Francesca Veltri, nata nel 1976, è ricercatore di Sociologia politica presso l’università della Calabria. Ha pubblicato per la casa editrice Rubbettino due saggi sul pensiero di Simone Weil e il dibattito francese fra le due guerre. Nel 2017 è stata coautrice del testo Il Movimento nella Rete (Rosenberg & Sellier). Finalista al premio Calvino nel 2002 con il romanzo Davide era stanco, nel 2015 arriva al secondo posto al concorso letterario La Giara Rai: nel 2016 pubblica Edipo a Berlino con RaiEri in versione digitale e nel 2019 in edizione cartacea con la casa editrice Divergenze.
- Grazie per aver accettato l’intervista. Lei, a mio giudizio, ha scritto il miglior libro dell’anno. Seicentosettanta pagine di meraviglia. Perché ha scelto la casa editrice Divergenze e non Einaudi, ad esempio, solo per nominare un editore grande?
Il romanzo, quando era ancora un grosso insieme di pagine in A4, è stato presentato nel 2015 al concorso La Giara di RaiEri (la casa editrice RAI) arrivando al secondo posto. Rai Eri ha rifiutato di stamparlo in cartaceo, proponendo solo un’edizione digitale. Nel frattempo io ho cercato alternative presso case editrici medio-grandi, incoraggiata dai giudizi positivi ricevuti al concorso, ma nessuna era interessata, e quindi ho accettato l’offerta di Rai Eri. L’ebook è uscito nel 2016 senza alcuna promozione, anzi la casa editrice Rai ha fatto capire in più modi di non essere assolutamente interessata a farlo circolare, di conseguenza nessuno si è accorto che esistesse… quindi ho ripreso a proporlo ad altre case editrici, sia grandi che medie che piccole (ovviamente evitando l’EAP). Einaudi è stata tra le poche quantomeno a rispondermi, per dirmi che la storia non li convinceva abbastanza da pubblicarla. Altri hanno fatto leva sulla quantità di pagine, per dirmi che un lettore non lo avrebbe neanche aperto. Pensavo di dovermi rassegnare… poi succede che mi iscrivo a un forum di scrittori, che oggi purtroppo non esiste più, il Writer’s Dream, una vera miniera di informazioni, e da lì scopro che nel 2018 è nata Divergenze, casa editrice con un’attenzione a libri che appaiono ‘poco commerciali’, ma che scopro essere molto belli. Mi dico che potrei provare anche con loro, e finalmente arriva una risposta positiva. Accettano di stampare Edipo a Berlino. Pubblicano solo in cartaceo, perché danno una grande cura e attenzione all’oggetto libro in quanto tale, quindi la presenza dell’edizione digitale per loro non è un problema. Io ne sono contenta perché per me digitale e cartaceo sono due canali complementari, e penso sia importante essere su entrambi.
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Con Divergenze il romanzo esce nel 2019. La casa editrice inizia a promuovere il testo con passione, alle fiere, agli incontri, suggerendolo a lettori che possano esserne incuriositi, e io, avendo finalmente il cartaceo, grazie all’aiuto di amici e colleghi, posso darmi a mia volta da fare a presentarlo nelle librerie o in altre occasioni in cui vengo invitata. Anche il passaparola agisce, molti lettori mi scrivono per dirmi che la storia è loro piaciuta e che la faranno conoscere (evidentemente la mole e il contenuto non sono stati sufficienti a scoraggiarli, come avevano profetizzato varie case editrici, anzi). Così siamo arrivati alla quarta edizione, e qualche migliaio di copie è in giro, ‘a zonzo’ come dice l’editore. Sarò sempre grata a Divergenze per aver dato una possibilità alla storia di Edipo a Berlino, di averlo salvato dall’oblio.
- Questo libro dovrebbe essere un testo letto nelle università, dagli studenti del tecnico e dai liceali. Eppure ha avuto così tante difficoltà per darlo alle stampe: ha avuto dei giorni di scoramento o la bellezza e l’urgenza di scrivere sono più forti di qualunque delusione?
