Troppo umana speranza
- Autore: Alessandro Mari
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Feltrinelli
- Anno di pubblicazione: 2011
Nelle giornate emozionanti del 150° anniversario dell’Unità ho preso in mano questo libro la cui quarta di copertina parla di un grande romanzo sulla giovinezza, del corpo e dello spirito. Un romanzo sul Risorgimento. Un romanzo di oltre 700 pagine. Italo Calvino, quando era editor della casa editrice Einaudi, scoraggiò il giovane Alberto Arbasino che si era presentato proponendo un lungo manoscritto, affermando che un autore esordiente non può superare le 200 pagine, se spera di essere letto. I tempi sono cambiati, se Alessandro Mari ha avuto il coraggio di pubblicare il suo primo libro senza timore dell’eccessiva lunghezza, senza la paura di scoraggiare lettori non troppo motivati. Io devo riconoscere di aver faticato ad entrare nell’atmosfera del romanzo e ne ho interrotto la lettura almeno un paio di volte. Poi però, mi sono fatta catturare dalla forza della narrazione, dall’intreccio quasi labirintico delle vicende in cui i personaggi si incontrano e si perdono, ognuno solo davanti al proprio destino.
Nella prima metà dell’800, quando l’Italia non esisteva ancora, Mari ci racconta storie emblematiche, alcune di personaggi piccoli e insignificanti, altre di grandi della storia: Colombino, un contadino lombardo, un po’ Renzo manzoniano, figlioccio del curato del suo paese che lo ha istruito sul libri sacri e lo ha cresciuto, anche se il resto del paese lo considera uno scemo; Leda, orfana ridotta in schiavitù per essere stata l’amante di una spia, viene accolta da un’organizzazione che trama contro i patrioti purchè si infiltri a Londra tra i mazziniani e riferisca i loro progetti insurrezionali; Lisander, modesto pittore milanese che tenta la fortuna dipingendo dame dell’aristocrazia non disdegnadone le grazie, per arrotondare il guadagno e per raggiungere l’obiettivo di comprare una camera ottica, un’assoluta novità che gli permetta di entrare nel mondo della nascente fotografia. Vicino a loro, ecco le figure di Josè e Aninha, a Laguna, in Sud America; si tratta di Garibaldi e Anita, al tempo del loro primo incontro, mentre il giovane marinaio nizzardo si sta facendo strada nella lotta dei popoli americani contro la tirannia, e lei è una bellissima creola diciottenne che per seguire il fascinoso italiano abbandona tutto, madre dei suoi tre figli, fino alla morte; infine Pippo, l’esule Giuseppe Mazzini che a Londra ha stabilito il suo quartier generale, spiato ma anche amato dalla giovane Leda, divenuta ora Lorenza Maranto, che finisce per innamorarsi di un giovane patriota e della causa italiana; seguirà Mazzini sfidando la tortura e la morte.
Troppo difficile seguire la trama del romanzo-fiume in tutti i suoi rivoli, nei suoi intrecci, negli incontri casuali che vedono Colombino insieme a Garibaldi, Colombino con Ciceruacchio, Colombino con papa Pio IX, Leda-Lorenza che intercetta le lettere dei fratelli Bandiera, Garibaldi con Ugo Bassi, con Medici, con Manara. Assistiamo alle barricate delle Cinque Giornate milanesi, dalla parte di chi non ne sapeva nulla ma che si fa alla fine contagiare dall’entusiasmo: ecco Lisander che riprende con il suo nuovissimo macchinario le barricate, i morti, i feriti, immortalando la grande storia nelle sue immagini sfocate. Si esce dalla lettura del romanzo di Mari avendo conosciuto i personaggi dei libri di scuola da vicino, fuori della retorica risorgimentale che ha tanto nuociuto alla nostra coscienza di Italiani. Mazzini, Pippo, ha una pelle delicata, piena di peli di barba che gli creano infezioni, beve solo caffè, è un uomo solitario ma pieno di una forza morale e un ardore didascalico che contagia chi gli è vicino. Garibaldi ha gli occhi color del miele, un fascino indiscusso, un amore sconfinato per la giovane Anita, che però non gli impedisce di abbandonare lei e i figli, e di farla vivere precariamente, ossessionato dal desiderio di combattere.
Il linguaggio che Mari ha dovuto trovare per raccontare le sue storie è frutto di un grosso impegno stilistico: di nuovo come Manzoni, ha dovuto imparare ad esprimersi con il linguaggio e i dialetti meneghini, per rendere verosimile il racconto; e poi il portoghese-brasiliano del sud America, l’inglese italianizzato degli esuli in Inghilterra, gli idiomi trasteverini, il francese di Nizza, il dialetto genovese: tutta una babele delle lingue preunitarie si mescolano nel testo. Nell’ultima pagina l’autore descrive in estrema sintesi, molto efficace, il suo metodo di lavoro:
“Ho proceduto per accumulo e fascinazione. Ho ricalcato e inventato. Ho voluto la pertinenza ma ho percepito un piacere più forte quando, dentro la verosimiglianza, ho sentito aprirsi la strada della immaginazione”.
Il suo lavoro merita attenzione e grande apprezzamento, anche se, forse, qualche pagina di troppo, qualche lungaggine, c’è.
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