Fra il 1824 e il 1832 Giacomo Leopardi compose 24 testi in prosa, di stampo filosofico e satirico, poi confluiti nella raccolta Operette morali.
Pubblicate in edizione definitiva nel 1835, esse sono di fondamentale importanza per la comprensione del pensiero e della poetica di Leopardi.
Una delle più conosciute è il Dialogo della Natura e di un Islandese, in cui la maggior parte della critica ravvisa il passaggio definitivo dal pessimismo storico a quello cosmico.
Dall’infelicità di tipo psicologico-individuale propria delle Operette precedenti, si passa al concetto di Natura come unica colpevole della misera condizione dell’uomo.
Dialogo della Natura e di un Islandese: trama
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Un uomo in fuga dalle avversità che la natura procura arriva in Africa e si imbatte in una donna enorme seduta per terra, appoggiata al fianco colossale di una montagna: è la Natura stessa.
Il suo volto è bello e terribile insieme, l’aspetto, in generale, piuttosto inquietante.
La gigantesca creatura domanda all’uomo chi esso sia e lui risponde di essere un islandese che cerca in ogni maniera di sfuggire alle intemperie e alle asprezze della Natura.
Quando la strana figura femminile afferma di essere proprio lei la Natura, il viaggiatore la accusa di essere responsabile dei suoi patimenti e di quelli di tutti gli altri umani.
Senza scomporsi, la donna gli risponde che il mondo non è stato creato per l’uomo e che se questo, un giorno, dovesse scomparire, lei neppure se ne accorgerebbe.
A questo punto l’Islandese, attraverso un esempio, le chiede come mai, visto che non è l’uomo a scegliere di esistere, lei non fa almeno qualcosa per renderlo felice.
La Natura, a questo punto, dà una spiegazione meccanicistica del creato, definendolo un ciclo incessante di creazione e distruzione a cui nessuno può sfuggire. Malattia e morte sono condizioni necessarie dell’esistenza.
Il genere umano è dunque solo una parte infinitesimale del tutto. Quando l’Islandese chiede il perché della vita e dell’universo, non gli viene fornita alcuna risposta. È questo un mistero insondabile, che nessuno conosce.
La domanda dell’uomo rimane sospesa come un interrogativo lacerante:
A chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?
Il dialogo si conclude con la tragica fine dell’Islandese, sbranato da due leoni oppure, travolto da un vento fortissimo, morto sotto la sabbia e diventato una mummia. Nel finale viene negata, attraverso il dramma che colpisce il protagonista, ogni possibile visione provvidenziale dell’esistenza.
Analisi e significato del Dialogo della Natura e di un Islandese
Rispetto alle Operette morali precedenti, il Dialogo della Natura e di un Islandese segna il passaggio dal pessimismo storico a quello cosmico.
La Natura, che fino a quel momento Leopardi aveva considerato in modo positivo, diventa l’unica e sola responsabile dell’infelicità dell’uomo.
Si tratta di una svolta fondamentale nel pensiero e nella poetica del poeta recanatese, ormai convinto che la Natura, crudele o, al massimo, indifferente, crei il genere umano con il solo scopo di perseguitarlo.
Il suo fine non è il bene né del singolo né della collettività, bensì la loro sofferenza.
È un’idea di pessimismo totale e di materialismo assoluto che investe tutti gli esseri viventi, compresi gli animali.
Le tempeste, le malattie, le belve, le difficoltà climatiche e, non ultime, il decadimento fisico e la vecchiaia, sono alcuni dei mali che l’islandese, alter ego dello stesso Leopardi, enumera in modo puntiglioso e quasi ossessivo, a dimostrazione dei patimenti ai quali, ineluttabilmente, si è costretti a sottostare.
A un certo punto del dialogo la Natura, incalzata dalle domande del viaggiatore, dà una risposta che, in sintesi, altro non è che l’idea che di essa ha l’autore:
Tu mostri non aver posto mente che la vita di quest’universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra sé di maniera, che ciascheduna serve continuamente all’altra, ed alla conservazione del mondo; il quale sempre che cessasse o l’una o l’altra di loro, verrebbe parimente in dissoluzione. Per tanto risulterebbe in suo danno se fosse in lui cosa alcuna libera da patimento.
L’uomo è solo una parte piccola e insignificante del creato, governato da leggi eterne e immutabili che non ne contemplano affatto né il benessere né, ancor meno, la felicità.
La sofferenza è pertanto una parte ineluttabile della vita, come dimostra il finale del racconto, venato di un’amara e sconsolata ironia, in cui l’islandese, dopo tante peripezie, resta vittima della crudeltà di quella stessa Natura che aveva tentato invano di sfuggire.
Il modello letterario del "conte philosophique"
Il modello letterario su cui Leopardi si basa per la composizione del Dialogo della Natura e dell’Islandese è il conte philosophique (racconto filosofico), che aveva imperversato in Francia nel XVIII secolo.
In particolare, prende spunto da Candide, opera di Francois-Marie-Arouet de Voltaire.
La personificazione dell’idea filosofica della Natura è un tratto tipico di questo filone.
In una nota alle Operette Leopardi stesso poi dichiarava di essersi ispirato a un episodio del V canto del poema epico portoghese I Lusiadi di Luiz Vaz de Camões (1524 ca. - 1580), di cui è protagonista il navigatore Vasco de Gama che doppiò il Capo di Buona Speranza.
Stile dell’opera
Anche lo stile del Dialogo della Natura e di un Islandese si discosta da quello delle Operette morali a esso precedenti, dove prevale la contemplazione fredda e distaccata dell’infelicità propria del saggio dall’animo imperturbabile.
Qui la scrittura è appassionata, incalzante e convulsa, anticipatrice di quella che, in seguito, caratterizzerà La ginestra.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Dialogo della Natura e di un Islandese: riassunto, analisi e commento dell’Operetta morale di Giacomo Leopardi
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