Manzoni, la Monaca, la cioccolata
Nei capitoli IX e X de "I promessi Sposi", Manzoni, sospendendo il racconto delle (dis)avventure di Renzo e Lucia, rievoca con una lunga e drammatica digressione la storia della "Monaca di Monza", che Giovanni Testori considerava la "cantina di dolore, di morte, di ingiustizia" di un romanzo la cui azione narrativa origina da un sopruso e i cui personaggi sono tutti tentati continuamente dal Male.
La storia di Geltrude, la Monaca di Monza
Predestinata quando era ancora nel grembo materno a una vita di rinuncia dalle convenzioni false e vincolanti di una società aristocratica in cui sussisteva fin dal medioevo la legge del maggiorascato, Gertrude gioca da piccola con bambole vestite da suora, frequenta scuole di religiosi, resta per tutta l’adolescenza rinchiusa tra le mura del chiostro per prepararsi ad una vita monastica che è l’unico suo posto nel mondo assegnatole dall’autorità paterna. All’inizio subisce passivamente, invidiando le sue compagne che tornano a casa o sposano uomini del loro stesso rango, ma quando, finito il noviziato, le è concesso di rientrare in famiglia per un breve periodo di riflessione prima di scegliere (ma altri hanno già scelto per lei) se abbracciare definitivamente la vita monastica o "tornare nel mondo", trova la forza di ribellarsi, di rivendicare la propria libertà, incorrendo nelle ire del genitore che non esita a segregarla in una stanza, costringendola a prendere i pasti da sola, senza potersi accostare alla tavola insieme con gli altri familiari.
La tavola, gli arredi, gli addobbi, le posate preziose, i cibi pregiati, le novità gastronomiche e i prodotti provenienti dalle nuove Terre appena scoperte - in primo luogo la cioccolata - servivano a risaltare il fasto, la ricchezza del tenore di vita e dei costumi di un casato.
L’ammissione alla tavola era il simbolo di un’inclusione in un mondo elitario e ricercato che attraverso le cerimonie del pranzo o della cena esibiva tutto il suo potere e la sua autorevolezza. A tavola si sancivano gli accordi e le alleanze, i matrimoni e le ostilità più durature. L’esclusione di Gertrude dalla tavola ratifica la sua ribellione e la sua estraneità colpevole dai riti e dai privilegi della vita familiare, la espelle dal mondo che conta, ricacciandola in una stanza buia e stretta del Palazzo, degradandone la dignità al rango del più umile dei servi. Persino la simpatia affettuosa di un paggio, barlume di un amore desiderato e forse ancora possibile, viene stroncata sul nascere dalle rigide regole familiari. Finché Gertrude, stremata e vinta, accetta le condizioni paterne e fu "monaca per sempre".
La scelta monastica è il frutto dunque non di una libera scelta, alla luce di un colloquio franco e libero con la propria coscienza, ma di una violenza imposta, non troppo diversa da quella che don Rodrigo esercita su Lucia indirettamente impedendone le nozze. Ma Lucia ha in sé la fede necessaria per lasciare che la Provvidenza divina ripristini il giusto corso delle cose. Gertrude invece cede, non per fede o per spirito di obbedienza, ma per viltà e debolezza d’animo, perché il Male, a cui Lucia sa opporsi con la determinazione della sua natura semplice, ma incrollabile, è per lei invece una seduzione irresistibile. Manzoni attraverso Gertrude sembra volerci dire che non bisogna incolpare Dio o il destino delle nostre disgrazie giacché siamo noi e noi soltanto, a farci complici delle ingiustizie, delle prepotenze che subiamo con la nostra colpevole passività accondiscendente. Proprio come Gertrude...