I momenti di scoraggiamento li ho avuti, come no. Soprattutto dopo il concorso di Rai Eri, quando ho capito che aver vinto un premio nazionale non sarebbe servito a nulla, che i giudizi positivi del comitato di lettura, sia a livello regionale che nazionale, non avrebbero aiutato a farlo circolare, che in fondo questo concorso era l’ennesimo vicolo cieco. Li ho avuti durante la lunga ricerca autonoma per trovare qualcuno che fosse disposto a credere in questo romanzo, a investirci su. Li ho avuti ad ogni risposta negativa, ma non ho mollato, perché se non altro a me la storia piaceva e ci credevo. Anche quando pensavo che nessuno lo avrebbe mai letto e conosciuto, non ho rimpianto di aver passato anni a scriverlo, perché da quando mi si è formata in testa la storia, volevo che prendesse forma. Volevo leggerla io, averla davanti in concreto, non solo nei meandri della mia mente.
Ed è stato proprio in questo periodo ‘buio’ che ho iniziato a scrivere anche un nuovo romanzo, Malapace, pubblicato nel 2022 con Miraggi Edizioni, altra casa editrice che ho amato molto per il suo catalogo, prima di entrare a far parte dei suoi autori. Del resto ho ancora un paio di testi nel cassetto, che forse usciranno o forse no, e ne sto scrivendo un altro, senza sapere che fine farà...
Per quel che posso ricordare ho sempre avuto voglia e bisogno di scrivere, perché alcune storie mi affascinavano e volevo vederle prendere forma. Fosse anche stato solo per me. Il fatto che oggi ci siano persone che hanno conosciuto Edipo a Berlino e ora leggono Malapace, mi scrivono cosa ne pensano e mi restituiscono i personaggi rivestiti dalle loro emozioni, dai loro punti di vista, è un dono grande per me, che nei periodi bui non mi sarei aspettata e che mi dà un’altra ragione per continuare. A parte la curiosità di vedere cosa ne viene fuori. Quando scrivo ho più o meno chiara la struttura che intendo seguire, ma tante cose vengono fuori solo nel momento in cui provo a metterle su carta. Cose, dialoghi, personaggi e immagini a cui non avrei pensato. Oppure mi escono cose diverse da quelle che avevo in mente. La scoperta è continua, ed è una fatica, a volte comporta sofferenza, rabbia, ma non potrei farne a meno.
- Perché questo titolo? Ammetterà che se uno non legge la quarta di copertina può pensare a un romanzo di altro argomento, a una tragedia greca, che però non sarebbe lontana allo spirito di questo libro.
Si tratta di un titolo strettamente legato alla storia che racconto, fin dalla sua prima stesura che ormai risale a più di vent’anni fa. Mi è venuto in mente dopo aver letto Edipo vince a Stalingrado di Gregor Von Rezzori. Non è uno dei libri suoi che mi sono piaciuti di più, ma vedendo quel titolo ho pensato ‘perché no?’, dato che per anni, mentre mi immaginavo la storia del mio protagonista, avevo in mente la vicenda di Edipo Re, e in particolare queste parole:
“sai da chi sei nato? E non ti accorgi di essere nemico ai tuoi di sottoterra e di quassù. Una doppia maledizione, della madre e del padre, un giorno da questo paese ti caccerà. Se adesso hai buona vista, allora non vedrai che tenebre. E a quale approdo non arriveranno le grida tue? Quel giorno ti darà nascita e morte”.
Edipo commette atti che a lui paiono giusti e che sono riconosciuti come tali anche da chi gli sta intorno, finché il suo mondo non si capovolge e a quel punto tutte le cose che ha compiuto diventano per lui e per gli altri delle atrocità che lo costringono a fuggire prima di tutto da se stesso, e poi da tutto quello che lo circonda. Così accade anche nella storia che ho voluto raccontare. Alla base del romanzo sta l’idea che un atto possa sembrare normale e addirittura apprezzato in un contesto, e un crimine in un altro, la domanda su quanto le nostre convinzioni siano plasmate dall’ambiente in cui viviamo, su cosa avrei fatto io, o altri, vivendo e crescendo in una situazione totalmente diversa: cosa avremmo considerato giusto, e cosa sbagliato?
