Sono numerose le fotografie in bianco e nero che ritraggono Elsa Morante circondata dai suoi amati gatti. In queste immagini i felini appaiono come un prolungamento diretto del corpo della scrittrice: fanno capolino da sopra la sua spalla, le si arrampicano in braccio, oppure sbucano dal davanzale della finestra riposto proprio dietro il suo scrittoio.
Elsa spesso li tiene tra le braccia amorosamente, seduta su una sedia di paglia del suo giardino: i gatti sembrano guardare dove lei guarda e riprodurre con fedeltà ogni sua espressione. Nello sguardo accigliato, pensoso, della scrittrice si riflette l’iride piena dell’occhio del felino.
Tra i gatti ed Elsa Morante vi era una sorta di affinità spirituale: erano creature dotate della stessa indipendenza, della stessa andatura schiva e solitaria e della medesima necessità di vagabondare, libere e impunite, per le strade di Roma.
Tutti i gatti di Elsa Morante
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Della sua passione per i felini Elsa non faceva mistero: in un celebre autoritratto, contenuto nel suo primo libro Le bellissime avventure di Caterì dalla trecciolina scritto quando aveva solo quattordici anni, si raffigurava circondata da due gatti. Il volume fu poi pubblicato da Einaudi nel 1942 per rendere testimonianza dell’originalità della voce e dello stile di Morante sin dagli esordi. I racconti sono semplici, scritti da una bambina per i bambini, tuttavia rivelano - persino in quella scrittura acerba e indisciplinata - il germe della fantasia dell’autrice che presto sarebbe maturato dando vita a capolavori della letteratura italiana, quali La Storia e Menzogna e sortilegio. Il volumetto contiene le illustrazioni originali di Morante, con schizzi e disegni realizzati da lei stessa.
Nell’introduzione alla prima edizione einaudiana del libro, Elsa scrisse:
A quel tempo, essa non aveva nessun Editore. Aveva due gatti di diversa grandezza, ma di uguale importanza.
I gatti furono una costante nella vita di Elsa Morante, sin dalla prima giovinezza, erano gli angeli tutelari della sua scrittura. Si racconta che, durante le sue lunghe passeggiate per Roma, la scrittrice fosse solita portare con sé del cibo per nutrire i gatti randagi della città. Di questa adorabile mania rende testimonianza Patrizia Cavalli, che di Morante fu inseparabile amica, nella raccolta di racconti Con passi giapponesi (Einaudi, 2019).
In un passo del libro, Cavalli ricorda una lontana notte di capodanno trascorsa insieme a Elsa Morante a dar da mangiare ai gatti randagi di Piramide:
Anni fa nel periodo degli slogan del “Potere a qualcuno”, con Elsa Morante abbiamo festeggiato il capodanno comprando cinque chili di carne da distribuire ai gatti della Piramide.
Gettando questa carne lei gridava: “Potere ai gatti! Potere ai gatti!”. C’era lì accanto un triste turista dell’Est che diceva: “Da noi i gatti li uccidono tutti”.
Anziché stappare lo spumante, Elsa nutriva i felini. E per loro era disposta persino a digiunare, testimonia infatti il biografo Luca Fontana che Morante si rifiutava di pranzare in una celebre trattoria romana poiché il proprietario aveva in antipatia il suo gatto. Per i felini la scrittrice nutriva un amore totale, sconfinato, in loro si identificava in maniera quasi simbiotica.
Sempre Fontana nel libro Elsa Morante: A personal Remembrance riporta gli appuntamenti di Elsa “la gattara” raccontando le sue passeggiate notturne per le vie di Roma, munita di cibo a sufficienza, con un solo scopo: “nutrire il maggior numero possibile di gatti della capitale”.
In una nota contenuta nel Diario di Sils Maria la scrittrice giunse a paragonare i gatti agli angeli, e in particolare i gatti siamesi alle fate:
Posso dire che fino ad oggi, io sono arrivata a conquistare una sola verità assoluta: gli animali sono gli angeli. E fra questi angeli: gli arcangeli, le fate, sono i gatti siamesi.
