Essere bohémien, uno stile di vita bohémien, chissà quante volte avrete sentito utilizzare questi termini, in riferimento soprattutto ai giovani o a chi conduce uno stile di vita singolare, fuori dai margini proprio perché artistico, eccentrico o estroso.
Detto in francese suona sicuramente più dolce, come un eufemismo o un vezzoso complimento: bohémien, per non dire randagio, “spatriato”, ribelle o vagabondo. Bohémien dona un’aura poetica, un estro artistico persino all’esistenza condotta nella maniera più irregolare: oggi il termine rappresenta un essere “fuori norma” consentito dalla giustificazione artistica, ecco, oppure uno stile di vita randagio, fuori dai canoni, insofferente alle regole sociali.
Un tempo la parola “bohémien” designava gli artisti che vivevano nei sobborghi parigini, sopravvivendo a stento con un lavoro precario e conducendo una vita nomade e sregolata.
Quello che non tutti sanno, però, è che il termine bohémien nasce da un errore interpretativo poi eternato da un libro che a sua volta ispirò una celebre opera. Scopriamo quale.
“Bohémien”: il reale significato del termine
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Come spiegato dal professore dell’università di Yale John M. Merriman nel saggio The Margins of City Life. Explorations on the French Urban Frontier, 1815-1851 in cui osserva che la parola “bohémien” era emersa nel corso dei secoli come il simbolo più saliente dell’individuo “escluso”, senza proprietà, mobile, che vive in ogni luogo, ma in “nessun luogo errante” ed è spesso, legittimamente, sospettato di furto.
A partire dal 1830 la parola “zingaro” acquisì un connotato secondario volto a designare “una vita di vagabondaggio o disordine sociale”, mentre bohémien venne a rappresentare la “differenza sociale reale o permanente”.
Era l’immagine dell’ultimo outsider, indubbiamente affascinante; non a caso la peculiare definizione attirò anche scrittori, tra i quali ricordiamo Charles Dickens che sovente prese ispirazione per i suoi personaggi da queste figure - poeti, saltimbanchi, musicisti, drammaturghi - che abitavano gli oscuri sobborghi di Parigi. Nel 1880 il pittore Vincent Van Gogh utilizzò la parola “bohémien” per descrivere gli artisti all’avanguardia e sé stesso, divenne un concetto per lui da leggere in chiave autoreferenziale. Era un’idea di libertà, di indipendenza selvaggia, di vita “senza padroni”, qualcosa che andava oltre i confini del mondo dell’arte per assumere una caratterizzazione ben precisa.
Questa nuova concezione contribuì ad alimentare il mito del bohémien che sarebbe stato celebrato, tra gli altri, anche dal poeta Charles Baudelaire nell’emblema dell’albatros, suo malcelato alter ego. La vita bohémienne incarnava in Baudelaire il rifiuto delle regole soffocanti della società borghese e il diritto all’inquietudine che nutriva il vivere artistico, l’ispirazione stessa del poeta. Ribellarsi alle convenzioni che opprimevano il pensiero creativo: letterati, scrittori, pittori declinavano la parola bohémien in questo aspetto filosofico. Ma, attenzione, perché non era questo il senso originario.
Il termine bohémien in verità deriva da una falsa credenza o, sarebbe meglio dire, da un pregiudizio. Nasceva infatti con un intento spregiativo, per definire gli artisti della banlieue parigina che vivevano di espedienti e conducevano una vita precaria, irregolare: venivano paragonati ai gitani, per il loro stile di vita nomade. Solo che, secondo il pregiudizio francese dell’epoca, i gitani erano originari della Boemia, nell’attuale Repubblica Ceca. Da qui la declinazione del termine: bohémien. Oggi sappiamo che si trattava di un pregiudizio: nella Francia dell’Ottocento i boemi erano gli “stranieri” per eccellenza, come conseguenza della Guerra dei trent’anni che aveva costretto un intero popolo a emigrare.
Il termine, nato quindi da un errore di fondo, da un pregiudizio culturale, venne poi eternato dal romanzo di Henry Murger: Scènes de la vie de bohème che avrebbe, a propria volta, ispirato la celebre opera di Puccini “La Bohème”.
“Bohémien”: il termine tramandato da un libro
Il termine “Bohémien” fu poi eternato dalla letteratura, che guardava con curiosità alla vita di questi artisti, molti dei quali erano poeti o esponenti del mondo letterario. Nel romanzo di Murger, i protagonisti erano un gruppo di giovani squattrinati che vivevano in una soffitta parigina nutrendo ispirazioni artistiche, dalla musica alla pittura alla poesia. La trama si svolge nel periodo invernale e vede al centro la relazione tra Rodolfo e Mimì, una giovane donna che per mantenersi fabbrica fiori di stoffa. Provata dal rigido freddo invernale e da una vita di stenti, si ammalerà di tubercolosi, divenendo l’eroina tragica che oggi noi ben conosciamo.
Il libro di Henry Murger fu pubblicato a puntate tra il 1845 e il 1849 sulla rivista “Le Corsaire-Satan” e ottenne un notevole successo, tanto da diventare un tema gettonato nei soggetti letterari dell’epoca e ispirare l’omonima opera di Puccini, La Bohème. La prima opera lirica di ambientazione moderna, che proponeva personaggi “nuovi”, più aderenti alla realtà a loro contemporanea e, tuttavia, non mancava di analizzare temi delicati e universali quali la povertà, la malattia, la morte.
Forse anche grazie alla celebre opera di Puccini la parola bohémien oggi conserva il segreto originario del suo fascino: non riusciamo a leggere questo termine con intento dispregiativo o denigratorio, continua a mantenere e restituire intatta una promessa radicale di libertà.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Bohémien”: significato e vera origine del termine tratto da un libro
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Ottima spiegazione, aggiungo solo che Alain Fournier in Le grand Meaulnes introduce un bohémien come personaggio, senza alcun disprezzo. Ho sempre sentito los Jitanos riferito a gruppi che risiedono in Spagna e si guadagnano da vivere con spettacoli di canto e danza e les Tziganes riferito ai rom o altri non stanziali provenienti dall’ Europa dell est