Il libro è nato da questa domanda. Che ovviamente riguarda soprattutto il protagonista, ma non solo. Coloro che lo circondano, i personaggi con cui via via viene in contatto, devono confrontarsi con una realtà in totale mutamento, del tutto diversa da quella che credevano di aver compreso. In ognuno di loro c’è un po’ del mio dubbio, della mia paura. Quando stavo scrivendo la prima stesura, io e i miei compagni avevamo l’età del protagonista nella prima parte. Dopo aver descritto l’omicidio che compie, ricordo di aver guardato i volti dei miei coetanei e di aver pensato «ma no, non sarebbe possibile…». Come dice Yael a un certo punto: «quante certezze avete voi che siete persone educate». Oggi, che ho quarant’anni, guardo con angoscia anche maggiore alle scelte di Kurt, che non a caso ha un retroterra culturale assai simile al mio. E di certezze non ne ho più.
La tragedia greca non dà risposte, solo domande, solo interrogativi, solo dilemmi, ed è per questo che mi ci ritrovo tanto, fin da quando l’ho scoperta al liceo. In un certo senso, l’Edipo della tragedia e l’Edipo del romanzo sono figli di una stessa questione. Aggiungo che alcuni lettori, che avevano presente la rilettura del mito data da Freud, si aspettavano un rapporto intimo madre/figlio che di fatto non c’è, perché non era quella la parte di Edipo che mi interessava di più, anche se è la ragione che ha reso più celebre la sua figura.
Andiamo avanti. Perché Berlino? Da ragazzina ero stata particolarmente impressionata da alcune foto della capitale tedesca nel 1945, al punto da ‘vedere’ le immagini della terza parte quando ancora non avevo scritto neppure la prima. A quel punto la scelta è venuta da sola.
Un’altra domanda: perché ambientare larga parte del romanzo proprio in Polonia, a Varsavia? Sarebbe facile rispondere che l’ho fatto per via della rivolta del ghetto, che in effetti mi ha affascinato fin da quando ne ho sentito parlare per la prima volta, ma non sarebbe vero. In effetti, all’inizio avevo immaginato una storia parallela che si svolgeva tutta in Germania, ma avendo passato l’adolescenza in compagnia dei libri di Isaac Singer, romanzi e racconti, mi ero appassionata ai suoni, ai colori, alle voci, perfino ai nomi delle strade della Varsavia ebraica, a quel mondo scomparso che parlava yiddish, visto con gli occhi di qualcuno che lo scoprisse dal di fuori, come fa il protagonista a partire dalla seconda parte. Anche in questo caso la scelta è venuta spontanea; forse non si può definirla neppure del tutto una scelta, soprattutto via via che arrivavano gli altri dettagli, il ghetto e la sua incredibile sopravvivenza, la sua incredibile resistenza, la ricchezza del dibattito politico, filosofico, artistico che vi si era sviluppato, in mezzo alla devastazione più terribile: il tutto percepito dall’esterno, dallo sguardo ‘altro’ di chi non ne avrebbe mai fatto parte.
- Io lo definirei romanzo storico, anche se c’è molto dialogo in alcuni punti. Le va bene la definizione romanzo storico atipico?
Le categorie letterarie per me sono sempre state un problema, quindi faccio fatica a usarne una. Sinceramente non saprei se il mio è un romanzo storico atipico rispetto ad altri. Posso dire che non desideravo scrivere un libro dove la storia dei protagonisti fosse una scusa per narrare in un modo originale la ‘grande’ Storia, quella con la S maiuscola (a quel punto personalmente preferisco un documentario), quanto piuttosto un romanzo dove la Storia con la S maiuscola facesse da sfondo, uno sfondo essenziale senza cui le azioni dei personaggi non avrebbero avuto senso, e ad essere in primo piano ci fossero le storie dei singoli attori, le loro scelte, i loro dilemmi. I loro dialoghi, scambi, paure, amori.