Secondo Morante nei gatti era riposta la forma di amicizia più vera e autentica perché non comprendeva l’ombra del giudizio. Sul foglio di guardia posteriore di uno dei quaderni manoscritti di Menzogna e sortilegio furono inoltre ritrovati degli schizzi autografi della scrittrice, in cui ritraeva gatti siamesi, oppure il suo volto pensoso in un autoritratto che sfumava lentamente in un’immagine felina.
Nella poesia Avventura, scritta nel 1948 per Luchino Visconti, Morante sembra fornire al lettore un perfetto autoritratto poetico in cui ribadisce ancora una volta la sua “discendenza felina”:
Invece, Lisa è il mio nome, nacqui nell’ora amara
del meriggio, nel segno del Leone,
un giorno di festa cristiana.
Fui semplice ragazza,
madrina a me fu una gatta.
Scopriamo ora le celebri poesie che Elsa Morante dedicò ai suoi amati felini, il gatto Alvaro e la siamese Minna.
Canto per il gatto Alvaro di Elsa Morante: testo e analisi
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La presenza del gatto Alvaro riveste un ruolo centrale nel capolavoro di Elsa Morante, Menzogna e sortilegio (1948). La narratrice Elisa infatti sin dal principio - nel secondo capitolo del romanzo - dichiara di trovarsi in compagnia di un “essere vivente” non umano. Alvaro diventa quindi l’unico testimone della saga familiare di Elisa, colui che la accompagna durante il lungo e faticoso processo di stesura del racconto. La narratrice lo definisce “solo mio compagno vivente in questa camera solitaria.”
Com’io mi accingo a tracciare la parola fine, egli che m’è stato sempre vicino mentr’io scrivevo questa lunga storia, mi guarda coi suoi graziosi occhi fedeli. E sembra dire a Elisa, che nonostante tutto, l’innocenza
e l’amicizia dureranno finché duri il mondo.
Alcuni critici hanno osservato il rapporto singolare che la narratrice intrattiene con l’animalità che talvolta sfocia in una metamorfosi quasi simbiotica. La scrittura non a caso è definita “ferina” e - come nota Rosi Braidotti - in essa si compie una sorta di metamorfosi verso il “divenire animale” una forma di ibridazione che conduce alla costruzione di nuovi spazi. Animalità e umanità si contaminano e si confondono in un processo quasi osmotico che supera i limiti spaziali e temporali. Impossibile dunque pensare ad Elisa senza la compagnia del micio: proprio al suo silenzioso spettatore la narratrice dedica, in conclusione, una poesiola che la aiuta a concedarsi dai lettori dischiudendo al contempo una nuova dimensione esistenziale, non antropocentrica.
Nella poesia dedicata al gatto Alvaro, contenuta nelle pagine finali del romanzo, questa forma di relazione simbiotica tra uomo e animale è evidenziata dal verso che afferma: “E t’ero uguale!”.
Fra le mie braccia è il tuo nido,
o pigro, o focoso genio, o lucente,
o mio futile! Mezzogiorni e tenebre
son tue magioni, e ti trasformi
di colomba in gufo, e dalle tombe
voli alle regioni dei fumi.Quando ogni luce è spenta, accendi al nero
le tue pupille, o doppiero
del mio dormiveglia, e s’incrina
la tregua solenne, ardono effimere
mille torce, tigri infantili
s’inseguono nei dolci deliri.Poi riposi le fatue lampade
che saranno al mattino il vanto
del mio davanzale, il fior gemello
occhibello. E t’ero uguale!Uguale! Ricordi, tu,
arrogante mestizia? Di foglie
tetro e sfolgorante, un giardino
abitammo insieme, fra il popolo
barbaro del Paradiso. Fu per me l’esilio,
ma la camera tua là rimane,
e nella mia terrestre fugace passi
giocante pellegrino. Perché mi concedi
il tuo favore, o selvaggio?Mentre i tuoi pari, gli animali celesti
gustan le folli indolenze, le antelucane feste
di guerre e cacce senza cuori, perché
tu qui con me? Perenne, tu, libero, ingenuo,
e io tre cose ho in sorte:
prigione peccato e morte.Fra lune e soli, fra lucenti spini, erbe e chimere
saltano le immortali giovani fiere,
i galanti fratelli dai bei nomi: Ricciuto,
Atropo, Viola, Fior di Passione, Palomba,
nel fastoso uragano del primo giorno...
