cominciato a dubitare delle performance inedite del texano. Cinque anni prima, il giovane Lance, promettente campione in prospettiva, aveva accusato un pesante distacco nei 6,8 chilometri del prologo a cronometro in Vandea. Quell’anno, invece, nonostante la chemioterapia affrontata per sconfiggere il tumore ai testicoli, Armstrong aveva stracciato perfino il miglior risultato sullo stesso percorso di un grandissimo delle corse contro il tempo, come Miguel Indurain. Nelle tappe successive, era diventato all’improvviso perfino uno scalatore imbattibile. Nasceva più di una gelosia, ma si alimentava contemporaneamente il mito del Tour della rinascita dagli scandali doping del 1998, una resurrezione legata ad un campione “rinato” dal cancro e capace di attrarre sulla corsa francese l’attenzione dei grandi media americani.
Quel primo giro di Francia vinto da Armstrong è la chiave del libro di Walsh, un esempio alto di giornalismo d’inchiesta, la ricostruzione della più grande montatura sportiva di tutti i tempi. Per realizzare il suo lavoro, il cronista irlandese, responsabile della redazione sportiva del Sunday Times, ha dovuto scontrarsi con la compatta fratellanza dei ciclisti professionisti, mettersi contro l’intero mondo delle due ruote, che può essere un carrozzone festoso e colorato, ma anche una fortezza ostile.
Dal prologo in Vandea e dalle prime tappe di montagna del ’99, Walsh, che aveva avuto conoscenza del doping artigianale dei ciclisti pre Epo (eccitanti, cortisonici, anabolizzanti) avverte il tanfo dell’imbroglio, senza ancora sospettare la mostruosa organizzazione che gli si rivelerà strada facendo. Risultati falsati costruiti in farmacia, ma una cosa è chiara: i corridori, quasi tutti, fanno capire che il doping è affare loro. Si chiudono a riccio, escludono i non addetti ai lavori, soprattutto i giornalisti.
Dopato non è solo il ciclismo. Alle Olimpiadi di Seul, nel 1988, la velocista americana Griffin-Joyner infranse il record del mondo dei 200 piani rallentando nel finale. Superò indenne i controlli antidoping e assicurò di essere pulita. Ma le sue prestazioni erano semplicemente assurde. Pochi giorni dopo, scoppiò lo scandalo Ben Johnson. Lo sprinter canadese, oro sui 100, risultò positivo agli anabolizzanti. Podio e medaglia cancellati con disonore. A chi gli diceva che gli avversari della finale non erano dopati, il suo legale obiettò sarcasticamente: posso essere brutto, ma non stupido. Il fatto è che tutti i giornalisti sportivi evitano di fare le domande giuste e di scavare, commenta Walsh. Insomma, preferiscono essere tutti stupidi.
Chi non è né brutto né stupido, ma enormemente più ricco e famoso di prima, è il Signor Tour de France. Lo scandalo Festina del 1998 lo ha ferito ma non ucciso, il sapiente sfruttamento del campione più forte del male del secolo lo ha reso immortale.
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