- Non so quale sia la sua conoscenza storica in generale e se la storia contemporanea sia stata materia di studio universitario. Ma, in ogni caso, sulla notte dei cristalli a Berlino nel 1938 o la storia del ghetto di Varsavia ha dovuto leggere molto. È così?
Storia è una materia che mi è sempre piaciuta, al liceo e poi anche all’Università e alla Scuola Normale. Mi sono laureata in filosofia con indirizzo di storia del pensiero politico, soffermandomi in particolare sul pensiero di Simone Weil e poi ho proseguito al dottorato con questo ibrido tra analisi dei fatti storici ma anche delle discussioni che erano scaturite da questi fatti, e dalle loro differenti interpretazioni. Questo tipo di studi mi ha dato l’opportunità di imparare a trovare fonti, a distinguere tra quelle più o meno attendibili, avere accesso a documenti e archivi.
La prima versione del romanzo, che scrissi giovanissima, risentiva del fatto che ancora mi mancassero molti elementi, poi scoperti in seguito. Posso anzi dire che più trovavo libri – sia di ricostruzione storica che testimonianze – più mi veniva voglia di riprendere il testo e di riscriverlo da cima a fondo, come poi ho fatto. Sulla Notte dei Cristalli ho trovato molti testi e materiali, non solo su Berlino ma anche sulle altre città tedesche, sia dal punto di vista delle vittime che da quello, per me ovviamente essenziale, dei carnefici.
Via via che la storia prendeva forma, si dilatava, mutava e veniva riscritta, mi imbattevo in nuove letture, nuove figure che mi restavano in mente. Alcune di queste, realmente esistite, si sono mescolate alla storia tutta inventata del romanzo. So che non sarei in grado di scrivere su un personaggio reale, per quanto apprezzi chi ci riesce, ma era impossibile non far affiorare almeno di passaggio, di sfuggita, alcuni nomi; chi legge, se vuole, potrà facilmente scoprirne di più. Alcuni furono figure eroiche, come il dottor Korczak, altre figure tragiche, che si trovarono in prima linea in una catastrofe non più limitata al fronte, ma presente ovunque. Perfino, come i membri dello Judenrat, in posizioni di responsabilità durante periodi in cui la responsabilità rischiava di divenire solo colpa.
Non avrei potuto immaginare la vita quotidiana nel ghetto senza gli archivi di Emanuel Ringelblum, storico che nel ghetto ci ha vissuto e lottato, anche con i mezzi propri alla sua professione, quelli di raccogliere interviste, fotografie, materiali, di mettere su dei veri e propri archivi insieme al suo staff, e poi di seppellirli sottoterra in grandi barili di latta, con la speranza che riuscissero a raggiungere le generazioni successive. Ringelblum è uno dei personaggi realmente esistiti che appaiono di sfuggita nel libro. Sentivo di doverlo citare, per aver dimostrato, parafrasando una canzone di De Gregori, che “anche uno storico può essere utile in una bufera” e che “anche in mezzo a un naufragio, si deve ricordare”, raccogliendo interviste, testimonianze, creando un archivio senza neppure sapere se gli sarebbe sopravvissuto. Un archivio creato, oltretutto, «sine ira et studio», per quanto possibile, monito indelebile a chi ancora oggi, come me, lavora nel campo delle scienze sociali e sa quanto complesso sia riuscirci in situazioni incomparabilmente meno dure. Ringelblum ha fatto sopravvivere chi è morto, vivendo i tormenti interiori che soggiornare presso il male comporta. Grazie al suo lavoro e ai diari e alle memorie di altri (Mary Berg, Marek Edelman, Alina Margolis, Władysław Szpilman solo per citarne alcuni) il ghetto di Varsavia non è scomparso, sepolto dalle sue ceneri.
