Riconosciuto come uno dei classici della letteratura italiana e del Novecento Uno, nessuno e centomila è un punto d’accesso privilegiato al pensiero di Luigi Pirandello (1867-1936) e alle posizioni filosofiche sottese alla sua poetica.
Terminato nel 1926, dopo una lunga gestazione, Uno, nessuno e centomila illustra, con la narrazione romanzesca, il pensiero di Pirandello sul tema della molteplicità delle identità e applica i principi di poetica enucleati nel saggio L’umorismo (1908).
La trama di “Uno, nessuno e centomila”
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Pubblicato prima a puntate, nella rivista «Fiera letteraria» e, poi, in volume, il romanzo ci presenta il protagonista, Vitangelo Moscarda (che è anche la voce narrante), come un uomo ordinario che vive in una tranquillità piatta e gode di una condizione economica agiata, dal momento che gestisce una banca, ereditata dal padre, a cui associa l’attività di usuraio.
Uno strano commento della moglie, che nota come il suo naso penda un po’ da una parte, destabilizza il protagonista che si rende conto di apparire agli altri in modo molto diverso da come lui stesso si percepisce. Da questa scoperta Vitangelo Moscarda inizia un percorso per scoprire chi sia veramente, apportando grandi cambiamenti nel proprio stile di vita: oltre a donare una casa ai propri affittuari, dopo averli sfrattati ed essersi sbarazzato della banca, Moscarda inizia a ossessionare amici e parenti con discorsi che lo fanno apparire come un pazzo, talmente preoccupanti da far decidere alla moglie di abbandonarlo e di intentare una causa contro di lui per farlo interdire.
Anche Anna Rosa, un’amica della moglie che inizialmente gli era rimasta vicino, appare talmente turbata dalle considerazioni senza senso di Moscarda, che decide di sparagli, ferendolo in modo grave.
Con un “io” ormai totalmente frantumato nei suoi centomila alter ego, il protagonista, in preda alle sue considerazioni deliranti e ai suoi tormenti, trova conforto prima in un religioso, che gli consiglia di abbandonare i beni materiali e poi, dopo essersi rifugiato nell’ospizio che lui stesso ha donato alla città, nel mondo di Natura, l’unico luogo in cui sente di poter abbandonare le molteplici maschere che la società gli ha imposto.
Recensione del libro
Uno, nessuno e centomila
di Luigi Pirandello
I capisaldi della poetica di Pirandello
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Per comprendere il significato di “Uno e nessuno e centomila” è necessario prima fissare alcuni capisaldi che permettano di capire la poetica e la produzione letteraria di Pirandello.
Il già richiamato saggio su L’umorismo gioca in questo caso un ruolo fondamentale perché evidenzia l’importanza della riflessione nella creazione artistica. Questa attività della mente ci fa scoprire il dramma umano nascosto dietro ogni situazione comica in cui ci imbattiamo quasi quotidianamente, quando ci accorgiamo che qualcosa non è come dovrebbe essere (questa prima osservazione, che suscita il riso, è il momento della comicità). Attraverso la riflessione, quasi un demone maligno che smonta le immagini per cercare di capire come sono fatte e cosa c’è dietro di esse, si passa dall’“avvertimento del contrario” al “sentimento del contrario”, da un’apparenza comica alla complessità del reale che si cela dietro situazioni paradossali. Da tali assunti derivano:
- il rifiuto dell’esistenza di una realtà oggettiva, contro il verismo (e il positivismo);
- la negazione, fatta propria anche dal Decadentismo, del valore conoscitivo della ragione e della scienza;
Similmente a Nietzsche, in Pirandello si parla, allora di relativismo gnoseologico perché la realtà è fluida, dialettica, interpretabile in modi molteplici e opposti, per questo è priva di una sua oggettiva consistenza. Oltre al contrasto tra verità e apparenza, Pirandello evidenzia che non esiste una verità univoca ma tante verità quante sono quelli che credono di possederla.
L’uomo pirandelliano vive un dissidio interiore perché pur consapevole della molteplicità del suo sentire e del suo agire, del suo incessante modificarsi, è costretto in una forma (nel nostro caso quella del borghese abbiente), in una maschera, legata a un solo aspetto o a un solo momento della nostra vita, che “tiene ferma” la sua identità e intanto soffoca la vita.
La nostra unica identità, fittizia perché maschera, si frantuma in realtà in centomila altre identità, diverse in base alle diverse persone che ci percepiscono e, allo stesso, tempo fa sì che noi non siamo più nessuno perché nessuna delle identità, delle forme che ci attribuiscono, corrispondono al nostro io, peraltro sempre mutevole. Quella forma o maschera potrebbe anche essere intesa come la funzione sociale di un individuo che produce freddezza e immobilismo, una burocratizzazione della vita costretta in leggi assurde e incomprensibili.
