Viaggio a Montevideo è probabilmente il componimento più noto dei Canti orfici, l’unica opera di Dino Campana (1885-1932): una raccolta di poesie, prose liriche e frammenti.
Ne conoscete l’odissea editoriale? L’autore consegnò l’unica copia manoscritta alla redazione fiorentina de Lacerba, rivista d’avanguardia, che la smarrì.
Pertanto fu costretto a riscriverla a memoria, prima di farla stampare a sue spese in edizione limitatissima nel 1914 dal tipografo Ravagli di Marradi, suo paese natale. Pensate: costava 10 lire! Non è poco: quasi 40 euro. Ma la storia non finisce qui.
Questo articolo non entra in merito all’orfismo poetico novecentesco, di cui Campana è considerato capostipite. Desidera semplicemente avvicinare il pubblico, non solo gli studenti, all’orizzonte immaginifico di un poeta unico, enigmatico e oscuro.
Per non insultare la bellezza della lirica con una parafrasi di petulante precisione, verrà proposto il significato complessivo dei blocchi presi in esame. Anche perché l’insistita polisemia, rafforzata da puntini di sospensione, regala molte zone d’ombra. È proprio questo il bello.
Viaggio a Montevideo: testo
Io vidi dal ponte della nave
I colli di Spagna
Svanire, nel verde
Dentro il crepuscolo d’oro la bruna terra celando
Come una melodia:
D’ignota scena fanciulla sola
Come una melodia
Blu, su la riva dei colli ancora tremare una viola
Illanguidiva la sera celeste sul mare:
Pure i dorati silenzii ad ora ad ora dell’ale
Varcaron lentamente in un azzurreggiare:
Lontani tinti dei varii colori
Dai pi˘ lontani silenzi!
Ne la celeste sera varcaron gli uccelli d’oro: la nave
Già cieca varcando battendo la tenebra
Coi nostri naufraghi cuori
Battendo la tenebra l’ale celeste sul mare.
Ma un giorno
Salirono sopra la nave le gravi matrone di Spagna
Da gli occhi torbidi e angelici
Dai seni gravidi di vertigine. Quando
In una baia profonda di un’isola equatoriale
In una baia tranquilla e profonda assai pi˘ del cielo notturno
Noi vedemmo sorgere nella luce incantata
Una bianca città addormentata
Ai piedi dei picchi altissimi dei vulcani spenti
Nel soffio torbido dell’equatore: finchè
Dopo molte grida e molte ombre di un paese ignoto,
Dopo molto cigolìo di catene e molto acceso fervore
Noi lasciammo la città equatoriale
Verso l’inquieto mare notturno.
Andavamo andavamo, per giorni e per giorni: le navi
Gravi di vele molli di caldi soffi incontro passavano lente:
Sì presso di sul cassero a noi ne appariva bronzina
Una fanciulla della razza nuova,
Occhi lucenti e le vesti al vento! ed ecco:
selvaggia a la fine di un giorno che apparve
La riva selvaggia sopra la sconfinata marina:
E vidi come cavalle
Vertiginose che si scioglievano le dune
Verso la prateria senza fine
Deserta senza le case umane
E noi volgemmo fuggendo le dune che apparve
Su un mare giallo de la portentosa dovizia del fiume,
Del continente nuovo la capitale marina.
Limpido fresco ed elettrico era il lume
Della sera e là le alte case parevan deserte
Laggiù sul mar del pirata
De la città abbandonata
Tra il mare giallo e le dune.
Viaggio a Montevideo di Dino Campana: metrica e analisi
Metrica: versi liberi dall’andamento a spirale per riprese parallele con espansione progressiva.
(vv.1-8)
Dal ponte della nave io vidi svanire i colli di Gibilterra, mentre la terra scura celava una sorta di musica: sulla riva vidi risuonare una viola (strumento musicale; pochi la identificano con l’omonimo fiore) solitaria come una melodia serale.