Mentre passavo da una stesura all’altra, prendeva piede accanto ai libri il mondo della rete, e in rete ho potuto vedere stralci del filmato che i nazisti avevano girato nel ghetto, a cui faccio riferimento nel romanzo; destinato alla propaganda antisemita, rappresenta oggi una raccolta impressionante di immagini del ghetto, volti, strade, abitazioni. A questi materiali si uniscono le foto scattate e conservate da un soldato tedesco, Joe Heydecker, che durante la guerra riesce a passare il muro per ritrovare degli amici, come racconta nel suo libro di memorie (a cui mi sono richiamata indirettamente descrivendo l’episodio in cui Johann e Paul raggiungono Stefan). Lui non ha chiuso gli occhi, ha usato la macchina fotografica per far vedere, per mostrare e conservare. Oggi, nell’era dell’immagine, alcuni di quegli scatti sono tanto diffusi da essere dati per scontati, dimenticando il rischio che sono costati a chi per giunta combatteva dalla parte del Nemico. Possa il suo coraggio nel guardare non smettere di accompagnarci.
Per finire, ancora qualche ricordo del connubio fra reale e inventato che mi ha accompagnato lungo tutto il romanzo. L’apparizione di Heydrich, nella prima parte, è per certi versi assai più strettamente legata alla storia nel suo complesso di quanto non appaia a prima vista; antisemita estremo, aveva passato larga parte della sua vita a smentire denunce su una sua presunta origine ebraica, segno di quanto facile fosse, all’epoca, incorrere in accuse del genere. Meno note, ma per me non meno importanti, sono state le storie di chi si è visto attribuire irrevocabilmente un’identità ebraica senza essersi mai considerato tale, come racconta al protagonista uno dei personaggi, Dawid. Non fu un caso isolato, non è solo finzione letteraria. Fra una stesura e l’altra del romanzo mi sono casualmente imbattuta nella storia di Csanád Szegedi, esponente di spicco del partito ungherese di estrema destra Jobbik, travolto dalla scoperta di provenire da una famiglia ebraica sopravvissuta allo sterminio. Edipo è ancora là, è qui ancora oggi, quando crediamo di sapere tutto anche solo su noi stessi, e in realtà non sappiamo. Allora esorcizziamo la paura tramite dèi, o tramite la scienza, senza che possano darci la certezze che cerchiamo, quella Verità spesso inseguita nel calore di un ‘noi’ che ci tenga per mano e ci dia sicurezza.
- Almeno io, non ho mai odiato Karl il nazista: forse perché non ho fatto in tempo a metabolizzare il suo delitto (terribile perché gratuito nella notte dei cristalli), forse perché prende vita subito dopo la sua nuova identità come Stefan, il polacco. Sono come la moglie Esther, che sa, ma lo perdona. Lei invece che pensa di Karl?
Non giudico i personaggi, per quanto possa condannarne le azioni, un po’ perché sono parte di me, un po’ perché non so cosa avrei fatto al loro posto. Ho vissuto sensazioni simili dal vivo, perché spesso mi è capitato di lavorare come insegnante nelle sezioni di alta sicurezza di varie carceri. Grazie a questa esperienza ho conosciuto persone che avevano compiuto atti orribili, o che erano entrati poco più che ragazzi in organizzazioni criminali all’interno delle quali avevano ucciso altri esseri umani. Eppure, quando li ho conosciuti, ho visto degli uomini, non dei mostri. Degli esseri umani come me, dotati di intelligenza, di ironia, di sentimenti. Ad alcuni di loro ho imparato a voler bene, senza mai dimenticare cosa avessero fatto, né loro stessi d’altronde lo dimenticavano, e a volte mi hanno fatto parte del desiderio impossibile di tornare indietro per fare altre scelte.
