Paolo Di Paolo è nato nel 1983 a Roma. È autore tra l’altro dei romanzi Dove eravate tutti (2011, Premio Mondello e Premio Vittorini) e Mandami tanta vita (2013 Finalista Premio Strega). Di Indro Montanelli, ha curato per Rizzoli La mia eredità sono io. Pagine da un secolo (2008) e Nella mia lunga e tormentata esistenza. Lettere da una vita (2012).
Da poco è in libreria Tutte le speranze. Montanelli raccontato da chi non c’era (Rizzoli 2014) dedicato alla figura del grande giornalista nato a Fucecchio in provincia di Firenze il 22 aprile 1909 e scomparso a Milano il 22 luglio 2001.
Il romanzo sarà presentato a Roma il 19 maggio alle 18 presso la Feltrinelli Libri e Musica Piazza Colonna 31/35 Roma. Interviene con l’autore Pierluigi Battista.
“Quante vite dentro una vita sola: quest’avventura così intensa, irripetibile, affollata di volti, di storie, di viaggi, carica di rischi, di errori, di ombre, di abbagli, di eresie, di successi e di fallimenti, di fedeltà a se stessi. Questa maestosa solitudine. È stato per me un privilegio, una fortuna averla sfiorata”.
Munito della sua vecchia Olivetti Lettera 22 color verde acqua, il Maestro del giornalismo italiano con la sua “scrittura bella, vivace, che si staccava dalle altre del suo tempo come qualunque colore si stacca dal grigio”, ha attraversato un secolo raccontandolo usando la penna come un fioretto conoscendo l’arte dell’ironia e della battuta. Indimenticabile l’allergia poco italiana di Montanelli “al conformismo, ai clan, alle cricche, ai giri, alle complicità servili” unita a questa sua ostinazione a esserci, anno dopo anno, decennio dopo decennio “soltanto in forza del proprio stesso nome: senza sponsor, senza alleanze, senza cedimenti”.
- Tutte le speranze. Paolo, qual è il significato del titolo del libro?
È una frase di Montanelli che a un certo punto dice “di essere stato condannato a vivere tutte le speranze del secolo” e intende ovviamente il Novecento, il XX Secolo che è stato il suo e che ha attraversato quasi per intero. Mi sembra che fosse un titolo giusto, perché questa “condanna” ad attraversare tutte le speranze è proprio il tratto che unisce anche una generazione che è quella di Montanelli e forse anche quella successiva. Una generazione che arriva fino agli Anni Venti che più ha avuto a che fare con la speranza.
- Per descrivere il Suo primo impatto con il giornalista cita la frase di Fitzgerald tratta dal romanzo Il grande Gatsby: ”Se la personalità è una serie ininterrotta di gesti ben riusciti, allora c’era qualcosa di fastoso in lui”. Ce ne vuole parlare?
Mi sembra che fosse un gioco letterario quello di associare questa figura di Montanelli a un personaggio letterario con cui non ha niente a che fare se non che c’è uno sguardo, che quel romanzo si posa sul Grande Gatsby guardandolo come un vero e proprio prodigio esistenziale, quasi una sorta di uomo contornato da uno scintillio particolare. Allora ho giocato così letterariamente per far capire che quel modo di guardare, che era il mio, era il modo di uno che restava incantato da questa perfezione apparente almeno dei gesti, da questa sicurezza e da questo modo di essere.
- “... mi ero messo in testa di fare il giornalista”. Desidera ricordare ai nostri lettori i momenti salienti del Suo rapporto con l’uomo che “non ha mai voluto mettere d’accordo nessuno”?
Ho cominciato da adolescente avendo grande passione per l’idea di diventare giornalista. Guardavo a Montanelli come patriarca di una generazione di grandi giornalisti, guardavo a lui come un mito, come qualcosa di leggendario. Gli scrissi alcune lettere che sono state pubblicate nella sua rubrica La Stanza di Montanelli sul Corriere. A un certo punto Montanelli mi telefonò, perché era curioso di questo giovane interlocutore a cui lui aveva guardato con una certa perplessità. Un ragazzino quindicenne con un nome curioso come il mio che gli si rivolgeva con tanta costanza effettivamente lo sorprendeva.
- “In un Paese più abituato dell’Italia all’epica, Montanelli starebbe fra Hemingway e Truman Capote, e la sua lunga esistenza pronta per un soggetto hollywoodiano. C’è tutto il necessario”. Ci può chiarire la Sua riflessione?
Quella di Montanelli fu una vita talmente avventurosa, sopra le righe che se l’Italia non fosse un Paese che si sminuisce continuamente proietterebbe Montanelli su di un orizzonte che non sarebbe quello di un semplice giornalista. Era un personaggio da film hollywoodiano, la sua vita fu talmente intrisa di Novecento, di incontri incredibili che hanno a che fare con tutti i protagonisti del secolo. Associo Montanelli a Hemingway per la parte epica del racconto e lo associo a Truman Capote per la straordinarietà della scrittura.