Quel che ne risulta è una condizione tragica per l’uomo che è costretto a sentirsi vivere, conteso tra il desiderio di essere libero senza una forma e la consapevolezza che una vita senza forma non può essere accettata né vissuta.
È proprio il relativismo gnoseologico che dà luogo all’esperienza della depersonalizzazione, a quell’attività che fa, di tanto in tanto, mettere l’uomo di fronte a sé stesso per osservare l’assurdità della sua condizione. Si tratta della condizione più comune ai personaggi pirandelliani: ognuno di essi prende coscienza del valore fittizio della forma in cui è costretto, dell’alienazione e dell’assurdità del vivere che tale forma implica e produce.
Prendere coscienza di essere coartati in una forma immobile produce sempre una messa in crisi della capacità di vivere dei personaggi anche se le reazioni possono essere diverse: l’uomo può decidere di portare consapevolmente quella maschera, rinunciando per sempre a sé stesso, oppure ribellarsi contro le convenzioni, giungendo alla follia o, ancora, ribellarsi contro la vita stessa, arrivando al suicidio.
In ogni caso, il relativismo gnoseologico porta con sé una continua demistificazione della realtà, perché mette in luce la convenzionalità dei valori, dei ruoli, delle situazioni, di istituzioni come la famiglia.
Il tono, l’animus con il quale l’uomo vive questa costante attività di demistificazione è la perplessità, una condizione amaramente comica dove, dopo la nascita di un pensiero, ne nasce subito dopo uno di segno opposto e contrario.
Lo scrittore, consapevole della mutevolezza del reale, del sentimento del contrario, disprezza e, allo stesso tempo, comprende e compatisce gli uomini che ha di fronte: da un lato il grottesco, portato di una condizione insensata e alienante, assurda; dall’altra la pietà per l’assurdità di quel vivere, una fraternità dolente che lo scrittore istituisce con l’uomo.
Sposare il relativismo gnoseologico e affermare la polivalenza e la contraddittorietà del reale ha delle conseguenze stringenti sul piano stilistico: Pirandello impiega, infatti, forme narrative diverse da quelle del romanzo ottocentesco e verista fondato sul presupposto di una realtà oggettiva, sul rapporto causa-effetto e su un ordine spazio-temporale.
Le forme narrative tradizionali vengono destrutturate, o sostituite a forme nuove, per rendere al meglio l’indecifrabilità del reale: la successione cronologica è scardinata; c’è una massiccia contaminazione tra generi letterari (dalla narrazione all’enunciazione ideologica, fino al dialogato teatrale) mentre il protagonista è sempre un antieroe, un inetto che non può o non riesce a realizzare la propria esistenza (come avviene per Mattia Pascal ma anche per Vitangelo Moscarda) e che arriva a rifiutare lo stato sociale.
Contro il preziosismo di Gabriele D’Annunzio, Pirandello sceglie una prosa disarmonica, che ricorre spesso al discorso indiretto libero, con un andamento concitato, nervoso, franto, vicino al parlato.
Il significato di “Uno, nessuno e centomila”
Romanzo tra i più complessi ed enigmatici di Pirandello, “Uno, nessuno e centomila” può essere considerato come il punto d’approdo di una riflessione letteraria e filosofica più che ventennale, iniziata con L’umorismo e proseguita ne Il fu Mattia Pascal e nelle Novelle per un anno dove alcune linee di forza della poetica pirandelliana subiscono anche delle sostanziali modifiche.
Uno, nessuno e centomila è sicuramente una schietta applicazione dei principi teorici richiamati sopra, dove il tema della scomponibilità infinita della personalità e della "forma" umana emerge chiaramente non solo nella trama ma anche nello stile di Pirandello; le riflessioni di Vitangelo Moscarda (la metanarrazione che è un altro tratto stilistico caratterizzante) mostrano che non soltanto la realtà che ci circonda ma anche la nostra identità soggettiva, non può essere interpretata in senso univoco.
All’umorismo e al sentimento del contrario si associa, qui, una dimensione grottesca, necessaria per descrivere la follia in cui Vitangelo Moscarda cade progressivamente, per rappresentare la realtà, intesa ormai come una somma di frammenti privi di senso, Pirandello ricorre spesso a effetti di straniamento e di distorsione, che fanno apparire (in base al relativismo dei punti di vista) anche la pazzia come uno dei possibili modi di stare al mondo.
Anche la meditazione posta alla fine del romanzo è tutta tesa a mostrare, oltre alla totale frantumazione dell’io, che la vicenda umana può anche non arrivare a “concludere” assolutamente nulla.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Uno, nessuno e centomila”: il pensiero di Pirandello
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