Spesso mi sono chiesta cosa avrebbero pensato le loro vittime di me, sapendo che non riuscivo a odiarli e che anzi mi faceva piacere lavorare con loro. A maggior ragione questo è un problema nel caso del protagonista: il fatto che si trovi a vivere in mezzo alle sue potenziali vittime rende la situazione più complessa, perché la capacità di andare oltre un orrore sperimentato sulla propria pelle è rarissima, quindi ho cercato di non attenuare le reazioni degli altri personaggi, dal momento che è umano anche odiare chi ti ha fatto del male o avrebbe potuto fartene, anche se ormai è cambiato e ha compreso la gravità di ciò che ha commesso.
- In realtà non è poi così gratuito il delitto di Karl. Cos’è questo senso di appartenenza che ha preso così tanto i giovani cresciuti durante il regime nazista contro gli ebrei?
L’appartenenza che un partito come quello nazista può dare, come dice lo stesso protagonista, è molto forte e profonda perché basata su una malintesa comunanza di sangue e di razza, oltreché ideologica. Al di là di tutto, il bisogno di appartenenza è insito nell’essere umano, ed è duro riuscire a staccarsene, anche quando si radicalizza e diventa un estremismo pericoloso per sé e per gli altri. Studiando i testi di Simone Weil mi sono spesso imbattuta nella tentazione, da lei descritta e stigmatizzata, di rifugiarsi in un ‘noi’ collettivo, in un’appartenenza che riesca a dar senso alle singole esistenze, ma anche ad assorbirle fino a dissolvere le individualità nell’insieme sociale, annullando responsabilità e scelte personali. C’è in questo il sentimento che fece dire a Trockij – parafrasando il “right or wrong my country’ di Churchill – la frase: ‘right or wrong, my party’. In nome dell’appartenenza si può arrivare a giustificare l’indifendibile, ma in questa appartenenza si trova anche calore, amicizia, senso di fraternità, di identità.
Mi viene spesso in mente questa frase del film ‘Noi credevamo’, sui risorgimentali poi delusi dalla loro lotta: “Noi, dolce parola”. Poter dire ‘noi’ racchiude in sé non solo un senso di potenza o di orgoglio, ma anche di dolcezza. Simone Weil aveva rifiutato di aderire al partito comunista prima e poi alla chiesa cattolica proprio per evitare il rischio di essere assorbita in un ‘noi’ che ne soffocasse la personalità. Eppure, il dilemma weiliano è che se l’uomo è solo e si rifugia nel privato, il rischio opposto è quello dell’egoismo, dell’individualismo esasperato.
Vivere in equilibrio tra questi due estremi è difficile, e ancora oggi, nell’era della fine delle forti appartenenze partitiche o religiose, non è un caso che un certo numero di ragazzi cresciuti in occidente e privi di radici abbiano aderito a gruppi come l’Isis, finendo in Siria a combattere in nome di un qualcosa da cui poi tornare indietro è risultato estremamente difficile. Per quanto mi riguarda, capisco bene il bisogno di appartenenza e anche il rischio che comporta; l’ho sperimentato da adolescente, e a distanza di quasi trent’anni, guardandomi indietro, so che non rinuncerei più a quella libertà che ha così tanto affascinato il protagonista nel ghetto, dove paradossalmente, nei vincoli sempre più stretti del corpo, incontra l’indipendenza dello spirito, quella di poter decidere da soli tra bene e male a costo di sbagliare, assumendosene la piena responsabilità. Ma so anche cosa significa la nostalgia del ‘noi, dolce parola’.
- La parte che ho trovato straordinaria nel libro è la vita nel ghetto di Varsavia. Soprattutto il periodo del contrabbando quando Stefan impara tutto da Yael, una figura di donna straordinaria (credo non la dimenticherò mai più), perché come Karl-Stefan è un groviglio di contraddizioni?