In questa vicenda dolorosa c’è un momento preciso in cui il cedimento definitivo della giovane donna al Male acquista un’evidenza concreta, come se il Male diventasse un oggetto visibile, tangibile. Gertrude infatti dopo aver pronunciato il suo "sì" viene subito riabilitata dalla famiglia e dalla società. Può tornare per un giorno, per poche ore ad essere una figlia onorata e una donna di rango. In questo breve intervallo tra due prigionie (il ripudio della famiglia ormai passato e il futuro prossimo di clausura, sia pure in una cella dotata di tutti i comfort) Gertrude è al centro di una cerimonia in cui l’ipocrisia e il formalismo della famiglia danno il meglio di sé. Può nuovamente sedersi a tavola accanto al padre e ai fratelli, ricevere gli omaggi e le lodi di familiari e domestici e persino dopo pranzo fare una passeggiata in carrozza con la madre e gli zii ascoltando impassibile i complimenti falsi che le piovono addosso:
Gli zii parlarono anche a Geltrude, come portava la convenienza in quel giorno: e uno di loro, il qual pareva che, più dell’altro, conoscesse ogni persona, ogni carrozza, ogni livrea, e aveva ogni momento qualcosa da dire del signor tale e della signora tal altra, si voltò a lei tutt’a un tratto e le disse: "ah furbetta! voi date un calcio a tutte queste corbellerie; siete una dirittona voi; piantate negl’impicci noi poveri mondani, vi ritirate a fare una vita beata, e andate in paradiso in carrozza.
(Tratto dal capitolo X)
L’indomani, prima dell’alba, la ragazza viene svegliata dalle domestiche che l’aiutano a vestirsi. È tempo di tornare in convento (cap. X):
Ubbidì, si vestì in fretta, si lasciò pettinare, e comparve nella sala, dove i genitori e il fratello eran radunati. Fu fatta sedere su una sedia a braccioli, e le fu portata una chicchera di cioccolata: il che, a que’ tempi, era quel che già presso i Romani il dare la veste virile.
La tazza di cioccolata sancisce ipocritamente la pace familiare, la riconquistata stima paterna, la gioia di aver ritrovato una figlia obbediente e onorata. Manzoni con amara ironia paragona l’omaggio di quel liquido prezioso come l’oro al gesto con cui i padri nell’antica Roma offrivano ai figli diventati ormai adulti la toga virile, simbolo di maturità e di libertà dalla patria potestas (che, finché restava in vigore, costringeva i figli a dipendere in tutto e per tutto dal padre e a obbedirgli pena il castigo o nei casi più estremi la morte). E amara deve essere sembrata al gusto di Gertrude e alla sua anima disperata quella bevanda, che i nobili del tempo consideravano uno dei più squisiti privilegi concessi alla ricchezza e al lusso di cui erano detentori, e che i poveri potevano assaporare solo con l’immaginazione. Per Gertrude la cioccolata non è un piacere come per il padre e i familiari, ma ha un sapore doloroso, è un privilegio che somiglia piuttosto all’appagamento dell’ultimo desiderio di un condannato. È il suo congedo dalla famiglia, da quella vita mondana che gli zii fingono di sprezzare e che lei invece avrebbe voluto vivere, riponendo in essa tutti i suoi desideri e speranze ora umiliati e distrutti e soprattutto da quel sogno di un amore puro, innocente che avrebbe voluto godere come figlia, e in futuro come moglie e madre.
Se la toga liberava i giovani romani dalla schiavitù paterna, quella chicchera fumante suggella la schiavitù perenne di Gertrude alla volontà paterna che la condurrà mediante l’imposizione e la forza all’infelicità e alla rovina. Il profumo e la dolcezza di quel cioccolato sono falsi e ingannevoli come i riti e le cerimonie della famiglia e della società che l’ha condannata a vivere una vita non sua. Bevendo quella cioccolata, Gertrude accetta l’imposizione di un peso che sa di non poter reggere, esponendosi così più facilmente alle tentazioni del Male che la degraderanno irreparabilmente nel corpo e nell’anima. E forse, nell’aroma sensuale e nel colore torbido e scuro di questo liquido esotico è già "pregustata" la sciagura di una vita futura, la leggenda nera della "Monaca di Monza", segnata dalla vocazione non alla santità, alla purezza, ma al torbido all’impuro alla menzogna, nella solitudine di un corpo prigioniero della carne.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: La Monaca di Monza: la psicologia di Gertrude nei Promessi Sposi
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