Cosa ci mostra il quadro introduttivo, i cui labili contorni in movimento fanno coppia con una sintassi vicina al collasso? Ci mostra in dissolvenza ciò che il poeta vede in modo sempre più indistinto mano a mano che la nave prende il largo. Sembra che il ricordo associ la partenza alla musica, fondendo melodie e cromatismi in libertà. Però il focus viene deviato e mantenuto sull’asse sensoriale dell’io lirico da sinestesie stranianti, che ricamano il tessuto poetico. Nel 1908 Campana fece davvero la traversata dell’Atlantico dalla Spagna all’America del Sud, in preda a quella smania di vagabondaggio che accompagnò un uomo inquieto come lui, sempre in fuga da se stesso? Sì, stando alle sue dichiarazioni allo psichiatra che lo seguì. Prove non ce ne sono. Alcuni ne misero in dubbio la veridicità, tra cui Ungaretti che di viaggi se ne intendeva.
(vv.9-17)
La sera azzurra si spense sul mare: di tanto in tanto passarono nel cielo degli uccelli marini color giallo-oro. Questi superarono in volo la nave i cui passeggeri avevano il cuore gonfio di smarrimento. (Non c’è traccia di nostalgia).
Il cromatismo degli uccelli vira in base alla loro posizione rispetto al cielo. Da un lato assumono il colore dell’oro, perché illuminati dal sole al tramonto; dall’altro si fondono con l’azzurro del cielo, ma nella parte più alta poiché in basso sta calando l’imbrunire. Precisiamo che anche il poeta è in movimento, non solo l’oggetto del suo sguardo. Ciò conferisce all’insieme un particolare dinamismo.
A ridosso della partenza l’animo dei passeggeri è rivolto a ciò che lasciano. Per questo motivo sono smarriti in senso esistenziale, ignari di direzione e sorte. Il poeta i cuori li chiama “naufraghi”. Solo più avanti tale smarrimento cede il passo a curiosità e stupore di fronte alla vista del Nuovo Mondo. Nel frattempo alcuni francobolli temporali (crepuscolo, sera celeste, tenebra) puntellano il passaggio dal tramonto alla notte tanto amata dall’autore.
(vv.18-21)
Una volta, durante uno scalo in Spagna, salirono a bordo donne dagli occhi angelici e misteriosi, dai seni prosperosi e seducenti.
Il verso 18 è il più breve del componimento a segnalare una pausa. Infatti introduce il primo scalo e nuovi passeggeri: donne misteriose, dalla femminilità esuberante e conturbante. La donna in Campana - sospesa tra sogno e realtà -, generalmente si attesta sulla polarizzazione bene/male e derivati semantici.
Le donne iberiche potrebbero simboleggiare l’imprinting europeo che accompagnò il randagismo dell’autore, come qualcuno ipotizza?.
(vv.21-31)
Un’altra volta, ancorati al sicuro nella baia di un’isola equatoriale, vedemmo ai piedi delle montagne una città bianca. Poi risalpammo nelle acque agitate dell’oceano.
I preparativi che precedono la partenza sono arricchiti dal dato uditivo.
La città appare ignota e misteriosa avvolta da una luce particolare, analoga a quella di Montevideo.
Secondo lo stesso Campana, questo scalo toccò Porto Grande a São Vicente, una delle isole Barlavento dell’arcipelago vulcanico di Capo Verde, al largo della costa dell’Africa occidentale. L’isola deve il suo nome al fatto di essere stata scoperta dai portoghesi nel 1462, proprio il giorno di san Vincenzo che cade il 22 gennaio.
Questa tappa in un paese esotico è un primo assaggio per preparare psicologicamente il lettore all’arrivo nel Nuovo Mondo. Un arrivo, come vedremo, all’insegna del giallo, del mare e della promessa di nuove avventure.
(vv.32-36)
Dopo giorni di navigazione incrociammo imbarcazioni a vela, provenienti dalla direzione contraria. Nella parte rialzata a poppa (cassero) apparivano ragazze mulatte, occhi vivaci e leggere vesti al vento.
Cinque versi condensano con rara potenza la tratta più ampia del viaggio dalle isole di Capo Verde al Sud America. Merito del corsivo che, scorporandoli dal testo, li proietta nel paradigma dell’atemporalità. Merito dell’andamento favolistico iterativo: la traversata è monotona e lunga (“andavamo, andavamo, per giorni e per giorni”).
Oggi le crociere turistiche compiono in poco più di una settimana la stessa traversata che ai primi del Novecento richiedeva mesi.