Yael è, sotto molti aspetti, un contraltare di Stefan, e forse è questo che nell’affiancarli mi ha più affascinato. Nel crearne il personaggio ho un debito di riconoscenza verso Isaac Singer, che mi ha guidato fin da ragazza nelle strade della Varsavia ebraica dove Yael cresce in mezzo ai delinquenti, fino a rischiare di finire nel traffico ampiamente documentato della prostituzione in direzione del Sudamerica. Se Stefan fatica a liberarsi di un’appartenenza troppo forte, Yael non ne ha mai avuta alcuna; se lui è abituato a obbedire, lei è abituata a infrangere le regole, fin da bambina. Come Yentl, il personaggio di Singer che si finge uomo per studiare la Torah, Yael è a disagio con il proprio sesso e con la propria femminilità; ma ha coraggio, spirito, autorevolezza, e in questo è simile alle tante ragazze che nella guerra del ghetto hanno combattuto esattamente come i loro compagni. Lei non combatte, ma fa contrabbando perché il suo spirito di sopravvivenza usa gli strumenti a lei più familiari, sa come confrontarsi con i responsabili del mercato nero da un lato e dall’altro del muro, ha un grande coraggio ma anche una profonda capacità di compassione, un’assenza di giudizio per cui lei, più ancora di Esther e di Samuel, riesce ad accogliere la doppia natura del suo amico e ad accettarla, lei che ha conosciuto il male degli uomini da subito, e non si è mai fatta illusioni su di loro. Io sono di parte, ovviamente, ma la considero uno dei personaggi cui sono più affezionata, e non è un caso se è lei ad aprire e chiudere l’intera storia.
- Come ho già scritto, per la scrittura, ma anche per gli aspetti di terrore e di azione, le pagine con Yael e Stefan che fanno contrabbando per portare più cibo nel ghetto di Varsavia sono sensazionali, con l’aggiunta della moglie di Stephan, Esther, che in mezzo al puro orrore ha pure tra le sue braccia sua figlia, la piccola Daniela. Tra le mani di un buon regista sarebbe un ottimo film, anche se faccio fatica a trovare ora dei nomi. Perché non ci ha nemmeno provato a far avere una storia sentimental-sessuale tra i due? Per Samuel? Troppo amici?
Confesso che molte volte ho fantasticato su un film o una serie che raccontasse questa storia, per esempio quando ho vinto il concorso Rai, che però come ente si è dimostrata totalmente disinteressata sia a livello editoriale che tantomeno di realizzazione cinematografica. Ho anche partecipato con questo romanzo al concorso Una storia per il cinema dello scorso anno, senza troppe illusioni, infatti sono stata già contenta che, pur non avendo vinto, abbiano dedicato al romanzo una menzione, il che mi fa pensare che a qualcuno sia piaciuto.
A volte mi sono immaginata dei fotogrammi di intere scene, mentre durante i miei viaggi mi aggiravo tra le strade di Varsavia, ormai completamente ricostruita, andando in cerca, strada per strada, di quello che poteva riportarmi agli ambienti del ghetto. O quando mi capitava di vedere dei filmati o delle foto d’epoca, e ci rivedevo i protagonisti. Forse resterà solo un sogno, non so.
Sull’assenza di un rapporto sentimental-sessuale tra Stefan e Yael, mi hanno interrogato un po’ di lettori, e mi sono trovata costretta a rifletterci grazie a loro, perché a me non era proprio venuto in mente. Forse perché sentivo Stefan profondamente innamorato di Esther, ed Esther era molto diversa da Yael. Un po’ perché aveva sperimentato a sua volta una forte appartenenza religiosa e politica, dunque in un certo senso Stefan poteva trovare in lei una parte di se stesso, inoltre il loro rapporto aveva caratteristiche più ‘tradizionali’, funzionava su una divisione di ruoli più simile al modo in cui Stefan era stato cresciuto ed educato, a causa della malattia di lei e del suo bisogno di un compagno che se ne prendesse cura, sebbene in più di un’occasione ci siano momenti di conflitto tra loro proprio perché a Esther questa suddivisione forzata di ruoli andava stretta.