- Chi era il lettore tipo di Montanelli, “quel nome più forte dei giornali per cui scriveva” che andava in edicola per leggerlo, per sapere cosa ne pensava e come vedeva le cose, per ridere di gusto ma anche per sbraitargli contro “ripiegando poi il giornale con aria soddisfatta”?
È difficile da dire, perché Montanelli aveva un pubblico di lettori affezionati che negli anni del Corriere coincidevano in gran parte con il pubblico di questo grande giornale borghese. Era una delle firme più visibili, più rilevanti dalla fine degli Anni Trenta fino ai primi Anni Settanta, Montanelli ha ininterrottamente scritto per quel giornale rappresentando la grande borghesia milanese, italiana, sentendosene l’interprete. Poi negli Anni Settanta quando il giornalista fonda Il Giornale il suo pubblico cambia un po’, era un pubblico insofferente della linea presa dal Corriere negli Anni Sessanta, che era un po’ verso Sinistra, e allora diventa sicuramente un pubblico più conservatore, se non, come qualcuno poi sospettava, reazionario...
Ritrova un pubblico paradossalmente diverso quando una volta lasciato Il Giornale fonda La Voce, un pubblico che forse non è neanche più il suo, che sarebbero stati i suoi nemici trent’anni prima e che invece diventano i suoi sostenitori, perché Montanelli prende una posizione molto forte e molto netta contro Berlusconi. Tornando al Corriere, alla metà degli Anni Novanta, Montanelli trova parte della sua vecchia famiglia e anche lettori molto giovani, tra i quali c’ero anch’io.
Una cosa va sottolineata: raramente oggi si dice “compro un giornale per quella firma” come accadeva con Montanelli.
- “Il Novecento finiva sul precipizio di quell’estate”: un ragazzo morto senza un motivo e un gigante del giornalismo che si arrendeva alla morte. Che cosa accomuna il giovane Carlo Giuliani e il vecchio Indro Montanelli oltre al fatto che nessuno dei due avrebbe visto “dai televisori quella gigantesca nuvola di fumo ricoprire Manhattan e segnare l’inizio di un’altra storia”?
Non credo che ci sia la possibilità di tenere insieme questi due elementi ma è incredibile la coincidenza: Montanelli muore nell’estate del 2001 mentre a Genova infuria quella battaglia e quel ragazzo perde la vita. Non c’è un nesso tra i due fatti se non la contemporaneità: Montanelli lascia il suo secolo, nella prima o seconda estate del nuovo in un momento che diventa significativo per l’inizio di questo nuovo secolo, cioè il fallimento di una speranza generazionale che a Genova si è infranta. Di lì a poco sarebbero crollate le Twin Towers a New York aprendo una stagione completamente diversa, un secolo anche visivamente diverso. Un ragazzo ribelle moriva sulle barricate in una città italiana mentre il vecchio giornalista a pochi chilometri di distanza lasciava il suo secolo e la sua vita.
- “Addio Indro, il Novecento, il tuo secolo, ora è davvero finito” scrisse Ferruccio De Bortoli sul Corriere della Sera ricordando il giornalista e amico appena scomparso. Concorda con la riflessione del direttore del quotidiano milanese?
Sì, per quello che ho detto un attimo fa: il secolo è finito lì, il secolo è finito sull’inizio del nuovo come spesso succede, non è proprio la data del calendario che conta, conta anche altro. È incredibile che Montanelli mancato a 92 anni non abbia fatto in tempo a vedere gli eventi che ci avrebbero precipitati nel nuovo secolo. Montanelli lascia il secolo e forse il secolo finisce con Montanelli.
- Il celebre slogan montanelliano Turatevi il naso e votate DC coniato per le elezioni politiche del 1976 è ancora valido, anche se la Democrazia Cristiana non esiste più?
No, non credo che sia valido oggi, quello era un invito un po’ brusco legato a quell’epoca, era l’invito al meno peggio. Effettivamente l’unica cosa che rende attuale lo slogan non è tanto il riferimento alla Dc quanto il “turatevi il naso”, nel senso che molti elettori sentono di essere costretti a votare il meno peggio “turandosi il naso”. Non mi sembra questo un modo felice di votare, ma da molti anni a questa parte andare felicemente alle urne sembra essere quasi vietato.
- Che cosa ritiene che avrebbe pensato Montanelli dell’Italia di oggi?
Sarebbe stato uno straniero in patria come lui si definiva, non era uno che le mandava a dire agli italiani e all’Italia. Oggi parlerebbe di un’Italia che farebbe fatica a riconoscere. Resterebbe sorpreso di certe cose. Già nel ’98 quando Montanelli scrive un poscritto all’ultimo volume della Storia d’Italia dice di non riconoscersi più nel Paese ma di non poter rinunciare a essere italiano. Oggi ribadirebbe più o meno le stesse cose, restando anche sorpreso di certe “evoluzioni politiche”. Forse sarebbe sorpreso della presenza ancora sulla scena pubblica di Berlusconi che Montanelli credeva, come aveva detto nel 2001, sarebbe uscito di scena molto prima.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista a Paolo Di Paolo, autore di “Tutte le speranze. Montanelli raccontato da chi non c’era”
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