E tu? Per amor mio?Non mi rispondi? Le confidenze invidiate
imprigioni tu, come spada di Damasco le storie d’oro
in velluto zebrato. Segreti di fiere
non si dicono a donne. Chiudi gli occhi e cantami
lusinghe coi tuoi sospiri ronzanti,
ape mia, fila i tuoi mieli.
Si ripiega la memoria ombrosa
d’ogni domanda io voglio riposarmi.
L’allegria d’averti amico
basta al cuore. E di mie fole e stragi
coi tuoi baci, coi tuoi dolci lamenti,
tu mi consoli,
o gatto mio!
Minna la siamese di Elsa Morante: testo e analisi
In una poesia contenuta nella prima raccolta poetica di Morante Alibi, edita nel 1952 per Longanesi, l’autrice dedica una singolare ode alla sua gatta siamese di nome Minna.
In essa si fa riferimento a quanto Morante aveva citato nel saggio Il paradiso terrestre (1950), che vedeva gli animali abitare in una realtà edenica. I gatti si fanno quindi portatori di una forma di grazia celeste capace di alleviare le sofferenze terrene degli umani.
In questo stesso saggio Elsa scriveva una frase che suona quasi come un ammonimento o una maledizione:
Infelice l’uomo che ignora tale consolazione di questa simile amicizia! Per lui la terra è davvero un esilio sconsolato.
Questa concezione è ripresa nella poesia dedicata alla gatta Minna, nella quale Morante narra l’idillio amicale tra lei e la gatta, pur constatando infine, amaramente, che la micia infine potrebbe sopravvivere benissimo anche senza di lei. Della gatta Minna, Morante racconta i giochi, i sonni tranquilli, le coccole e le fusa che sono paragonate con una felice metafora al “suono di una chitarretta”.
Segue quindi il racconto di un’intima solidarietà non governata da alcuna legge: non hanno alcun motivo, Elsa e Minna, per essere care l’una all’altra, nessun obbligo o legame di parentela, eppure sono inseparabili. Talvolta la scrittrice guarda la gatta con affettuosa pietà, e si preoccupa per il suo destino, ma infine ricorda che la reciproca appartenenza non è necessaria per la sopravvivenza dell’una né dell’altra.
I gatti non hanno bisogno degli altri - sono esseri intelligenti e perfettamente compiuti in se stessi - proprio come Elsa Morante che era dotata della stessa fiera, selvaggia e “felina” indipendenza di pensiero.
Ho una bestiola, una gatta: il suo nome è Minna.
Ciò ch’io le metto nel piatto, essa mangia,
e ciò che le metto nella scodella, beve.
Sulle ginocchia mi viene, mi guarda, e poi dorme,
tale che mi dimentico d’averla. Ma se poi,
memore, a nome la chiamo, nel sonno un orecchio
le trema: ombrato dal suo nome è il suo sonno.
Gioie per dire, e grazie, una chitarretta essa ha:
se la testina le gratto, o il collo, dolce suona.
Se penso a quanto di secoli e cose noi due divide,
spaùro. Per me spaùro: ch’essa di ciò nulla sa.Ma se la vedo con un filo scherzare, se miro
l’iridi sue celesti, l’allegria mi riprende.
I giorni di festa, che gli uomini tutti fan festa,
di lei pietà mi viene, che non distingue i giorni.
Perché celebri anch’essa, a pranzo le do un pesciolino;
né la causa essa intende: pur beata lo mangia.
Il cielo, per armarla, unghie le ha dato, e denti:
ma lei, tanto è gentile, sol per gioco li adopra.Pietà mi viene al pensiero che, se pur la uccidessi,
processo io non ne avrei, né inferno, né prigione.
Tanto mi bacia, a volte, che d’esserle cara io m’illudo,
ma so che un’altra padrona, o me, per lei fa uguale.
Mi segue, sì da illudermi che tutto io sia per lei,
ma so che la mia morte non potrebbe sfiorarla.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: I gatti di Elsa Morante: dal canto per il gatto Alvaro alla poesia per Minna
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