Yael capovolge tutti i ruoli, lei che vorrebbe essere un uomo e comportarsi come tale, sebbene sia profondamente donna. La sua libertà anche sessuale sarebbe stata un problema per Stefan come lo era stata per Samuel, e in più un rapporto sentimentale, con tutte le premesse di un fallimento, avrebbe finito per distruggere anche quel profondo legame fraterno che li univa e che è una delle chiavi del cambiamento di Stefan. C’è poi anche la lealtà verso Samuel, il cui rapporto con Stefan è messo alla prova sotto tanti aspetti, e che immagino fosse geloso anche del cameratismo reciproco tra l’amico e la moglie, un legame per certi versi più profondo di quello che lui stesso aveva con lei.
A livello personale anch’io ho vissuto amicizie fraterne con uomini per cui non ho mai provato desiderio sessuale o sentimentale, ma un legame quasi altrettanto forte, proprio perché per me sono affetti che si generano in maniera diversa. Forse per questo per me era naturale che non scattasse quell’elemento tra i due personaggi.
- In tutto il libro aleggia, nell’orrore più assoluto, un inno all’amicizia. Forse fin troppo disinvolto tra uomo o donna, Stefan e Yael, ma sicuramente cameratismo maschile e femminile, grandissima anche quella tra Yael e Esther, tanto che la moglie di Stefan è gelosa solo all’inizio, ma poi basta. Non la bellezza, ma l’amicizia cambierà in meglio questo martoriato pianeta Terra? L’amore è già appartenenza e dolore?
Per me l’amicizia è un legame estremamente prezioso. So di essere diventata quella che sono anche grazie agli amici che ho avuto. Amicizie sopravvissute al distacco, alla lontananza, perché quando ci ritroviamo è come se non ci fossimo mai lasciati. Essere amici è difficile, significa anche scontri, dolore, ma è un dono così prezioso che solo a pochi posso veramente attribuire questa dicitura. Qualcuno di importante, per me, un tempo mi scrisse, proprio dopo la lettura di una delle prime stesure del romanzo che ‘sono gli amici che si hanno intorno a fare un uomo’. Tante volte mi è sembrato che questo tipo di legame, in letteratura, venisse sottovalutato, come se non fosse altrettanto degno di narrazione dei rapporti legati alla passione, all’amore. Eppure, è un genere diverso di amore. Simone Weil ha scritto molto sull’amicizia, anche su quella tra uomo e donna, da lei sperimentata direttamente. Io non so se possa cambiare in meglio le sorti di un intero pianeta, credo che nulla lo possa, ma sono convinta che possa agire in profondità nelle esistenze individuali. E darci modo di vivere in maggiore pienezza, su questo martoriato pianeta.
- Lasciando da parte Edipo a Berlino, ha già in cantiere un altro libro? Di che si tratta?
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Ho pubblicato nel 2022, per Miraggi Edizioni, Malapace. Di questo libro, assai più breve del precedente, posso dire che è ancora una storia di lacerazioni, di perdite d’identità, di domande e di dilemmi senza risposta. L’ambientazione storica è la stessa – la storia inizia in un campo di prigionia alleato alla fine della guerra – ma stavolta il romanzo si svolge in Francia, e riprende una questione che mi ha affascinato nel corso dei miei studi, ossia perché tante persone di sinistra, sia comunisti che socialisti, abbiano finito per collaborare con il governo di Vichy, facendo un patto col diavolo che ne avrebbe segnato il destino. Molti degli amici di Simone Weil hanno percorso questa strada, allievi come lei del filosofo Alain, mentre altri hanno imboccato la strada della Resistenza. Eppure, il confine tra queste scelte opposte era in quel contesto assai più scivoloso e sottile di quel che si possa pensare. Ho anche in cantiere altri due testi, ma essendo ancora in fieri, non so se vedranno una fine, o se prenderanno strade completamente diverse. Vedremo…
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista a Francesca Veltri, autrice di “Edipo a Berlino”
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