(vv.37-49)
Finalmente ci apparve in lontananza una costa selvaggia. Qui vidi una catena di colline di sabbia “vertiginose” (come le donne ispaniche del primo scalo, ricordate?). Sullo sfondo la prateria sconfinata e deserta. Apparve da lontano Buenos Aires alla foce del Rio de la Plata, dalle acque limacciose. Finalmente la nave, passata al largo di Buenos Aires, è in prossimità di Montevideo. Alla fine negli occhi, nella mente, nel cuore del lettore resta l’incanto del giallo di dune e fiume e dell’incognita di nuove scoperte.
La visione della capitale argentina e della meta di Montevideo è avvolta dal mistero e dalla sorpresa di chi vede per la prima volta uno spettacolo fuori dall’ordinario.
Viaggio a Montevideo di Dino Campana: figure retoriche
Ecco una manciata di figure retoriche significative presentate in ordine alfabetico:
- Ossimoro: v.17 “la tenebra celeste” indicante il passaggio dal tramonto all’imbrunire;
- Replicazione di “varcaron” e “celeste” nel blocco vv.11-17; di “dune” e “giallo” nel blocco vv.39-49. Per alcuni la replicazione concorre alla musicalità, per altri sarebbe spia di ossessività ansiosa. A mio avviso le due ipotesi non si escludono a vicenda, anzi.
- Sinestesia: vv.7-8 “melodia blu” a rivelare la qualità cromatica del suono; v.10 “dorati silenzi” fonde colore e assenza di suono: gli uccelli marini dal volo silenzioso sembrano assorbire la luce del tramonto.
Viaggio a Montevideo di Dino Campana: commento
Uno dei motivi di fascinazione della poesia risiede nell’alternanza tra il ricordo della traversata – cristallizzato dal passato remoto -, e la sua percezione che ha il sapore di un’allucinata presa diretta.
Il viaggio è l’architrave dei Canti orfici che suggeriscono un iter iniziatico verso la verità che, a differenza dei simbolisti, non si palesa. “Viaggio a Montevideo” è una delle tappe. Non a caso l’ultimo componimento della raccolta è dedicato a Genova: porto reale e simbolico per antonomasia.
Per Campana il viaggio però non si conclude con il raggiungimento della meta. In Viaggio a Montevideo il viaggio è un vagabondaggio fisico e psicologico alla ricerca di un ubi consistam. Diverso da quello immaginato di Mallarmé o mediato dal mito in Pascoli. Ma è anche una fuga, figlia dell’esotismo romantico, alla ricerca di mondi incontaminati. Infine è un viaggio della memoria orfica da non confondere con quella volontaria dei ricordi biografici, in quanto memoria collettiva di matrice ancestrale. E poi, come dimostra il testo in questione, i dati di realtà, vera o presunta, vengono scardinati dall’interno.
Campana è un poeta visionario?
Anceschi è l’artefice di questa fortunata definizione. A suo avviso Dino Campana si inserisce in una compagine frastagliata che dai simbolisti francesi approderebbe a Montale. Con la seguente specifica, mi sento di aggiungere. Il simbolismo decriptato da Baudelaire mediante le corrispondenze, in Rimbaud diventa allucinazione e in Mallarmé si incaglia nell’indecifrabilità del mistero.
Campana è un poeta visivo?
Contini riconduce Dino Campana ai poeti maledetti francesi solo sul piano biografico per instabilità psichica, emarginazione, nomadismo e follia. In questo modo ridimensiona a poeta visivo l’etichetta di poeta visionario. Invece Saba, senza andare troppo per il sottile, lo liquidò come un matto scambiato per poeta.
Viaggio a Montevideo: il mistero del manoscritto in copia unica
A distanza di tempo il manoscritto di Viaggio a Montevideo fu rinvenuto e pubblicato nel 1973 con il titolo originario Il più lungo giorno. Volete conoscere il nome dei direttori un po’ distratti della rivista Lacerba? Giovanni Papini e Ardengo Soffici.
Il primo ricevette da Campana una lettera minatoria, a seguito della svista. Nel 1971 tra le carte del secondo, Soffici si spense nel ’64, fu ritrovato il prezioso originale.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Viaggio a Montevideo di Dino Campana: testo e analisi del più bello dei Canti Orfici
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